Mediazione-civile-d.lgs-28-2010

Nullità dell’atto di citazione e mancato esperimento del tentativo di mediazione

Secondo il Tribunale di Palermo, sez. distaccata di Bagheria, sentenza 13 giugno 2012, nell’ipotesi in cui nell’atto di citazione risulti omesso l’avvertimento della decadenza di cui all’art. 38 c.p.c. e, per giunta, trattandosi di materia in cui la mediazione sia obbligatoria, il relativo tentativo non sia stato esperito, il giudice non può disporre il rinvio innanzi all’organismo di mediazione.
Senza dubbio va preliminarmente rilevato come la Cassazione abbia più volte ribadito la necessità, alla luce dell’ordinamento vigente, di interpretare ed applicare le norme processuali nel senso dei principi di cui all’art. 111 Cost., relativi alla ragionevole durata del processo, con la conseguenza che deve ritenersi escluso che il mancato compimento di adempimenti processuali del tutto superflui possa condurre a conseguenze contrarie alle esigenze di contenimento dei tempi processuali.
Va tuttavia osservato, nel senso opposto, il fatto che la rinnovazione della notifica della citazione ed il contestuale invito a procedere in mediazione impedirebbe alle parti ancora non presenti in causa di porre in evidenza le ragioni per le quali, a loro avviso, la mediazione non dovrebbe effettuarsi. D’altra parte, ove il soggetto chiamato in mediazione aderisse all’invito, sarebbe tenuto a sopportare i costi del procedimento senza essere ancora costituito in giudizio, mentre, ove disertasse il tentativo, sarebbe poi costretto, nel caso di successiva costituzione in giudizio, a motivare tale sua assenza con un giustificato motivo, onde evitare le conseguenze sfavorevoli previste dall’art. 8, co. 5, D.lgs n. 28 del 2010.
Ecco il testo del provvedimento in esame:

Tribunale di Palermo, sez. distaccata di Bagheria
Sentenza 13 giugno 2012

̋Visto che nell’atto di citazione manca l’avvertimento relativo alle decadenze di cui all’art. 38 c.p.c;
visto che l’art. 164 c.p.c. prevede per tale ipotesi la nullità della citazione;
rilevato che parte convenuta non si è costituita, con la conseguenza che non si è sanato il detto vizio;
ritenuta, quindi, nulla la citazione;
rilevato che, trattandosi di causa in materia di scioglimento della comunione, andava esperito il previo procedimento di mediazione;
rilevato, in generale, che non può disporsi la rinnovazione della citazione o della notificazione della stessa o l’integrazione del contraddittorio per una successiva udienza assegnando contestualmente il termine per la proposizione dell’istanza di mediazione;
considerato, infatti, che è necessario garantire a tutte le parti del giudizio la possibilità di interloquire sulla necessità o meno di instaurare un procedimento di mediazione (con riferimento ad esempio alla circostanza della sussumibilità della specifica controversia in quelle soggette per legge alla mediazione obbligatoria);
ritenuto che l’invio delle parti in mediazione contestualmente all’imposizione degli adempimenti per la regolare instaurazione del contraddittorio sarebbe sì una soluzione attuativa del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, ma impedirebbe alle parti ancora non presenti in giudizio di evidenziare le ragioni per cui non andrebbe effettuata la mediazione obbligatoria e potrebbe comportare, in caso di presentazione davanti al mediatore del chiamato in mediazione, la sopportazione di costi ad opera di quest’ultimo soggetto ancora non costituito in giudizio e la necessità per lo stesso chiamato, in caso di sua contumacia nel procedimento di mediazione, di dover motivare il giustificato motivo della sua assenza qualora decidesse di costituirsi poi in giudizio e ciò al fine di evitare le conseguenze negative previste dall’art. 8, comma 5, d.lgs. 28/10;
valutato che è vero che più volte la Corte di Cassazione ha evidenziato che l’ordinamento vigente impone la necessità di interpretare ed applicare la normativa processuale in armonia con il principio di cui all’art. 111 Cost. sulla ragionevole durata del processo come principio che conduce ad escludere che il mancato compimento di adempimenti processuali che si siano appalesati del tutto superflui possa condurre ad una conseguenza di sfavore per il processo, ma che è anche vero che ciò vale sempre che siano rispettati il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa (v. Cass., sez. un., 20604/08; sez. un. 9962/10; sull’incidenza sulle regole processuali del principio della ragionevole durata del processo solo dopo la regolare instaurazione del contraddittorio v. anche, in materia di decisioni della c.d. terza via, Cass., sez. III, 6051/10);
considerato comunque, che, in linea con le citate esigenze di ragionevole durata del processo, nulla esclude che nel presente giudizio l’attore si attivi spontaneamente, prima della prossima udienza, per provocare il tentativo di mediazione, così evitando di dover attendere a tal fine l’udienza ex art. 183 c.p.c. per poi dovere subire il rilievo officioso dell’improcedibilità della domanda e, quindi, un ulteriore rinvio ad oltre quattro mesi di distanza;
P.Q.M.
dichiara la nullità della citazione e ne dispone la rinnovazione fissando come nuova prima udienza delle parti quella del 19.12.2012, ore 10.00”.

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L’ipoteca iscritta con l’accordo di mediazione costituisce garanzia giudiziale

Secondo il Tribunale di Varese, decreto 12 luglio 2012, l’art. 12, secondo comma, D.lgs n. 28 del 2010, reca una norma speciale avente natura integrativa della disciplina di diritto comune in materia di ipoteca.
Deve cioè ritenersi che il verbale di conciliazione omologato costituisce titolo per una iscrizione di ipoteca avente carattere e natura “giudiziale”, pur rimanendo fermo che i dati di iscrizione devono essere riferiti all’accordo e non al decreto.
Di seguito il testo integrale del provvedimento.

TRIBUNALE DI VARESE
Sez. Prima Civile

Decreto 12 luglio 2012.
Ai sensi dell’art.12 comma II, del d.lgs.. 28/2010, il verbale di accordo, debitamente omologato, costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca. Nell’alveo della mediazione, le parti – concludendo il negozio compositivo della lite – danno linfa ad un contratto che resta a base volontaristica, senza che l’omologa incida sulla natura del patto. Ne discende che la previsione di cui all’art.12 cit. va riferita, per l’appunto, all’accordo (eventualmente contenuto nel verbale) ma non ad atti diversi.
Vi è, però, che nel caso in esame, è il Legislatore stesso ad avere effettuato una specifica scelta discrezionale prevedendo che l’ipoteca iscritta con l’accordo di mediazione sia “giudiziale”. Deve, dunque, prendersi atto di una norma speciale integrativa della disciplina di diritto comune che vincola l’interpretazione nel senso di ritenere l’iscrizione, per l’appunto, giudiziale, fermo restando che i dati di iscrizione devono essere riferiti all’accordo e non al decreto.
E’ evidente che questa interpretazione presenta delle aporie: la base è volontaria ma la garanzia è giudiziale; d’altro canto, trattasi di scelta del legislatore favor mediatonis per evitare che l’accesso all’ipoteca dipenda o meno dalla volontà dei litigante di prevedere espressamente la garanzia nell’accordo, invece, oggi, assistito ope legis dal favore dell’ipoteca di tipo giudiziale.
Nulla per le spese, tenuto conto della particolarità della questione.

P.Q.M.

Ordina al Conservatore di provvedere alla iscrizione dell’ipoteca giudiziale come richiesta dalla parte ricorrente.
Si comunichi.
Nulla sulle spese.
Decreto Esecutivo
Varese, 12.7.2012
Il giudice rel. Il Presidente
dr.ssa Chiara Delmonte Dr. Giuseppe Buffone

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Domanda di divisione della casa coniugale in sede di divorzio: la mediazione è obbligatoria?

In seguito alla proposizione di una domanda con la quale si sottoponeva all’attenzione del Giudice la questione dell’obbligatorietà o meno della procedura di mediazione a fronte di una istanza di divisione della casa coniugale nell’ambito di una causa di divorzio, ad avviso del Tribunale di Tivoli, ordinanza 30 maggio 2012, la disposizione di cui all’art. 5 del D.lgs. n. 28 del 2010 non sarebbe chiara, e dunque non suscettibile di univoca interpretazione, non avendo previsto alcunché in merito al rapporto tra riti diversi. Essa, in sostanza, non sembrerebbe idonea ad offrire quella certezza della regola che deve essere propria della norma (e che, in ultima analisi, ne connota la funzione) rimettendo il compito di legiferare “di fatto” al Giudice, con ciò delegando all’autorità giudiziaria una vera e propria attività normativa, anziché ermeneutica e rischiando di porre le parti (rectius la generalità degli utenti della Giustizia) in una inaccettabile situazione di incertezza giuridica.
Il Giudice ha dunque considerato necessaria la verifica di conformità alla Costituzione di un simile legiferare sotto il profilo della incertezza che deriva nel diritto, sollevando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 D.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 – attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali – con riferimento agli articoli 11, 24, 111, 117 della Costituzione nonché dell’art. 6 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e degli artt. 47, 52 e 53 della Carte dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui viola il principio di non incertezza del diritto (“defaut de securité juridique”) non prevedendo una formulazione della normativa che di comprensione univoca e chiara del proprio significato.
Nell’ordinanza di rimessione, il Giudice a quo premette la necessità di risolvere, preliminarmente, la “… questione di legittimità costituzionale e di compatibilità con le norme UE dell’istituto della mediazione introdotto dal D.lgs. 28/2010.
Viceversa, dovrebbe procedersi a disapplicazione dell’istituto della mediazione nel suo insieme, senza entrare nello specifico del difetto di certezza di diritto costituzionalmente rilevante riguardo all’ambito applicativo della norma.
In proposito, ed attendendo gli insegnamenti della Consulta sulle questioni già sollevate da altri uffici giudiziari, questo Giudice ritiene di limitare i quesiti alla attenzione della Consulta a quelli sopra evidenziati, sinteticamente considerato, in ordine alle questioni pendenti innanzi alla Consulta, che la previsione di uno strumento quale il tentativo obbligatorio di conciliazione é finalizzata ad assicurare l’interesse generale al soddisfacimento più immediato delle situazioni sostanziali realizzato attraverso la composizione preventiva della lite rispetto a quello conseguito attraverso il processo, risultando, per tale via, perfettamente coerente anche con i principi e gli obiettivi propri del diritto comunitario.
Il fatto che il D.lgs 28/2010 non preveda la necessaria assistenza di un difensore, infatti, non significa che alla parte sia vietato avvalersi di un avvocato nel corso della procedura e, comunque, come ha osservato attenta dottrina, la mediazione opera su un piano esclusivamente negoziale, potendo, sotto tale profilo, essere avvicinata alla disciplina dell’arbitrato, in cui non è prevista per le parti l’assistenza obbligatoria dell’avvocato. La costituzionalità della normativa citata, per tutte le ragioni sopra illustrate, permette di affermarne anche la compatibilità con il diritto comunitario, per come evincibile anche dalla sentenza del 18 marzo 2010 della Corte di giustizia dell’Unione europea, pronunciatasi (nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08 e C-320/08) proprio sulla previsione, da parte dello Stato italiano, di un tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di telecomunicazioni. La Corte di Lussemburgo, infatti, ha affermato che il diritto alla tutela giurisdizionale, quale diritto fondamentale dell’individuo, può anche soggiacere a restrizioni, purchè le stesse risultino proporzionate e funzionali al soddisfacimento di interessi generali, quali, appunto, il decongestionamento dei tribunali o la definizione più spedita e meno onerosa delle controversie in materia di comunicazioni elettroniche.
Inoltre, il procedimento di mediazione obbligatoria non preclude la tutela cautelare e la trascrizione della domanda giudiziale; produce, sulla decadenza e sulla prescrizione, effetti simili a quelli propri della domanda giudiziale. Il sacrificio in termini di tempo e i costi imposti dalla mediazione obbligatoria, del resto, sono potenzialmente giustificati e resi ragionevoli dal vantaggio che può ottenersi in caso di esito positivo della procedura.
Infine, non sembra profilarsi neppure il denunciato eccesso di delega. L’articolo 60 della legge 69/2009 nulla, infatti, ha previsto in ordine alla facoltatività od obbligatorietà del preventivo ricorso alla mediazione e la scelta della obbligatorietà fatta dal Legislatore non è una scelta irragionevole, in quanto non si pone fuori dalla tradizione processuale italiana, che conosce, come noto, varie ipotesi di tentativi obbligatori di conciliazione
”.
Sulla base delle ragioni che precedono, dunque, il Tribunale di Tivoli, ritenuto l’istituto in sé e per sé conforme ed anzi funzionale alle normative sovranazionali, precisa che intende porre non un problema di compatibilità dell’istituto medesimo con l’impianto costituzionale e normativo europeo, “…ma solo una questione di determinazione dell’ambito di applicazione sotto il profilo del difetto di securite juridique.
In questa ipotesi non può il Giudice procedere alla disapplicazione totale di un apparato normativo conforme alle leggi e ai principi cui è gerarchicamente sottoposto, ma deve limitarsi ad interessare il Giudice delle Leggi alla verifica di costituzionalità relativamente al profilo di interesse
”.

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Già in discussione il neonato filtro in appello?

Date le divergenti posizioni emerse nella maggioranza durante il dibattito attualmente in corso presso la Camera dei deputati, sembra che il filtro in appello, previsto dagli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., introdotti dall’art. 54 del D.L. n. 83 del 2012, sia destinato ad essere emendato, anche se del tutto incerte sembrano essere le sembianze che dovrebbe andare ad assumere all’esito del procedimento di conversione.
L’obiettivo dichiarato è quello di limitare gli spazi, ritenuti eccessivi, di discrezionalità messi dalla nuova normativa a disposizione del giudice nel valutare le probabilità di accoglimento dell’impugnazione.
Due sono le principali ipotesi sul tavolo circa le modifiche da apportare al testo. Da un lato, una cospicua parte della maggioranza pare attestata su posizioni che, di fatto, svuoterebbero di efficacia la norma, rafforzando semplicemente una possibilità che comunque il Codice di procedura offre già oggi e cioè la pronuncia di infondatezza emessa dal giudice alla prima udienza. Un intervento che andrebbe certamente incontro alle preoccupazioni espresse dall’avvocatura, finendo con il limitare di molto la portata innovativa della norma.
Da parte sua, il Ministero appare favorevole ad un diverso emendamento che riprende in larga parte i suggerimenti del CSM e spinge per l’introduzione di un appello che debba contenere, a pena di inammissibilità, la specificazione, in termini analitici, delle parti impugnate della sentenza oggetto di gravame, delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione di fatto operata dal Giudice di primo grado e delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. Una correzione che ridurrebbe i margini di intervento discrezionale del Giudice, senza però pregiudicare irreparabilmente le finalità del filtro.
Il ministro Severino non pare orientata a fare passi indietro da una posizione che sembra rappresentare, per il Governo, il punto di equilibrio più avanzato possibile. Si va, dunque, verso un più che probabile voto di fiducia in aula, dagli esiti largamente imprevedibili.
L’avvocatura, peraltro, preme anche con riferimento all’altra grande tematica ritenuta pregiudiziale, quella cioè rappresentata dalla nuova geografia giudiziaria.
Innanzi alle commissioni Giustizia di Camera e Senato il CNF ha esposto come, a proprio avviso, “rivedere la geografia giudiziaria è un’operazione necessaria, ma il Governo deve riscrivere il decreto delegato tenendo conto di tutti i criteri, compresi quelli legati alle specificità territoriali che ha totalmente trascurato. Così com’è, infatti, non garantisce né risparmi né efficienza. L’assetto della giustizia sarebbe fragile e il provvedimento del Governo esposto a rischio di incostituzionalità“.
Dal canto suo, l’OUA, sentito anch’esso in sede parlamentare, ha piuttosto tenuto a precisare che “i principi previsti nella delega non risultano valorizzati: si pensi al mancato riconoscimento del tasso di criminalità, dell’estensione territoriale e della presenza di infrastrutture giudiziarie già pronte per la consegna e per le quali si sono addirittura sostenute spese superiori al possibile risparmio. Per esempio, i casi eclatanti di Chiavari, Castrovillari e Bassano del Grappa. Criteri che escludono di poter considerare sopprimibili i 37 tribunali indicati solo per non aver raggiunto uno dei parametri indicati nella relazione del Gruppo di studio“.

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Mancata partecipazione al procedimento di mediazione e argomento di prova nel successivo giudizio

L’art. 8 D.lgs 28/10, relativamente alla mancata partecipazione senza giustificato motivo della parte convocata al procedimento di mediazione, prevede che il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.
Sul punto, appare di non trascurabile interesse la recente pronuncia 5 luglio 2012 del Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, nella quale, con riferimento all’ipotesi di mancata partecipazione della parte ritualmente convocata al procedimento di mediazione (nella fattispecie mediazione delegata), si procede ad una valutazione critica degli orientamenti emersi in giurisprudenza in ordine alla nozione, e al conseguente possibile utilizzo, dell’argomento di prova di cui all’art. 116, co. 2, c.p.c.
Il Giudice, pronunciata sentenza non definitiva, con separata ordinanza invitava le parti ad avviare il procedimento di mediazione nel termine ivi previsto. Quest’ultimo risultava ritualmente avviato dalla parte attrice, ma i convenuti decidevano di non aderire al tentativo, asserendo di essere intenzionati a proporre appello immediato contro detta pronuncia, in quanto a loro dire manifestamente erronea, e ritenendo, quindi, superflua la partecipazione alla procedura di mediazione.
Si trattava, quindi, di valutare le conseguenze della mancata partecipazione dei convenuti ritualmente convocati al procedimento di mediazione attivato, nella fattispecie, dall’attore su impulso del giudice ex art. 5 D.lgs n. 28 del 2010, in particolare alla luce di quanto previsto dal menzionato art. 8 dello stesso decreto legislativo, secondo il quale, ove la mancata partecipazione non dipenda da un giustificato motivo, il giudice può desumerne argomento di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c.
All’interno dell’apparato motivazionale della pronuncia in esame, il giudice rileva innanzitutto il fatto che, “…quanto alla possibilità di valorizzare, nel processo, come argomento di prova a sfavore di una parte determinate condotte della stessa (nella specie la mancata comparizione in mediazione, senza giustificato motivo, della parte convocata) si confrontano nella giurisprudenza due diverse opinioni.
Secondo una prima tesi la decisione del giudice non può essere fondata esclusivamente sull’art. 116 c.p.c, cioè su circostanze alle quali la legge non assegna il valore di piena prova, potendo tali circostanze valere in funzione integrativa e rafforzativa di altre acquisizioni probatorie.
Secondo altra opinione non vi è alcun divieto nella legge affinché il giudice possa fondare solo su tali circostanze la sua decisione, valendo come unico limite quello di una coerenza e logica motivazionale in relazione al caso concreto.
È espressione della prima teoria l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la norma dettata dall’art. 116 comma 2 c.p.c., nell’abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell’interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di consequenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre argomenti di prova, e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze (fra le tante Cassazione civile, sez. trib., 17/01/2002, n. 443)
”.
La motivazione prosegue osservando come “…la norma in questione merita senz’altro una maggiore utilizzazione anche se a differenza di altri casi in cui da una determinata circostanza è consentito ritenere provato tout court il fatto a carico della parte che tale circostanza subisce, in questo caso la legge prevede che il giudice possa utilizzarla per trarre dalle circostanze valorizzate argomenti di prova.
La norma dell’art. 116 c.p.c. viene richiamata dal legislatore della mediazione (art. 8 decr. lgs. cit.) nell’ambito della ricerca ed elaborazione di una serie di incentivi e deterrenti volti a indurre le parti, con la previsione di vantaggi per chi partecipa alla mediazione e di svantaggi per chi al contrario la rifugge, a comparire in sede di mediazione al fine di pervenire a un accordo amichevole che prevenga o ponga fine alle liti.
Ne consegue, tali essendo le finalità dell’inserimento nel decreto lgs. 28/10, che equivarrebbe a tradire l’intento del legislatore svalutare la portata di tale norma considerandola una mera e quasi irrilevante appendice nel corredo dei mezzi probatori istituiti dall’ordinamento giuridico.
Va considerato che nell’attuale situazione della giustizia civile, affetta da una endemica ed apparentemente insuperabile crisi principalmente nei tempi di risposta alla domanda di giustizia, causata dalla imponente mole di cause iscritte nei tribunali e delle corti, e viste le sempre più gravi conseguenze, economiche ed ordinamentali, derivanti dal ritardo nella definizione dei processi, sia necessario rivalutare, senza forzature ma con la doverosa umiltà dell’interprete, ciò che è scritto nella legge.
È necessario tuttavia fissare delle regole precise al riguardo. Deve essere ben chiaro in primo luogo che giammai la mancata comparizione in sede di mediazione potrà costituire argomento per corroborare o indebolire una tesi giuridica, che dovrà sempre essere risolta esclusivamente in punto di diritto.
A favore o contro la parte non comparsa in mediazione.
Ed infatti lo strumento offerto dall’art. 116 c.p.c. attiene ai mezzi che il giudice valuta, nell’ambito delle prove libere (vale a dire dove si esplica il principio del libero convincimento del giudice precluso in presenza di prova legale ) ai fini dell’accertamento del fatto.
L’argomento di prova appartiene all’ampio armamentario degli strumenti utilizzati dal giudice in un ambito in cui non opera la prova diretta, vale a dire quella dove si ha a disposizione un fatto dal quale si può fondare direttamente il convincimento.
Nel processo di inferenza dal fatto al convincimento l’argomento di prova ha la stessa potenzialità probatoria indiretta degli indizi.
E come le presunzioni semplici ha come stella polare il criterio della prudenza (art. 2729 c.c.) che deve illuminarne l’utilizzo da parte del giudice.
Ciò detto si ritiene di poter affermare che la mancata comparizione della parte regolarmente convocata, come nel caso in esame, davanti al mediatore costituisce di regola elemento integrativo e non decisivo a favore della parte chiamante, per l’accertamento e la prova di fatti a carico della parte chiamata non comparsa.
Con ciò non si intende svalorizzare quella giurisprudenza della Suprema Corte che ha ritenuto che l’effetto previsto dall’art. 116 c.p.c può – secondo le circostanze – anche costituire unica e sufficiente fonte di prova (Cassazione civile, sez. III, 16/07/2002, n. 10268, che così si esprime: , Cass. 6 luglio 1998 n. 6568; 1 aprile 1995 n. 3822; 5 gennaio 1995 n. 193; 14 settembre 1993 n. 9514; 13 luglio 1991 n. 7800; 25 giugno 1985 n. 3800).
Ritiene infatti il giudice che secondo le circostanze del caso concreto gli argomenti di prova che possono essere tratti dalla mancata comparizione della parte chiamata in mediazione ed a carico della stessa nella causa alla quale la mediazione, obbligatoria o delegata, pertiene, a seconda dei casi possano costituire integrazione di prove già acquisite, ovvero unica e sufficiente fonte di prova
”.
Sulla base delle considerazioni che precedono, il Giudice ha conseguentemente condannato la parte convenuta, ritenendo la mancata partecipazione al procedimento di mediazione finalizzata al perseguimento di intenti meramente dilatori, dal momento che, “…quanto al giustificato motivo dell’assenza, l’affermazione della convenuta circa la sussistenza dello stesso in relazione alla ritenuta erroneità della sentenza parziale, da essa appellata, non può essere condivisa.
Traslando tale ragionamento in generale si potrebbe infatti affermare che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione (in questo caso la censura riguarda la sentenza del giudice), e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, sia validamente dispensata dal comparirvi.
L’esponente non si avvede che in tal modo sussisterebbe sempre un giustificato motivo di non comparizione, se è vero com’è vero che se la controparte condividesse la tesi del suo avversario (o come in questo caso, le ragioni della sentenza non definitiva emessa a suo carico) la lite non potrebbe neppure insorgere e se insorta verrebbe subito meno. La ragione d’essere della mediazione si fonda proprio sulla esistenza di un contrasto di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti, di interpretazioni etc. che il mediatore esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvicinamento delle posizioni delle parti fino al raggiungimento di un accordo amichevole
”.

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