Il Tribunale di Palermo conferma l’orientamento favorevole all’effettività della mediazione

Commento

Con l’ordinanza in commento, il Tribunale di Palermo oltre a riproporre l’ormai consueto schema fondato sull’utilizzo combinato degli strumenti che il legislatore ha ritenuto di fornire ai giudici per favorire al massimo la fuoriuscita dai processi pendenti, torna con forza sull’esigenza di effettività del tentativo di mediazione delegata (e, per estensione, di qualsiasi tentativo di mediazione…) originariamente affermata dalla c.d. giurisprudenza fiorentina (cfr. ordd. 17 e 19 marzo 2014).

Sotto il primo profilo, il Giudice, premesso che sussistono nel caso di specie tutti i presupposti per la formulazione di una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. (e con gli effetti, aspetto quest’ultimo di particolare rilevanza, di cui all’art. 91 c.p.c.), anticipa che “…comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrà la mediazione ex officio iudicis”, strumento quest’ultimo che deveritenersi espressione del potere attribuito dalla legge al giudice di “…imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili”.

Per quanto concerne poi gli aspetti relativi alle modalità del tentativo di mediazione, premesso che occorre domandarsi che cosa occorra in realtà che risulti espletato dalle parti affinchè l’ordine del giudice possa considerarsi adempiuto, il Tribunale mostra di aderire all’impostazione esaustivamente esplicata dai giudici fiorentini nelle ben note ordinanze 17 e 19 marzo, in base alla quale il tentativo deve essere effettivo.

Il Tribunale, dunque, ribadisce che non avrebbe alcuna ragion d’essere una dilazione del processo civile per un mero adempimento burocratico, non potendosi in altro modo definire un tentativo che si risolva esclusivamente nella comparizione delle parti (o, peggio, dei soli avvocati delle stesse) dinanzi al mediatore per esprimere il proprio “no” aprioristico ad aprire un tavolo di discussione.

Ciò, evidentemente, finirebbe con lo svilire il concetto stesso di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Pertanto, occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione, ponendosi, altrimenti, un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione.

In sostanza, dunque, come da ormai consolidata giurisprudenza, si individuano le ragioni della “impossibilità di iniziare la procedura”, di cui all’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010, nelle sole questioni preliminari o pregiudiziali di natura oggettiva, avendo cura di ribadire come non sia previsto in alcun modo che le parti manifestino una sorta di volontà di partecipazione al tentativo di mediazione effettivamente inteso.

Infatti, il Tribunale rileva come sussista “…un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avveratase il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.”. Pertanto, “…il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro. Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di  mediazione sia stato effettivo”.

Naturalmente, una lettura frettolosa ed approssimativa dell’art. 8 D.lgs 28/2010  sembrerebbe giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non  intendessero effettuare un vero tentativo di conciliazione (verosimilmente al solo scopo di non versare l’indennità di mediazione prevista per il rispettivo scaglione di riferimento) ben potrebbero esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione, con conseguente chiusura del procedimento. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe però a dir poco assai discutibile, in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa.

Ragion per cui, il giudice siciliano ritiene, come anticipato poc’anzi, che “…Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilitàdi iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo)”.

 

Testo integrale

TRIBUNALE DI PALERMO  –  Sezione prima civile

Il Giudice

sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 23.7.2014;

OSSERVA

Parte attrice ha avanzato domanda di risarcimento danni (per € 30.000) nei confronti dell’Università degli Studi di …… lamentando una negligenza ed un’imperizia professionale di personale sanitario dell’Università in questione, personale che, nel rimuovere un catetere venoso precedentemente applicato nella mano destra, avrebbe compiuto un’errata manovra causando la rottura dell’agocannula all’interno della vena, con conseguente necessità di intervento chirurgico di asportazione del tratto venoso trombizzato.

Costituendosi, l’Università convenuta ha dedotto l’inesistenza di alcun comportamento colposo del suo personale sanitario e parasanitario, che si sarebbe scrupolosamente attenuto, nel praticare la terapia infusionale oggetto del giudizio, a quella che è la tecnica generalmente seguita in casi analoghi.

In fase istruttoria è stata disposta CTU. Nell’elaborato depositato dal consulente d’ufficio si legge che “è da censurare il mancato riconoscimento della rottura dell’agocannula, da cui è derivato il realizzarsi di una tromboflebite che ha costretto l’attrice, dopo circa un mese, a far rientro presso il pronto soccorso ed essere sottoposta alla rimozione chirurgica del corpo estraneo. Sulla base di quanto riferito è evidente la sussistenza del nesso di causalità materiale tra l’evento dannoso occorso in occasione del trattamento sanitario presso il Policlinico universitario di ….. (frammento di catetere venoso erroneamente lasciato in vena) in data 12.09.1998 e le lesioni accertate nei giorni seguenti (algia e gonfiore a causa dell’infiammazione instauratasi)… La condotta del sanitario che ha rimosso A.V.P.(accertamento venoso periferico) appare censurabile per non avere appurato la integrità dell’AVP all’atto della rimozione. Il tempestivo riconoscimento della rottura del catetere avrebbe infatti permesso di attivare la procedura di rimozione chirurgica nell’immediatezza, impedendo di fatto l’oltremodo perdurare della sintomatologia algico disfunzionale a carico dell’arto destro sino al 29.10.2008, in occasione del secondo accesso al Pronto soccorso allorquando venne rimosso chirurgicamente il corpo estraneo”.

Il CTU ha poi accertato la sussistenza di un’inabilità temporanea assoluta di giorni 20 e di un’inabilità temporanea assoluta di altri giorni 20, nonché (in considerazione di un esito cicatriziale chirurgico in prossimità del polso destro di circa 3 cm di lunghezza e di una sintomatologia algica) di un danno biologico del 2%.

Ed a conclusioni sostanzialmente identiche era già arrivato altro consulente d’ufficio nel giudizio in passato instaurato dall’attrice per gli stessi fatti nei confronti di altro ente convenuto e conclusosi con sentenza di questa Sezione del 27.4.2007 dichiarativa del difetto di legittimazione passiva di tale convenuto.

Orbene, ciò premesso, si ritiene adesso opportuno formulare alle parti, ex art. 185 bisc.p.c. e con effetti ex art. 91 c.p.c., la seguente proposta conciliativa:

art. 1) pagamento ad opera di parte attrice in favore di parte convenuta della somma di € 7.032,60 (somma calcolata tenendo conto di quanto accertato dal CTU, dei valori risultanti dalle tabelle del Tribunale di Milano sulla liquidazione del danno non patrimoniale, nonché della rivalutazione monetaria e degli interessi);

art. 2) rinunzia ad opera delle parti a tutte le domande, eccezioni e difese di cui al presente giudizio;

art. 3) pagamento ad opera di parte convenuta in favore di parte attrice della somma di € 1.620,43 a titolo di spese di lite.

L’accettazione della detta proposta conciliativa comporterebbe per parte attrice il vantaggio di conseguire integralmente quanto riconosciuto dal CTU (sebbene ciò non corrisponda a quanto dalla stessa parte attrice richiesto) e di ottenere il rimborso delle spese di lite fino ad oggi sostenute e comporterebbe, altresì, per parte convenuta, il vantaggio di non corrispondere somme ulteriori rispetto a quelle oggetto dell’accertamento del CTU e di bloccare ad oggi (escludendo quindi le spese per la fase decisoria del presente processo e le spese per eventuali gradi successivi del giudizio) le spese di lite da pagare in favore di parte attrice.

Va quindi fissata apposita udienza al fine di verificare la posizione delle parti sulla detta proposta conciliativa.

Comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrà la mediazione ex officio iudicis.

Sul punto è bene ricordare che, al di là dei casi di mediazione obbligatoria ex lege, la legge 98/13 ha pure stabilito che il giudice può – anche in grado di appello e valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti – disporre l’esperimento del procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda. La legge 98/13 attribuisce quindi al giudice il potere di imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili;

Peraltro, la mediazione ex officio iudicis può essere disposta anche per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge 98/13 (e ciò in forza del principio per cui tempus regit actum ed in quanto il nuovo comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 attribuisce un nuovo potere discrezionale al magistrato che va considerato come una nuova facoltà processuale e quindi applicabile dal momento dell’entrata in vigore della norma a tutti i procedimenti, compresi quelli pendenti) nonché pure per le materie diverse da quelle assoggettare a mediazione obbligatoria ex lege in base al comma 1 bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 (il che sembra del tutto evidente se si considera che per le materie di cui al citato comma 1 bis è già prevista una forma di mediazione obbligatoria ed a nulla varrebbe la mediazione ex officio iudicis).

Con particolare riferimento ai giudizi pendenti, va poi osservato che nelle materie già selezionate dal Legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege (come la responsabilità medico-sanitaria rivendicata nel presente giudizio) può ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità, avendo già la normativa formulato ex ante una prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione.

A ciò si aggiunga che la mediazione ex officio iudicis può poi essere disposta anche se una delle parti del processo è una Amministrazione Pubblica. Nelle fonti normative non si rinvengono, infatti, disposizioni che escludono le pubbliche amministrazioni dall’ambito di applicazione della disciplina introdotta. Pertanto, la normativa in materia di mediazione in ambito civile e commerciale trova applicazione anche in riferimento al settore pubblico, come pure si legge nella circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 9/2012.

È bene adesso svolgere qualche considerazione in relazione alle conseguenze derivanti dalla mancata attivazione ad opera delle parti della mediazione prescritta dal giudice. La soluzione preferibile è quella che ritiene necessaria l’emissione di una sentenza di improcedibilità della domanda, restando però da chiarire se tale tipo di decisione sia da ritenere non adottabile ogniqualvolta venga instaurato il procedimento di mediazione disposto dal giudice o se occorra qualcosa di più per ritenere adempiuto l’ordine giudiziale.

Secondo Trib. Firenze, sez. II civile, 19.3.2014 le condizioni verificatesi le quali può ritenersi correttamente eseguito l’ordine del giudice e può quindi considerarsi formata la condizione di procedibilità sono: 1) che vi sia stata la presenza personale delle parti; 2) che le parti abbiano effettuato un tentativo di mediazione vero e proprio (ed anche per Trib. Firenze, sez. spec. impresa, 17.3.2014 occorre la comparizione personale delle parti).

Nel suo articolato e ben strutturato ragionamento il giudice fiorentino (ord. 19.3.2014) parte dalla considerazione per cui l’art. 5 e l’art. 8 del d.lgs. 28/10 sono formulati in modo ambiguo, posto che nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal mediatore ed a verificare la volontà di iniziare la mediazione (l’art. 8 prevede, infatti, che “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”). Tuttavia, nell’art. 5, comma 5 bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo”. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria. Non avrebbe molto senso, secondo il Tribunale di Firenze, parlare di ‘mancato accordo’ se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria. Ciò a prescindere dalle difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase c.d. preliminare e la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a chi ha pratica della mediazione), data la non felice formulazione della norma.

Pertanto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario, al fine di spiegare la detta ambiguità interpretativa, ricostruire la regola avendo presente lo scopo della disciplina, anche alla luce del contesto europeo in cui si inserisce (direttiva 2008/52/CE).

Sei sono gli argomenti che hanno portato il Tribunale di Firenze a ritenere necessaria, per la formazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale dopo la mediazione ex officio iudicis, la presenza effettiva delle parti nel procedimento di mediazione e l’effettivo avvio di un sostanziale tentativo di mediazione:

1) i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa;

2) la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1 bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la presenza degli assistiti;

3) ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata un’effettiva chancedi raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione;

4) l’informazione sulle finalità della mediazione e le modalità di svolgimento ben possono in realtà essere rapidamente assicurate in altro modo: 1. Dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornire ex art. 4 cit., come si è detto; 2. dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati (v. direttiva europea) e, per quanto concerne il Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11 del protocollo Progetto Nausica 2 ) e da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio Unaltromodo dell’Università di Firenze;

5) l’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto;

6) l’art. 5 della direttiva europea 2008/52/CE distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in mediazione rispetto all’invito (sempre da parte del giudice) per una semplice sessione informativa: un ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione disposta dal giudice viene chiesto alle parti (e ai difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione  data dall’art. 1 del d.lgs. n. 28/2010) e non di acquisire una mera informazione e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla volontà o meno di iniziare la procedura mediativa.

Alla luce delle considerazioni che precedono il giudice fiorentino ha considerato quale criterio fondamentale la ragion d’essere della mediazione, che ruota attorno all’esigenza di tentare realmente di pervenire ad una soluzione non giudiziale della controversia, ed ha affermato la necessità che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.

Un’altra strada interpretativa è quella seguita (allo stato) dal Tribunale di Milano (strada, però, inaugurata prima della presa di posizione di Firenze): la condizione di procedibilità è soddisfatta anche quanto sia tenuto solo il primo incontro di mediazione senza accordo(l’incontro di cui all’art. 8 comma I d.lgs. 28/2010). Le differenze non sono di scarsa rilevanza. Nel primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Si tratta, dunque, secondo il Tribunale di Milano, dell’incontro dedicato alla cd. valutazione di mediabilità e, cioè, dell’anticamera del procedimento mediativo.

Secondo il primo indirizzo illustrato (Tribunale di Firenze), per soddisfare la condizione di procedibilità questo primo incontro non basta: occorre dare effettivamente inizio alla procedura. Per il secondo indirizzo segnalato (Tribunale di Milano) questa prima relazione al tavolo di mediazione è già sufficiente.

La lettura che conferisce maggiore razionalità all’istituto è certamente quella fiorentina e ciò almeno per quanto riguarda l’effettivo tentativo di mediazione, considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto (che può pure essere l’avvocato difensore).

Sussiste, però, un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2 bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.

Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro.

Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettivo.

Certo, è vero che può sembrare che in questo primo incontro il mediatore potrebbe non avere neppure la possibilità di tentare un accordo se le parti non vogliono che ciò accada. Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 8 del nuovo d.lgs. 28/10, “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.

Una prima lettura delle disposizioni normative pare giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non vogliono effettuare un vero tentativo di conciliazione (magari per non pagare il compenso all’organismo di mediazione) ben possono esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione e il tutto finisce lì. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe molto discutibile in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa. Il mediatore potrebbe pure pensare, alla luce di tale disposizione normativa, di non potere neppure tentare di verificare se effettivamente le posizioni delle parti sono inconciliabili. Se, infatti, in quest’ultimo caso si può parlare di un fallimento della mediazione, nel caso teoricamente consentito dal legislatore di manifestazione (anche ad opera di una sola delle parti) della sua volontà contraria alla mediazione vi sarebbe un aborto legale della mediazione. Peraltro, se si ritiene che ogni parte può impedire fin dall’inizio l’effettivo svolgimento del procedimento di mediazione, ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla chiusura del procedimento e gli altri sarebbero tutti in una posizione di soggezione. Ed è da credere che tale diritto potestativo verrebbe spesso esercitato se si considera che, come accennato, è stato aggiunto il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10, secondo cui nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.

Tuttavia, una corretta interpretazione (in linea con la ratio della direttiva europea – ed è noto che gli operatori nazionali sono tenuti, secondo la Corte di giustizia UE, a tentare un’interpretazione delle disposizioni nazionali conforme alle norme europee – che mira ad agevolare il più possibile la soluzione delle controversie in modo alternativo a quello giudiziario) è quella che ritiene che il mediatore, nell’invitare le parti e i loro procuratori a esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, deve verificare se vi siano i presupposti per poter procedere nell’effettivo svolgimento della mediazione (il cui procedimento comunque già inizia con il deposito dell’istanza di mediazione). Tali presupposti sono, ad esempio, l’esistenza di una delibera che autorizza l’amministratore di condominio a stare in mediazione (così come previsto dalla legge 220/12) o l’esistenza di un’autorizzazione del giudice tutelare se a partecipare alla mediazione deve anche essere un minore ovvero la presenza di tutti i litisconsorti necessari. Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità”di iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo).

In conclusione, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa formulata dal giudice, verrà disposta la mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, condizione che si riterrà formata soltanto se nel primo incontro il tentativo di mediazione sarà effettuato dalle parti in modo effettivo.

Né rileva che la mediazione sia già stata tentata in via preventiva, in forza del d.lgs. 28/2010 nella versione antecedente la declaratoria di illegittimità costituzionale da parte della Consulta, in quanto parte convenuta non si è presentata in quella procedura (mentre dovrà presentarsi nella futura, eventuale mediazione ex officio iudicis) e poiché, dopo l’espletamento della CTU, vi sono ora maggiori possibilità di addivenire ad una soluzione transattiva basata sulle risultanze dell’accertamento peritale.

P.Q.M.

formula alle parti la proposta conciliativa indicata in parte motiva;

fissa per la verifica della posizione delle parti sulla detta proposta conciliativa l’udienza del giorno 29.9.2014, ore 12.00, riservandosi di disporre nell’indicata udienza, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa, l’esperimento del procedimento di mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, che si riterrà formata soltanto se nel primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettuato dalle parti in modo effettivo.

Si comunichi.

Palermo, 16.7.2014

Il Giudice

Michele Ruvolo