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Proposta del giudice e invito al mediatore: tecniche a confronto

Nota introduttiva

La contestuale introduzione nell’ordinamento, da parte della L. 98/2013 (di conversione del c.d. “decreto del fare”) di una mediazione delegata potenziata, ossia disposta dal giudice e tale da condizionare la procedibilità della domanda giudiziale, e della previsione relativa alla formulazione, da parte del giudice, di una proposta transattiva o conciliativa, di cui al nuovo art. 185 – bis c.p.c., rappresenta un fatto chiaramente indicativo degli sforzi che il legislatore intende compiere in ordine ad un rafforzamento delle possibilità di “fuoriuscita” dal processo su iniziativa del giudice.

La giurisprudenza, dal canto suo, ha contribuito al complessivo disegno deflattivo con interpretazioni talvolta forse discutibili ma certamente tali da concorrere alla diffusione degli strumenti di cui sopra: ad esempio, l’utilizzo “cumulato” della mediazione delegata e di quella endoprocedimentale e l’invito al mediatore a formulare una proposta conciliativa anche in carenza dell’istanza congiunta delle parti.

Scopo delle presenti note è per l’appunto quello di fornire un’analisi integrata dell’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali in materia, tenuto conto della dimensione che il fenomeno ha ormai assunto e del dibattito che, in dottrina, si è conseguentemente sviluppato.

 La proposta del giudice

L’art. 185 – bis c.p.c. prevede, come è noto, che “ Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice”.

Come è agevole rivelare, si tratta di una proposta che prescinde dalla richiesta di una o più parti del processo, può essere avanzata alla prima udienza o sino alla chiusura dell’istruzione, presuppone l’esistenza di questioni di facile e pronta risoluzione. Non può, inoltre, costituire motivo di ricusazione o astensione del Giudice.

Soprattutto, è strutturata in modo da lasciare aperta al giudice una doppia possibilità di valutazione in ordine all’approccio da applicare al caso concreto: formulare una proposta di natura transattiva, ossia fondata sulla logica delle reciproche rinunce, ovvero più propriamente conciliativa, tale, cioè, da esaltare maggiormente i reali interessi delle parti che siano emersi nel corso della lite.

In ogni caso, la proposta in parola rappresenta un’opportunità per le parti del processo, che possono tener conto delle indicazioni del giudice, farle proprie ed abbandonare il giudizio; ma anche un rischio, in caso di rifiuto, dal momento che tale condotta sarà poi valutata, in sede di decisione, dal giudice stesso.

Non si intende, in questa sede, disquisire più di tanto sulle ombre, che certamente non possono essere aprioristicamente negate, che detta novella suscita.

Detto incidentalmente, infatti, un conto è una proposta formulata alla prima udienza, allo stato degli atti, una valutazione di “mediabilità” della causa, in altri termini, che emerga dal concreto atteggiarsi iniziale del caso di specie; altra cosa appare invece una proposta che tenga conto delle risultanze di una approfondita istruttoria, pur possibile sulla base della previsione normativa: in quest’ultima ipotesi, infatti, difficilmente la stessa potrebbe non assumere le sembianze di un’anticipazione della decisione.

Certamente, va salutata positivamente la formulazione “attenuata” che il legislatore ha (saggiamente) adottato in sede di conversione (“…formula alle parti ove possibile…”), rispetto all’imperatività – obiettivamente insostenibile – di quanto disposto dall’originario testo del c.d. “decreto del fare”. Come è noto, infatti, l’originario testo del D.L. 69/2013 prevedeva infatti cheIl giudice alla prima udienza ovvero fino a quando è esaurita l’istruzione, deve comunicare alle parti una proposta transattiva o conciliativa. Il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio”.

Ciò su cui, però, si intende porre l’accento è l’immediato favore mostrato dai Giudici nei confronti dell’istituto (nonché nei confronti del modificato art. 420 c.p.c., per ciò che concerne il rito del lavoro).

Va d’altra parte rilevato che la L. 98/2013, appunto di conversione del D.L. 69/2013, mentre disponeva l’entrata in vigore delle norme relative alla nuova mediazione obbligatoria ex lege e a quella delegata a partire dal 20 settembre 2013, stabiliva, come data di inizio della vigenza dell’art. 185 – bis (e 420 modificato, cui si è fatto cenno poc’anzi) il 21 giugno dello stesso 2013.

Ebbene, nell’anno e mezzo abbondante appena trascorso, la giurisprudenza ha fornito spunti davvero interessanti.

Immediatamente, infatti, il Tribunale di Milano, (sez. IX civ., decreto 26 giugno 2013), premesso che trattandosi di norma processuale risulta applicabile, in base al principio tempus regit actum, anche ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della stessa, ha inteso chiarire come si tratti della espressione “…di un principio generale (anche nell’art. 420 c.p.c. come riformato), anche per il fatto di distinguere espressamente tra proposta transattiva e conciliativa e per la difficoltà di ammettere settori o comparti divisi dell’ordinamento in cui il giudice possa o non possa aiutare i litiganti a pervenire ad un assetto condiviso per la soluzione pacifica della causa”, con conseguente applicabilità anche a controversie relative a materie non ricomprese nell’ambito di previsione dell’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010.

Sulla stessa linea il Tribunale di Nocera Inferiore, sez. I civ., ordinanza 27 agosto 2013, in cui, nell’ambito di una controversia in materia di anatocismo bancario, si sottolinea  che il giudice stesso “…se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”.

Ma è successivamente all’entrata in vigore del riformato D.lgs 28/2010 che la situazione, dal punto di vista giurisprudenziale, ha iniziato ad evolversi verso scenari sempre più innovativi.

Infatti, con l’ordinanza del Tribunale di Roma, sez. XIII, 24 ottobre 2013, ha preso le mosse  l’orientamento per il quale la mediazione endoprocedimentale ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. è cumulabile con la mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Nel provvedimento in esame, infatti, il giudice capitolino, formulata la proposta e assegnato un congruo termine per la valutazione della medesima, dispone che…dalla eventuale infruttosa scadenza del suddetto termine, decorrerà quello ulteriore di gg. 15 per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima vi proceda, la domanda di cui al secondo comma dell’art. 5 del decreto; con il vantaggio di poter pervenire rapidamente ad una conclusione, per tutte le parti vantaggiosa, anche dal punto di vista economico e fiscale (cfr. artt. 17 e 20 del decr. legisl. 4.3.2010 n. 28), della controversia in atto.

Viene infine fissata un’udienza alla quale in caso di accordo  le parti potranno anche non comparire; viceversa, in caso di mancato accordo, potranno, volendo, in quella sede fissare a verbale quali siano state le loro posizioni a riguardo (relativamente alla sola proposta del giudice), anche al fine di consentire l’eventuale valutazione giudiziale della condotta processuale delle parti ai fini degli artt. 91 e 96 III° cpc”.

Sotto quest’ultimo profilo, il giudice ha valutato la condotta processuale delle parti in relazione alla propria proposta, delineando i parametri legali (art. 88 c.p.c. – dovere di lealtà e probità nel processo delle parti e dei difensori – e art. 116, co. 2, c.p.c. – valutazione in termini di argomento di prova del comportamento della parte in giudizio) sulla base dei quali ritenere giustificato o meno il rifiuto della proposta. Applicando tali parametri al caso di specie il giudice ha ritenuto ingiustificato il rifiuto di aderire alla proposta di una parte, la quale, soccombente in sentenza, è stata condannata oltre che alle spese di giudizio, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., anche al versamento in favore della parte vittoriosa di una somma determinata in via equitativa ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.

In altri casi, la cumulabilità tra i due istituti è stata affermata “in due tempi”, disponendo cioè la mediazione ex art. 5, co. 2, a seguito della mancata accettazione di una delle parti della proposta transattiva o conciliativa previamente formulata dal giudice.

Ad esempio, il Tribunale di Milano (sez. spec. in materia di impresa, ordinanza 11 novembre 2013, Dott.ssa Crugnola), avendo formulato una proposta transattiva ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., a fronte della quale “...il convenuto dichiara di essere disponibile a chiudere la lite con tale versamento da parte sua. L’attore dichiara che tale soluzione non è per lui accettabile (…) visto l’art.5 secondo comma del d.lgs. n.28/2010 nell’attuale sopravvenuta formulazione; valutata la natura della lite, i rapporti familiari tra le parti e il comportamento delle stesse anche all’odierna udienza; ritenutane in base a tali elementi l’utilità;

dispone l’esperimento del procedimento di mediazione, assegnando alle parti il termine di quindici giorni per dare inizio alla mediazione e fissando per la prosecuzione del giudizio l’udienza del (…) riservato ogni altro provvedimento”.

Sequenza, quest’ultima, in seguito confermata sempre dal Tribunale di Milano, sez. specializzata in materia di impresa, Dott. Vannicelli, 21 marzo 2014, in cui il Giudice ha formulato la proposta di conciliazione, riservando in caso di rifiuto ingiustificato di essa di disporre ai sensi dell’art. 5, comma 2, D.Lgs. 28/2010 l’esperimento del procedimento di mediazione – condizione di procedibilita’ della domanda giudiziale.

In ogni caso, al di là della tecnica utilizzata nel singolo caso, appare chiaro come il cumulo dei due istituti possa schiudere scenari di notevole interesse in mediazione, dal momento che in quest’ultima sede le parti potrebbero sviluppare autonomamente la proposta formulata dal giudice, che, invece, promanando dal processo, deve necessariamente tener conto dei soli fatti ed interessi emersi in causa, in virtù del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

In altri termini, la proposta formulata dal giudice ex art. 185 – bis, ove non accolta dalle parti, potrà comunque rappresentare una valida base di partenza per il successivo tentativo presso l’organismo adito “d’ordine” del giudice stesso.

Ben potrà, infatti, il mediatore, anche sulla base dell’eventuale proposta formulata dal giudice e dei motivi per i quali una delle parti (o entrambe) non abbia ritenuto di accoglierla, estendere la mediazione a profili emersi successivamente alla formulazione della proposta stessa o, comunque, se già esistenti, non entrati nel thema decidendum, superando così il vincolo rappresentato, nel giudizio, dalla corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

D’altra parte, si tratta di aspetti che la giurisprudenza ha sottolineato già in sede di prime esperienze applicative.

Ad esempio, il Tribunale di Roma, sez. XIII civ., ordinanza 24 ottobre 2013, già precedentemente citata, afferma che “… la possibilità che le parti, assistite dai rispettivi difensori, possano trarre utilità dall’ausilio, nella ricerca di un accordo,  ed anche alla luce della proposta del Giudice, di un mediatore professionale di un organismo che dia garanzie di professionalità e di serietà”. Ancora, secondo il Tribunale di Milano, sez. IX civ., ordinanza 29 ottobre 2013, “… i mediatori ben potrebbero estendere la «trattativa (rectius: mediazione)» ai crediti maturati successivamente alla instaurazione dell’odierna lite e non fatti valere in questo processo, così essendo evidente che l’eventuale soluzione conciliativa potrebbe definire il conflitto, nel suo complesso, mentre la sentenza di appello potrebbe definire, tout court, solo una lite, in modo parziale”.

Con la successiva ordinanza 5 dicembre 2013, il Tribunale di Roma,  sez. XIII civ., osserva come la circostanza “…che l’attore abbia proposto prima e fuori dalla causa una domanda di mediazione (non ha rilevanza – ai fini che qui interessano – la natura

volontaria o obbligatoria), non sia impeditiva all’esercizio ed all’attivazione da parte del Giudice della mediazione demandata di cui all’art. 5 co. II del decr. legisl. 28/2010 nella versione riformata dal D.L.69/13 cit.”.

Con la pronuncia in parola si afferma dunque non solo l’utilizzabilità della mediazione delegata, eventualmente preceduta da una proposta transattiva o conciliativa ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., laddove un tentativo di mediazione sia già stato infruttuosamente esperito ante causam, ma anche la medesima possibilità laddove si tratti di materia non assoggettata al regime di obbligatorietà del tentativo conciliativo (nella quale ipotesi – quindi – una fattispecie originariamente “a mediazione non obbligatoria” diviene condizionata all’esperimento del tentativo in via successiva, a seguito, cioè,  dell’ordine del giudice di cui all’art, 5, co. 2).

Nella medesima ordinanza può chiaramente denotarsi come il giudice si ponga il problema relativo ai tempi di formulazione della proposta.

Infatti, pur muovendo dalla premessa di una sostanziale libertà (nei limiti – ovviamente – della tempistica processuale fissata dal legislatore) in ordine alla scelta del momento più idoneo alla formulazione della proposta, il giudice sottolinea, altresì, l’importanza del ruolo rivestito dai difensori a fronte della proposta stessa. Si osserva, sul punto, che “…Il momento in cui il Giudice invia le parti in mediazione è svincolato da rigidità processuali se non quelle molto avanzate del giudizio (conclusioni/discussione), consentendogli di individuare e di scegliere il momento più propizio in relazione alle circostanze ed agli sviluppi della causa (e ciò anche in relazione alle difese articolate dalle parti).

La possibilità (…) di rappresentare pacatamente, con equidistanza ed imparzialità, i punti di debolezza e di forza delle rispettive posizioni, consente di esaltare la sensibilità culturale e giuridica dei difensori, che tanto ruolo hanno nella mediazione riformata. E, tramite essi, parlare alle parti che pertanto dovranno essere informate nel modo più ampio e sostanziale dai difensori circa il contenuto del provvedimento, al fine che esse possano, esattamente come in ambito sanitario, determinarsi verso la scelta migliore da assumere, in ordine alla quale è precondizione una adeguata consapevolezza.

Compito dei difensori è quello di evocare la possibilità per le parti, cogliendo le potenzialità del provvedimento del Giudice, di trovare ragionevoli soluzioni e punti di accordo, non celando, in mancanza, i possibili sviluppi negativi delle aspettative che l’inevitabile antagonismo insito nella avviata contesa giudiziaria tende, per ciascuna delle parti, a radicare ed esaltare.

Con la mediazione demandata si evita di intraprendere percorsi spesso già condannati in partenza (si pensi ad una mediazione obbligatoria prima della causa nella quale saranno protagonisti necessari soggetti terzi, come assicurazioni successivamente chiamate; ovvero a situazioni in ordine alle quali le risultanze della consulenza tecnica disposta dal giudice sono determinanti per meglio fissare l’ubi consistam della lite); e ciò perché è il Giudice che sceglie, con oculatezza, il momento migliore per disporne l’avvio”.

Un ulteriore passo avanti si registra con la sentenza 29 maggio 2014 del Tribunale di Roma, sez. XIII civile.

Nel caso di specie, il giudice aveva formulato a proposta di conciliazione, ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., disponendo contestualmente, per il caso di mancato raggiungimento dell’accordo, la mediazione ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.Lgs. 28/2010.

La Compagnia di Assicurazione convenuta in giudizio aveva dapprima rifiutato la proposta di conciliazione del giudice e, successivamente, non aveva partecipato al procedimento di mediazione, malgrado questo costituisse condizione di procedibilità della domanda.

Nella sentenza in parola, il Giudice non ha accolto le difese sviluppate dalla Compagnia, condannandola, inoltre, alle spese di giudizio; inoltre per la mancata partecipazione al procedimento di mediazione, ritenuta priva di giustificato motivo, ha condannato la convenuta al pagamento di una somma pari al contributo unificato a favore dell’Erario; infine, sia per tale comportamento sia per il rifiuto ritenuto ingiustificato della propria proposta conciliativa, ha ritenuto altresì di condannarla ex art. 96, co.3, c.p.c.

Nel provvedimento in esame, rilevato che l’Assicurazione ha rigettato la proposta del giudice e non si è presentata, benché ritualmente convocata dall’attore, in mediazione, il giudice osserva poi che “…quanto al giustificato motivo addotto dall’assicurazione per non aderire alla disposizione del giudice emessa ai sensi dell’art.5 co.II° (che per l’attore non è più un invito, per quanto autorevole, come previsto dalla previgente norma, ma un ordine, presidiato com’è dalla improcedibilità della domanda in caso di inottemperanza), l’affermazione avente ad oggetto la ritenuta congruità delle somme già versate, non può essere condivisa.

Traslando tale ragionamento in generale si potrebbe infatti affermare che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione (come in questo caso), e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, essa sia validamente dispensata dal comparirvi.

L’esponente non si avvede nell’aporia in cui incorre posto che così ragionando sussisterebbe sempre in ogni causa un giustificato motivo di non comparizione, se è vero com’è vero che se la controparte condividesse la tesi del suo avversario la lite non potrebbe neppure insorgere e se insorta verrebbe subito meno. La ragione d’essere della mediazione si fonda proprio sulla esistenza di un contrasto di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti, di interpretazioni etc., che il mediatore esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvicinamento delle posizioni delle parti fino al raggiungimento di un accordo amichevole”.

Tali orientamenti appaiono ormai largamente condivisi, come plasticamente sintetizzato dal Tribunale di Palermo, sez. I civ., nell’ordinanza 16 luglio 2014, in cui è ravvisabile una sorta di sintesi degli approdi cui la giurisprudenza sembra essere ormai pervenuta in tema di cumulabilità tra mediazione endoprocedimentale e mediazione delegata e, soprattutto, con riferimento ai temi della partecipazione personale delle parti al procedimento di mediazione dell’effettivo svolgimento del medesimo. (In ordine a questi ultimi aspetti cfr., ex multis, Tribunale di Firenze, ordinanze 17 e 19 marzo 2014; Tribunale di Bologna, ordinanza 5 giugno 2014; Tribunale di Roma, ordinanza 30 giugno 2014; Tribunale di Rimini, ordinanza 16 luglio 2014; Tribunale di Cassino, ordinanze 8 ottobre e 16 dicembre 2014; Tribunale di Monza, ordinanza 20 ottobre 2014; Tribunale di Siracusa, ordinanza 17 gennaio 2015).

Nel provvedimento in questione  il Giudice, premesso che sussistono nel caso di specie tutti i presupposti per la formulazione di una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. (e con gli effetti, aspetto quest’ultimo di particolare rilevanza, di cui all’art. 91 c.p.c.), anticipa che “…comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrà la mediazione ex officio iudicis”, strumento quest’ultimo espressione del vero e proprio potere attribuito dalla legge al giudice di “…imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili”.

Di particolare interesse appare, infine, la sentenza 30 ottobre 2014 del Tribunale di Roma, in special modo con riferimento al rifiuto ingiustificato di fronte alla proposta ex art. 185 – bis c.p.c. ed alle relative ricadute sul piano della responsabilità aggravata di cui all’art. 96, co. 3, c.p.c.

Nella pronuncia in esame si rileva innanzitutto come, posto che il legislatore non ha inteso predisporre un sistema sanzionatorio (come nel caso della mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010), debba necessariamente  muoversi dal presupposto che lo studio richiesto al giudice per giungere alla formulazione di una proposta mirante ad un accordo che risulti in effetti per le parti più vantaggioso della sentenza, “…non sia stato previsto per essere destinato ad essere considerato un mero flatus vocis”.

La proposta non potrà certo produrre, come è ovvio, in capo alle parti una sorta di obbligo cogente in ordine al suo accoglimento, “…ma il fatto stesso che la legge preveda la possibilità che il giudice formuli la proposta implica che non è consentito alle parti di non prenderla in alcuna considerazione”.

La proposta, di conseguenza, dovrà essere dai destinatari rispettata e considerata con serietà ed attenzione (la medesima, si intende dire, che è richiesta al giudice nel predisporla e formularla).

In motivazione si rileva come proprio per “…l’importanza e delicatezza della proposta che, impegnando non poco la sensibilità oltre che l’arte del giudice, assolve, nell’ottica del legislatore, ad un importante compito deflattivo e di A.D.R., impedendo che ogni controversia debba necessariamente concludersi con una sentenza, non può ammettersi che le parti possano assumere senza conseguenze, contro di essa, un atteggiamento anodino, di totale disinteresse, deresponsabilizzato, solo ostinatamente ed immotivatamente diretto a coltivare la permanenza e protrazione della controversia.

Le parti hanno invece l’obbligo, derivante sia dalla norma di cui all’art. 88 cpc secondo cui le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, e sia in base al precetto di cui all’art. 116 cpc, norma di carattere generale, di prendere in esame con attenzione e diligenza la proposta del giudice di cui all’art. 185 bis cpc, e di fare quanto in loro potere per aprire ed intraprendere su di essa un dialogo, una discussione fruttuosa e, in caso di non raggiunto accordo, di fare emergere a verbale dell’udienza di verifica, lealmente, la rispettiva posizione al riguardo. Le parti hanno quindi un’alternativa all’accettazione della proposta”. Potranno infatti “disarticolarne il contenuto, trasformandola secondo i loro più veritieri e non rinunciabili interessi primari. Non è invece ammesso l’accesso alla superficialità, ad un rifiuto preconcetto, ad un pregiudizio astratto, al proposito e all’interesse, non tutelati dalle norme, a protrarre a lungo la durata e la decisione della causa”.

In sostanza, dunque, “…il merito ragionato deve diventare la stella polare della adesione o meno (se del caso con i concordati adattamenti) alla proposta. E correlativamente, ad opera del giudice, misura e metro della valutazione della condotta di chi si è sottratto al dovere di lealtà processuale che la proposta ex art. 185 bis esalta e richiama”.

Con la conseguenza di una possibile applicazione della condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.

A proposito di quest’ultimo aspetto, posto che non si tratta di un risarcimento ma di un indennizzo, con riferimento alla parte a favore della quale viene concesso, o di una punizione, con riguardo allo Stato, per aver inutilmente appesantito il corso della giustizia, considerata altresì la discrezionalità del giudice nella determinazione dell’ammontare della somma e tenuto conto inoltre del fatto che detta sanzione a carico di parte soccombente non consegue necessariamente ad istanza di parte ma può essere irrogata anche d’ufficio, nella pronuncia in esame si osserva come “…la possibilità di attivazione della norma non è necessariamente correlata alla sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma. Come rivela in modo inequivoco la locuzione in ogni caso la condanna di cui al terzo comma può essere emessa sia nelle situazioni di cui ai primi due commi dell’art. 96 e sia in ogni altro caso. E quindi in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole. Volendo concretizzare il precetto, vengono in mente i casi in cui la condotta della parte soccombente sia caratterizzata da colpa semplice (ovvero non grave, che è l’unica fattispecie di colpa presa in esame dal primo comma), ovvero laddove una parte abbia agito o resistito senza la normale prudenza (fattispecie diversa da quelle previste dal primo e secondo comma)”.

La proposta del mediatore

L’art. 11, co. 1, D.lgs 28/2010, prevede che “…Quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione. In ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’articolo 13”.

Per ciò che concerne la comunicazione, l’eventuale accettazione e la verbalizzazione della proposta formulata dal mediatore, il medesimo art. 11, rispettivamente ai co. 2 e 3, prevede che “La proposta di conciliazione e’ comunicata alle parti per iscritto. Le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni, l’accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata. Salvo diverso accordo delle parti, la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento” e che “Se e’ raggiunto l’accordo amichevole di cui al comma 1 ovvero se tutte le parti aderiscono alla proposta del mediatore, si forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilita’ di sottoscrivere. Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento”.

In sostanza, dunque, la proposta deve essere formulata dal mediatore nell’ipotesi di richiesta congiunta delle parti, fermo restando che il medesimo potrebbe comunque formularla, laddove si verifichi una situazione di stallo, anche a prescindere da una  qualsivoglia richiesta, ovvero, caso certamente meno probabile, ove la proposta stessa venga sollecitata da una o da alcune soltanto delle parti, sempre che il regolamento dell’organismo prescelto non limiti alle sole ipotesi di richiesta congiunta la facoltà del mediatore di formularla, caso, quest’ultimo, assai frequente nella pratica.

Si pongono, sul punto, alcune questioni.

Innanzitutto, occorre preliminarmente chiarire il fatto che la richiesta può intendersi “congiunta”, contrariamente a quanto da taluni sostenuto, solo laddove tutte le parti chiamate in mediazione abbiano aderito al procedimento di mediazione.

Infatti, ove la parte chiamata (o alcune delle parti chiamate) non aderiscano alla procedura, il mediatore, non avendo avuto un contraddittorio, ben difficilmente potrebbe essere in grado di sviluppare autonomamente una propria opinione, con il rischio di “appiattirsi” eccessivamente sula posizione delle parti presenti ovvero, al contrario, di tendere in modo non equilibrato nei confronti delle parti non aderenti, finendo con il proporre una soluzione che inevitabilmente non potrà essere considerata soddisfacente da taluna delle parti coinvolte nella controversia.

Inoltre, e soprattutto, occorre tener conto delle conseguenze che l’art. 13, D.lgs 28/2010, ricollega all’ipotesi di rifiuto della proposta formulata dal mediatore.

Detta disposizione, infatti, nel suo primo comma, dispone che “Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano altresì alle spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4.

Il medesimo art. 13, al co. 2, prevede altresì che “Quando il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, può nondimeno escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4. Il giudice deve indicare esplicitamente, nella motivazione, le ragioni del provvedimento sulle spese di cui al periodo precedente”.

Tali previsioni, che tendono a sanzionare l’ingiustificato rifiuto della proposta del mediatore, anche se in misura differenziata a seconda che il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda o meno interamente al contenuto della stessa, appaiono giustificate ove la proposta del mediatore consegua ad una istanza congiunta delle parti, le quali, in qualche modo, sollecitando il mediatore ad essere “valutativo”, scientemente si accollano l’alea conseguente all’eventuale rifiuto.

Ben più difficilmente tali considerazioni potrebbero attagliarsi ad una proposta formulata dal mediatore in assenza della parte chiamata o di taluna di esse, in virtù di ragioni che appaiono di fin troppa evidenza.

L’invito del giudice alla formulazione della proposta da parte del mediatore

Posto tutto quanto precede, appare opportuno rilevare come, già sotto la vigenza dell’originario modello di mediazione introdotto dal D.lgs 28/2010, il Tribunale di Vasto, con l’ordinanza 5 luglio 2012, avesse ritenuto di invitare i difensori e le parti ad attivare la procedura di mediazione per la risoluzione conciliativa della lite ricorrendo ad un Organismo presente nel circondario del Tribunale “…a condizione che il regolamento dell’ente non contenga clausole limitative della facoltà del mediatore di formulare una proposta conciliativa, subordinandone – in particolare – l’esercizio alla condizione della previa richiesta congiunta di tutte le parti”.

Tali clausole limitative regolamentari, osservava allora il Giudice, avrebbero la conseguenza di frustrare “…lo spirito della norma – che è quello di stimolare le parti al raggiungimento di un accordo – e non consentono al giudice di fare applicazione delle disposizioni previste dall’art. 13 del citato decreto, in materia di spese processuali, così vanificandone la ratio ispiratrice, tesa a disincentivare rifiuti ingiustificati di proposte conciliative ragionevoli”.

Si tratta del primo caso di pronuncia con la quale il giudice invita il mediatore ad avanzare proposta conciliativa pur in assenza della richiesta congiunta di cui all’art. 11, co. 1, D.lgs 28/2010.

In sostanza, dunque, il Tribunale, ritenuta la controversia “mediabile”, tanto da ricorrere alla mediazione di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, si rivolge al mediatore, sia pure attraverso il richiamo al Regolamento dell’Organismo, tale da non contenere le clausole limitative di cui sopra, sollecitandolo ad avanzare in ogni caso proposta conciliativa, anche in difetto, come detto, dell’istanza congiunta di cui all’art. 11.

Precedenti del genere sono peraltro rintracciabili anche dopo l’entrata in vigore della “nuova” mediazione civile, successivamente, cioè, all’entrata in vigore della L. 98/2013 (che ha convertito, con emendamenti, il D.L. 69/2013, c.d. “decreto del fare”).

Il Tribunale di Firenze, sez. III civ., ad esempio, nell’ordinanza 30 giugno 2014, valutata la natura della causa, relativa a diritti disponibili e considerata l’ammissibilità della mediazione, trattandosi di procedimento per il quale non era stata ancora celebrata l’udienza di precisazione delle conclusioni, aveva disposto che “...le parti sostanziali, assistite dai rispettivi difensori, promuovano il procedimento di mediazione, con deposito della domanda di mediazione presso organismo abilitato, entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione del presente provvedimento”; evidenziato la necessità “…che al primo incontro l’attività di mediazione sia concretamente espletata (ferma la gratuità di cui all’art 17 V co. ter in caso di mancato accordo ed indisponibilità delle parti ad ulteriore incontro)”; e – infine – invitato “…il mediatore ad avanzare proposta conciliativa, pur in assenza di congiunta richiesta delle parti (art. 11, co. 1, D.lgs. cit.)”.

Nel provvedimento in esame, peraltro, a fronte dell’istanza di anticipazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni proposta dalla parte attrice, si precisa che “…per il procedimento in epigrafe è prevista prossima udienza al 24.2.2015 per la precisazione delle conclusioni; che AA ha avanzato richiesta di anticipazione di udienza; (…) che, per il gravoso carico del ruolo di questo magistrato, recentemente assegnatario, tra l’altro, di circa 500 procedimenti di cognizione ordinaria molti del quali pendenti da oltre un triennio, l’istanza di anticipazione non possa essere accolta; che infatti vanno trattati prioritariamente i procedimenti di più risalente iscrizione, ovvero quelli comunque urgenti, avuto riguardo al loro oggetto”.

Più di recente, anche il Tribunale di Siracusa, con l’ordinanza 23 gennaio 2015, dopo aver ribadito, in tema di mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, gli ormai consolidati principi di effettività del tentativo di mediazione e di partecipazione personale delle parti al procedimento, “…“…INVITA il mediatore ad avanzare proposta conciliativa, pur in assenza di congiunta richiesta delle parti ex art. 11, co. 1 d.lgs. 28/2010” e, inoltre, “…INVITA le parti ad informare tempestivamente il Giudice, anche mediante comunicazione presso l’indirizzo email …….@giustizia.it, anche in relazione a quanto stabilito dagli artt. 8, co. IV bis e 13 d.lgs. 28/2010, rispettivamente per l’ipotesi della mancata partecipazione delle parti (sostanziali), senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione, ed in tema di statuizione sulle spese processuali del giudizio, in caso di ingiustificato rifiuto delle parti della proposta di conciliazione formulata dal mediatore”.

Anche nel provvedimento in parola, premessa la necessità di riorganizzazione del proprio ruolo, data la recentissima presa di possesso dell’ufficio, dando la priorità, per quanto concerne la trattazione e la decisione, ai procedimenti con iscrizione più risalente, il Giudice dispone la mediazione ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, “…valutata la natura della causa, relativa a diritti disponibili e considerata l’ammissibilità della mediazione c.d. delegata, ai sensi dell’art. 5, co. 2, d.lgs. n. 28/2010, trattandosi di procedimento per il quale non è stata ancora celebrata l’udienza di precisazione delle conclusioni; considerato altresì che nella presente causa è stata esperita C.T.U. e che, pertanto, ciò potrà ulteriormente facilitare l’attività del mediatore”, e rilevato, altresì, “…che l’esperimento del procedimento di mediazione, che deve concludersi entro 3 mesi dalla relativa richiesta ex art. 6, d.lgs. 28/2010, non comporterà in concreto, anche in caso di esito infruttuoso della procedura, alcun ritardo nella decisione della lite”.

Ancora una volta, dunque, non soltanto il giudice dispone la mediazione ai sensi del secondo comma dell’art. 5, D.lgs 28/2010, ma invita espressamente il mediatore ad assumere un atteggiamento “valutativo” attraverso la formulazione di una proposta conciliativa pur in difetto di istanza congiunta delle parti in tal senso.

Appare quindi chiaro che le stesse dovranno ottemperare all’ordine del giudice non solo optando, ovviamente, per un organismo territorialmente competente, ma anche accertandosi, ai fini della scelta, che il regolamento dello stesso non preveda – come sovente si verifica nella pratica – clausole limitative della facoltà del mediatore di formulare una proposta conciliativa subordinandone l’esercizio alla condizione della previa richiesta congiunta di tutte le parti.

Orbene, sembra potersi affermare che se da un lato provvedimenti così strutturati innegabilmente possono “spingere” ad una soluzione conciliativa della controversia che, certamente, in molti casi appare decisamente auspicabile, dall’altro occorrerebbe, forse, una più dettagliata formulazione dell’invito.

Ove si tenga conto di quanto disposto dall’art. 11, co. 1, D.lgs 28/2010, dell’aumento (lieve, ma pur sempre previsto) dei costi a carico delle parti nel caso di formulazione della proposta conciliativa (aumento perfettamente giustificabile nel caso di istanza congiunta, molto meno se frutto della iniziativa unilaterale del mediatore) e delle possibili conseguenze connesse al rifiuto della stessa, la considerazione che precede non appare peregrina.

Né va sottovalutato il fatto che il mediatore deve essere in grado di approfondire adeguatamente la conoscenza dei reali interessi delle parti, correndosi altrimenti il rischio di una proposta – inevitabilmente di natura transattiva – che difficilmente potrà incontrare il favore di entrambe le parti ma che, verosimilmente, sarà vista come un “prendere o lasciare” e, pertanto, accettata obtorto collo al solo fine di evitare eventuali pesanti conseguenze negative sul piano processuale.

Resta poi da precisare come dovrebbe comportarsi il mediatore nell’ipotesi, improbabile ma pur sempre possibile, di mancata adesione al procedimento della parte “non diligente”: fermo il fatto che in tal caso il mediatore, non avendo un contraddittorio, non sarebbe in grado di formarsi una propria opinione e rischierebbe, quindi, di assecondare troppo le richieste dell’unica parte presente in mediazione, quest’ultima, forte dell’invito del giudice, potrebbe chiedere comunque la formulazione della proposta?

In caso di risposta affermativa al quesito da ultimo proposto, il pericolo di “proposta creativa” appare, francamente troppo forte.

La strada probabilmente è quella giusta, ma l’invito al mediatore potrebbe rilevarsi ancor più efficace se corroborato, laddove possibile, da elementi ulteriori di valutazione, che rendano la proposta effettivamente “calibrata” sugli interessi emersi nel giudizio.

Considerazioni conclusive

Sulla base del complesso di considerazioni che precedono, non può non sottolinearsi, conclusivamente, il ruolo fondamentale che il nuovo quadro normativo ha inteso assegnare alla figura del giudice al fine della ricerca di soluzioni conciliative che effettivamente possano rappresentare il massimo vantaggio ottenibile dalle parti in lite.

Da un lato, infatti, il Legislatore ha potenziato detto ruolo  prevedendo per il giudice la possibilità di formulare una proposta conciliativa, fondata – dunque – sulla natura della controversia, sullo stato dell’istruzione e  – last but not least, sul comportamento delle parti; dall’altro ha trasformato la mediazione delegata in uno strumento forte, con il quale il giudice può “spingere” (e non più meramente invitare) le parti ad instaurare la procedura dinanzi ad un organismo territorialmente competente e, addirittura, secondo la giurisprudenza di diversi uffici giudiziari, invitare esplicitamente il mediatore ad avanzare una proposta conciliativa ex art. 11, D.lgs 28/2010, pur in assenza dell’istanza congiunta delle parti.

Si è visto quale considerazione – fin dal principio – una consistente parte della Magistratura abbia riservato alle nuove potenzialità attribuitele: basti pensare alla possibilità di cumulo dei due istituti, in forza della quale la proposta formulata dal giudice ex art. 185 – bis, ove non accolta dalle parti, potrà comunque rappresentare una valida base di partenza per il successivo tentativo presso l’organismo adito “d’ordine” del giudice stesso.

Lo “sviluppo autonomo” della proposta, dunque.

Ben potrà, infatti, il mediatore, anche sulla base dell’eventuale proposta formulata dal giudice e dei motivi per i quali una delle parti (o entrambe) non abbia ritenuto di accoglierla, estendere la mediazione a profili emersi successivamente alla formulazione della proposta stessa o, comunque, se già esistenti, non entrati nel thema decidendum, superando così il vincolo rappresentato, nel giudizio, dalla corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

D’altra parte, si tratta di aspetti che la giurisprudenza, come in precedenza evidenziato, ha sottolineato già in sede di prime esperienze applicative.

Basti pensare a passaggi comeSotto tale ultimo profilo, vale a dire la possibilità che le parti, assistite dai rispettivi difensori, possano trarre utilità dall’ausilio, nella ricerca di un accordo,  ed anche alla luce della proposta del Giudice, di un mediatore professionale di un organismo che dia garanzie di professionalità e di serietà, è possibile prevedere, anche all’interno dello stesso provvedimento che contiene la proposta del Giudice, un successivo percorso di mediazione demandata dal magistrato” (cfr. Tribunale di Roma, sez. XIII civ., ord. 24 ottobre 2013); o, ancora,  “…i mediatori ben potrebbero estendere la «trattativa (rectius: mediazione)» ai crediti maturati successivamente alla instaurazione dell’odierna lite e non fatti valere in questo processo, così essendo evidente che l’eventuale soluzione conciliativa potrebbe definire il conflitto, nel suo complesso, mentre la sentenza di appello potrebbe definire, tout court, solo una lite, in modo parziale” (cfr. Tribunale di Milano, sez. IX civ., ord. 29 ottobre 2013).

La giurisprudenza ha, allo stato attuale, la chiave (unica?) per la diffusione delle soluzioni alternative delle controversie civili.

L’auspicio è che i giudici continuino ad applicare, in forma sempre più estesa, gli strumenti che il legislatore, sia pure con modalità spesso discutibili sotto il profilo della tecnica di redazione testuale, ha comunque provveduto a fornire loro.

 dott. Luigi Majoli

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