Rinegoziazione dei contratti di locazione commerciale

Rinegoziazione canone di locazione commerciale e mediazione civile

Come ben noto, la pandemia da Covid 19 – e le conseguenti misure di contenimento – hanno avuto un impatto di particolare rilevanza sui contratti di locazione commerciale.

La rilevanza dell’ambito in questione non può sfuggire, e non rappresenta certamente una casualità la circostanza che il predetto ambito risulti il primo ad essere interessato da pronunce giurisprudenziali che – se per ora adottate in via cautelare – sembrano prefigurare l’emersione di prospettive assai innovative, come tra breve pur sinteticamente si vedrà.

Ad oggi, in attesa del consolidamento degli orientamenti di cui si dirà e di eventuali interventi ad hoc da parte del legislatore, considerando che le locazioni rientrano nel novero delle materie in cui la mediazione civile, ai sensi dell’art, 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010, costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale, non può sottacersi il ruolo di grande rilevanza che l’istituto in parola sarà (ed in effetti già è) chiamato a svolgere, stanti le sue caratteristiche di rapidità, economicità ed idoneità alla produzione di un titolo esecutivo, e stante altresì il ruolo che un soggetto terzo ed imparziale come il mediatore può essere in grado di svolgere nei confronti delle parti (rectius: con le parti).

Inoltre, dato che del procedimento di mediazione sono attori necessari, sia consentito sottolineare il ruolo degli Avvocati, che ben potranno indirizzare le parti verso una composizione stragiudiziale della controversia, illustrandone le caratteristiche ed i vantaggi ed assistendole nel procedimento: insomma, dando una interpretazione “estensiva”, se così si può dire, all’obbligo di informativa attribuito ai legali dal legislatore ex art. 4, co. 3, D.lgs 28/2010.

Ora, in una situazione di particolare gravità come quella attuale, consolidati strumenti codicistici come la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (artt. 1256 e 1463 c.c.), ovvero per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), ovviamente applicabili alle fattispecie in parola, non sembrano certo rappresentare un rimedio migliore del male, dal momento che implicano lo scioglimento definitivo del rapporto contrattuale, quando invece l’interesse prevalente delle parti, in numerosi casi, è proprio quello, di segno opposto, al mantenimento della relazione giuridica preesistente, con revisione temporanea delle condizioni economiche, in vista del progressivo venir meno delle misure restrittive attualmente vigenti e del conseguente ristabilimento di una qualche “normalità” dei rapporti socio-economici.

La rinegoziazione del contratto, dunque, in una situazione come quella conseguente alla pandemia, può senza dubbio rappresentare la soluzione più soddisfacente per le parti, in funzione del mantenimento di relazioni che, anteriormente al deflagrare di vicende obiettivamente imprevedibili, erano spesso improntate a correttezza, puntualità e fiducia.

Si consideri ad esempio il caso della locazione di un locale nel quale il conduttore svolga un’attività relativa all’area della ristorazione, tra le più colpite dalle attuali misure restrittive: la risoluzione del contratto, da un lato, potrebbe implicare conseguenze tutt’altro che trascurabili in ordine all’avviamento e, quindi, al futuro dell’attività, e dall’altro, esporrebbe verosimilmente parte locatrice alla difficoltà di reperire, ad un canone equo, un contrante egualmente affidabile. A fronte dell’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, la rinegoziazione del contratto può rappresentare dunque in molti casi una via d’uscita da non sottovalutare.

Ora, nell’ipotesi in cui le parti non siano tutte dell’avviso di rinegoziare il contratto, quid juris?

Il quesito di fondo è quello relativo alla possibilità di considerare o meno obbligatoria la rinegoziazione dei contratti investiti dalle ricadute negative ascrivibili all’emergenza Covid 19. Quello, cioè, inerente alla sussistenza o meno di un obbligo giuridico per il locatore di rinegoziare i canoni di locazione contrattualmente pattuiti, conseguente, quindi, al riconoscimento a favore del conduttore di un vero e proprio diritto alla rinegoziazione medesima.

Sul punto – pur dovendosi sottolineare che nella variegata normativa emergenziale non vi è alcuna disposizione che sollevi espressamente il conduttore dall’obbligo di pagamento del canone di locazione ovvero che imponga ai contraenti la rinegoziazione del canone – si sono consolidati due orientamenti di segno opposto: a coloro i quali hanno sostenuto che la chiusura forzata delle attività, in quanto tale, non potesse non riverberarsi sul canone di locazione, hanno replicato i fautori della contrapposta tesi secondo cui l’anzidetta chiusura forzata, non implicando il venir meno della disponibilità dei locali affittati in capo al conduttore, non comporterebbe sospensione del pagamento o riduzione del canone.

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La giurisprudenza di merito, sia pure a livello, come si è già accennato, di provvedimenti aventi natura cautelare, non ha tardato ad esprimersi a riguardo.

Ad esempio, il Tribunale di Bologna (Ordinanza 11 maggio 2020) ha ritenuto di concedere l’inibitoria all’incasso dei titoli in garanzia del pagamento del canone. Secondo il giudice, nell’ipotesi di attività chiuse forzatamente a seguito dei provvedimenti dell’autorità, il debitore sarebbe esonerato “…dall’onere di provare il carattere imprevedibile e straordinario degli eventi che hanno reso impossibile la prestazione dedotta nel contratto“, in quanto l’art. 3, co. 6 –bis, D.L. 6/2020, convertito in L. 13/2020, prevede che “…il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 cc., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti“. Secondo il giudice, peraltro, il rispetto delle misure di contenimento deve essere “sempre valutato” dal giudice, senza però configurare una generale sospensione dei termini di pagamento, dal momento che “…se il legislatore avesse voluto attribuire ai debitori una moratoria generalizzata a discapito degli interessi creditori (…) lo avrebbe stabilito espressamente (…) la formulazione invece scelta (…) pare rinviare ad un contemperamento in concreto degli interessi coinvolti, delle ragioni del debitori e del creditore“.

Analogamente, ex multis, il Tribunale di Genova (Decreto 1 giugno 2020), ha ordinato al locatore di astenersi dalla presentazione all’incasso di titoli cambiari in suo possesso emessi dal conduttore a garanzia del pagamento dei canoni di locazione dell’azione e del canone di affitto dei locali.

Ma soprattutto, ad avviso di chi scrive, appare emblematica l’ordinanza del 27 agosto 2020 con la quale il Tribunale di Roma, a fronte della richiesta formulatagli di ordinare di non escutere la fideiussione ovvero di disporre la riduzione del canone di locazione, ha statuito che “sorge (…) in base alla clausola generale di buona fede e correttezza un obbligo delle parti di contrattare al fine di addivenire ad un nuovo accordo volto a riportare in equilibrio il contratto entro i limiti dell’alea normale del contratto. La clausola generale di buona fede e correttezza, invero, ha la funzione di rendere flessibile l’ordinamento, consentendo la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore“. Il Tribunale riconosce bensì che la legislazione dello Stato ha provveduto ad introdurre misure volte a ridurre l’impatto finanziario della pandemia, sottolineando peraltro come non sempre le stesse siano sufficienti “…a riportare in equilibrio il contratto entro la sua normale alea“.

Ora, l’approccio da ultimo richiamato sembra trovare – sia pure con le riserve e le puntualizzazioni di seguito evidenziate – riscontro da parte della Corte di Cassazione, laddove si consideri l’importante Relazione n. 56 dell’8 luglio 2020 dell’Ufficio del Massimario. Non si tratta di una sentenza, naturalmente, ma non sembra potersi sottovalutare il potenziale d’indirizzo nella stessa contenuto.

Nel documento in parola, la Suprema Corte afferma in modo netto l’esistenza di un vero e proprio obbligo giuridico della parte avvantaggiata dalla sopravvenienza epidemica, vale a dire parte locatrice, a rinegoziare il contenuto del contratto, con particolare riferimento all’ammontare del canone, così da salvaguardare, grazie a condizioni diverse, la prosecuzione del rapporto contrattuale. Secondo la Corte, “…il dovere di correttezza contrattuale non è soltanto una clausola generale destinata a regolare le trattative, la conclusione, l’interpretazione e l’esecuzione del rapporto, ma è anche una fonte di integrazione del contratto, in quanto richiamata dall’art. 1374 sub specie di legge“. In altri e più generali termini, “…il dovere di correttezza viene considerato alla stregua di limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva (attiva o passiva) contrattualmente attribuita, concorrendo alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientarne l’interpretazione (art. 1366 c.c.) e l’esecuzione (art. 1375 c.c.)“. Ed in particolare, “…proprio la portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. assume assoluta centralità, postulando la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute“. Insomma, secondo la Relazione il contemperamento tra istanze creditorie e debitorie relative alle prestazioni temporaneamente impossibili o eccessivamente onerose “…va intrapreso attraverso il ricorso alla rinegoziazione“.

La Corte, poi, passa a precisare il concetto di obbligo di rinegoziazione e, quindi, quando il medesimo possa ritenersi adempiuto: “…l’obbligo di rinegoziare impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l’invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte (…) di sicuro non può esserle richiesto di acconsentire ad ogni pretesa della parte svantaggiata o di addivenire in ogni caso alla conclusione del contratto, che, è evidente, presuppone valutazioni personali di convenienza economica e giuridica che non possono essere sottratte né all’uno, né all’altro contraente. Si avrà, per contro, inadempimento se la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera assoluta e ingiustificata ad essa o si limita ad intavolare delle trattative di mera facciata, ma senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell’accordo“.

Naturalmente, e conseguentemente, quanto precede impone una riflessione. Quali le conseguenze dell’eventuale inadempimento (si consideri l’ipotesi del locatore che a fronte della richiesta di revisione avanzata dal conduttore in difficoltà abbia un atteggiamento di totale chiusura aprioristica).

Secondo la Relazione, in tale ipotesi caso parte conduttrice potrebbe adire il giudice al fine di ottenere una sentenza costitutiva dell’obbligo di rinegoziare ex art. 2932 c.c.

Tuttavia, non può sfuggire la delicatezza del ruolo del Giudice a fronte della rinegoziazione di quanto originariamente stipulato dalle parti. Il rischio di arbitrio appare sin troppo evidente. Ed infatti, secondo la relazione, sarebbe consentito al giudice operare sul contratto soltanto laddove “…dal regolamento negoziale dovessero emergere i termini in cui le parti hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto, fornendo al giudice (…) i criteri atti a ristabilire l’equilibrio negoziale. In questo caso, il magistrato, più che intervenire dall’esterno, opererebbe all’interno del contratto e in forza di esso, servendosi di tutti gli strumenti di interpretazione forniti dal legislatore (artt. 1362-1371 c.c.), precipuamente quello disciplinato dall’art. 1366 c.c. sulla buona fede nell’interpretazione del contratto. Al di fuori di questo angusto contorno, la determinazione del contenuto del contratto appartiene alla sfera decisionale riservata ai contraenti, rispetto alla quale ogni intervento spetta solo al legislatore, che fissa l’eventuale disciplina cogente non modificabile né dalle parti, né dal giudice“.

In questo modo, inevitabilmente, al giudice non può che residuare uno spazio d’azione, in punto di ridefinizione dei contenuti contrattuali, assai limitato, e, pertanto, molto raramente realmente satisfattorio in ordine alle contrapposte esigenze.

Ad oggi, come ben può intendersi anche dalle conclusioni della Relazione, un’eventuale implementazione dei poteri del giudice in ordine alla valutazione di elementi non presi in considerazione dalle parti nell’originario contratto e nelle eventuali successive trattative non andate a buon fine, appare ipotesi comunque de iure condendo e di ardua, se non impossibile attuazione pratica, alla luce dei principi fondamentali in tema di libertà contrattuale propri dell’ordinamento vigente.

In conclusione ed in estrema sintesi.

Nell’attuale quadro socio-economico, la permanenza “in vita” della massima parte dei rapporti contrattuali attualmente in corso, seppure a condizioni diverse rispetto a quelle originarie, appare un’esigenza fondamentale.

Detto obiettivo non appare realisticamente attingibile attraverso il ricorso agli ordinari strumenti di tutela predisposti dall’ordinamento, se non altro in quanto non appare irragionevolmente pessimistico paventare un sensibile rallentamento delle attività giudiziarie per un dato periodo, ad oggi difficilmente stimabile.

Sembra dunque che la strada maestra non possa che essere rappresentata dal ricorso all’autonomia privata e, laddove la composizione non consegua alla negoziazione diretta, gli strumenti di ADR, ed in particolare il più sperimentato di essi, vale a dire la mediazione civile di cui al D.lgs 28/2010, appaiono come i più consoni a consentire alle parti approdi quanto meno entro certi limiti satisfattori, in quanto voluti e non imposti.

L’auspicio è quello che adeguati incentivi, di varia natura – come sembra trasparire dalle prime dichiarazioni della nuova compagine governativa – possano contribuire a rendere i predetti strumenti, a maggior ragione in una situazione come quella attuale, sempre più in grado di garantire nella massima misura possibile gli auspicati obiettivi di deflazione del contenzioso e di pace sociale.

Luigi Majoli – ADR Intesa

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