mancata partecipazione in mediazione

Roma Capitale: mancata partecipazione in mediazione e danno erariale

Il Tribunale di Roma, nell’ambito di una controversia relativa alla richiesta di risarcimento del danno derivante dall’allagamento dei locali (capannoni) della Società attrice, imputabile, secondo la (parzialmente accolta) tesi attorea, unicamente a negligenza del Comune di Roma per il mancato funzionamento delle idrovore e dall’insufficiente manutenzione dei tombini, a seguito dell’ampiamente previsto evento atmosferico verificatosi nella Capitale nelle giornate del 30 e 31 gennaio 2014, non solo sanziona ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 8, D.lgs 28/2010, la mancata partecipazione alla mediazione delegata dell’Amministrazione, ma condanna la stessa ex art. 96, co. 3, c.p.c. e, ravvisando la sussistenza del danno erariale, dal momento che “…vi erano elevate probabilità di un accordo che avrebbe comportato un minor esborso da parte dell’ente territoriale rispetto a quello che contiene la sentenza”, provvede alla trasmissione della sentenza alla Procura Generale della Corte dei Conti.

La pronuncia in esame si inserisce pienamente, sotto una molteplicità di aspetti, nell’alveo interpretativo ormai costantemente fatto proprio dalla Sezione (cfr., ex multis, sent. 30 ottobre 2014; in particolare, per le tematiche che qui interessano, cfr. ord. 19 febbraio 2015; ma soprattutto, la “capostipite” sent. 17 dicembre 2015), del quale conviene dare brevemente conto nelle note che seguono.

In primo luogo, costituitasi l’Amministrazione convenuta, il Giudice, secondo uno schema ormai divenuto “classico”, ritenuta la controversia “mediabile”, formulava una proposta conciliativa ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., (pre)disponendo, peraltro, per l’ipotesi che alla stessa le parti (o una di esse) non intendessero aderire, l’esperimento della mediazione delegata di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Con ordinanza del 28 gennaio 2019 il giudice proponeva, in effetti, il “…il pagamento a favore (dell’attore) ed a carico di Roma Capitale di una somma ricompresa, in via mediana, in un range fra €. 35.000 e 45.000. Oltre al pagamento, a carico della stessa parte, di un contributo alle spese di causa a favore(dell’attore)per l’importo di €.5.000,00 oltre IVA CAP e spese generali; nonché spese di consulenza tecnica di uffici”. Peraltro nell’ordinanza si rilevava, in punto di motivazione, che “…gli atti di causa e le risultanze della consulenza tecnica di ufficio depongono per una situazione eccezionale che potrebbe integrare il caso fortuito. Sul quale, in ogni caso, si innestano inadempienze di Roma Capitale che possono avere aggravato quello che sarebbe potuto risultato un danno non evitabile”.

Roma Capitale, tuttavia, non avendo aderito, a differenza di parte attrice, alla proposta del Giudice, ignorava in toto il procedimento di mediazione, dichiarando di non aderire alla stessa con missiva del proprio difensore palesemente stereotipata e di stile, sintomo, secondo il Giudice, “…della trattazione dell’ordine giudiziale, da parte dell’ente territoriale, come mera questione processuale di cui si deve occupare l’avvocato al quale è stato rilasciato il mandato alla lite”.

In particolare, il Giudice, con riferimento alla mancata partecipazione alla fase di mediazione, rileva come “…in ogni caso l’onere di allegare e provare la sussistenza di una valida giustificazione incombeva all’Ente Territoriale che non l’ha assolta. Non può essere obliterato che a monte del provvedimento di invio in mediazione vi è la valutazione del giudice che ha esaminato gli atti, studiato le posizioni delle parti, ed infine adottato un provvedimento che, in relazione alle circostanze tutte indicate dal secondo comma dell’art.5 decr.lgsl.28/2010, testimonia il convincimento maturato dal magistrato circa l’utilità di un percorso di mediazione nell’ambito del quale le parti avrebbero potuto approfondire e discutere liberamente le rispettive posizioni fino al raggiungimento di un accordo per entrambe vantaggioso.Vale ricordare che la partecipazione al procedimento di mediazione demandata è obbligatoria per legge e che proprio in considerazione di ciò NON è giustificabile una negativa e generalizzata scelta aprioristica di rifiuto e di non partecipazione al procedimento di mediazione. Neppure ove tale condotta muova dal timore di incorrere in danno erariale a seguito della conciliazione. Va infatti considerato che in tale timore è insita un’aporia. A prescindere che esiste la possibilità di un autorevole e rassicurante ausilio nel percorso conciliativo in mediazione (…)”; il Tribunale sottolinea come nella disciplina complessiva della mediazione non sia ravvisabile, e dal punto di vista attivo e da quello passivo, alcuna eccezione per quanto riguarda l’ente pubblico da domandarsi: “Occorre forse supporre che se una P.A. deve introdurre una causa in una delle materie di cui all’art. 5 co. 1 bis del decr.lgsl. 20/2010, promuove necessariamente – dovendo scontare altrimenti l’improcedibilità – il procedimento di mediazione, ma lo fa con la riserva mentale di non accordarsi mai !?Si tratterebbe, se così fosse, di un paradossale non pòssumus nonché di un pessimo esempio da parte dell’amministrazione pubblica di deliberata e pregiudiziale disapplicazione di una legge dello Stato”.

In sostanza, carenza di un qualsivoglia giustificato motivo per la mancata partecipazione al procedimento di mediazione.

Peraltro, nel caso di specie, ad avviso del Giudice, sussistevano elevate possibilità di pervenire ad un accordo conveniente anche per il Comune di Roma, dovendosi dunque ritenere il rifiuto dello stesso di partecipare al tentativo di mediazione irragionevole, illogico e contrario allo spirito ed alla lettera della legge.

La mancata partecipazione, senza una valida giustificazione, al procedimento di mediazione (obbligatoria o delegata, comunque tale da porsi quale condizione di procedibilità della domanda), costituisce dunque, secondo il Tribunale, “…condotta di per sé grave perché idonea a determinare la introduzione ovvero, se già pendente, l’incrostazione ed il prolungamento di una controversia in un contesto giudiziario, quello italiano, già ampiamente saturo nei numeri e troppo dilatato nella durata”.

Nel caso di specie, peraltro, la C.T.U. aveva accertato come i danni conseguenti all’alluvione della zona di Prima Porta avvenuta tra il 31 gennaio e il 4 febbraio 2014 fossero stati determinati sì dal verificarsi di un evento piovoso eccezionale che ha colpito l’intera città di Roma, ma anche da “…problematiche strutturali impiantistiche già note alle autorità competenti, come risulta dallo studio commissionato dallo stesso Comune di Roma dal 2006, ovvero: insufficienza del reticolo fognario e delle sezioni dei fossi di drenaggio superficiale; malfunzionamento e insufficienza degli impianti idrovori esistenti”.

I danni causati alla parte attrice ammontavano complessivamente alla somma di euro 53.746,92, ed al prodursi degli stessi risultava accertato il concorso delle inadempienze di Roma Capitale.

Tuttavia, sulla base delle premesse in precedenza accennate, il Tribunale ha affermato che soltanto parte dei danni subiti fosse imputabile al Comune di Roma, “…dovendosi tenere in debito conto la circostanza che l’evento temporalesco, di natura eccezionale, avrebbe comunque causato danni alle proprietà, anche in presenza di adempimento agli obblighi che in base ai principi espressi dall’art. 2051 cc (pienamente applicabile alla fattispecie) incombevano sul proprietario (Roma Capitale)”.

In via equitativa, non essendo altrimenti possibile un’esatta quantificazione, il Comune è stato pertanto ritenuto responsabile all’80% e condannato a risarcire la somma complessiva di euro 43.000,00.

Inoltre, in conseguenza della ingiustificata renitenza al procedimento di mediazione, trovavano applicazione nei confronti dell’Amministrazione le sanzioni di cui all’art. 8, ult. co., D.lgs 28/2010: argomento di prova ex art. 116, co. 2, c.p.c. e condanna al pagamento a favore dell’erario di una somma di importo pari al contributo unificato dovuto per il giudizio.

Certamente, come affermato non solo dalla pronuncia in commento, non sembra potersi ritenere che l’art. 8, D.lgs 28/2010, esaurisca gli strumenti posti a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione.

Di conseguenza, ed innanzitutto, non può escludersi in via generale l’applicabilità di una norma “aperta”, quale l’art. 96 c.p.c. (d’altra parte lo stesso art.13, D.lgs 28/2010, nel prevedere una specifica disciplina delle spese di causa in materia di proposta del mediatore irragionevolmente non accettata, fa comunque salva l’applicabilità degli artt. 92 e 96 c.p.c.).

Come ben noto, l’art. 96, co. 3, c.p.c., prevede che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Ora, la sentenza de qua richiama puntualmente le coordinate relative all’applicazione della summenzionata disposizione, vale a dire: in primo luogo, la non necessaria allegazione e dimostrazione dell’esistenza di un danno che abbia tutti i connotati giuridici per essere ammesso a risarcimento, risultando semplicemente previsto che il giudice condanna la parte soccombente al pagamento di un somma di denaro; inoltre, la circostanza che non si tratta di un risarcimento ma di un indennizzo (se si pensa alla parte a cui favore viene concesso) e di una punizione (per aver appesantito inutilmente il corso della giustizia, se si ha riguardo allo Stato), di cui viene gravata la parte che ha agito con imprudenza, colpa o dolo; l’ulteriore (e fondamentale) circostanza che l’ammontare della somma è lasciata alla discrezionalità del giudice che ha come unico parametro di legge l’equità, con la conseguenza che non si potrà che avere riguardo, da parte del giudice stesso, a tutte le circostanze del caso per determinare in modo adeguato la somma attribuita alla parte vittoriosa; ancora, il fatto che, a differenza di quanto previsto nel primo e nel secondo comma del medesimo art. 96, il giudice è chiamato ad applicare una sanzione a carico della parte soccombente anche d’ufficio, non necessariamente su richiesta di parte; infine, l’applicabilità della norma anche al di fuori della sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma della richiamata disposizione.

Ciò premesso, secondo il Giudice, “…nel caso dell’art.5 II° decr. lgsl. 28/2010 (diversamente dalla mediazione obbligatoria) il giudice ha effettuato una valutazione di mediabilità concreta e specifica (relativa all’an, al momento in cui disporla, ed alle circostanze oggettive e soggettive che hanno evidenziato l’utilità del tentativo di conciliazione): il disvalore del rifiuto di partecipare all’incontro è quindi, all’evidenza, ben più elevato rispetto al caso della mediazione obbligatoria”; in altri termini, “…l’applicazione della misura sanzionatoria (dell’art.96 III°) non è una conseguenza automatica della mancata partecipazione, ma di una valutazione specifica e complessiva della condotta del soggetto renitente con riferimento, fra l’altro ma non solo, all’assenza di giustificati motivi per non partecipare ed al grado di probabilità del raggiungimento di un accordo in caso di partecipazione (fattore quest’ultimo che, in questo caso il giudice aveva ben evidenziato nell’ordinanza di invio); cosicché tanto più alte ed evidenti si appalesano tali possibilità tanto più grave e meritevole di sanzione (art.96 cpc) si connota l’ingiustificato rifiuto”.

Secondo la pronuncia in esame, l’applicazione dell’art. 96, co. 3, c.p.c., può avere inoltre, nel contesto di cui si discute, la funzione di un salutare e necessario riequilibrio del sistema sanzionatorio della mediazione, altrimenti squilibrato. E, in definitiva, consentire una interpretazione costituzionalmente orientata (dall’art.3 Cost.), delle norme che la disciplinano.

Nella statuizione in parola, infatti, la mediazione è vista come “…riforma epocale destinata ad incidere profondamente ed in modo definitivo su una antica cultura giuridica formata ed avvezza pressoché esclusivamente all’aspra gestione della contesa giudiziale, con l’innesto di una massiccia dose di cultura conciliativa, non può produrre i suoi effetti, da un giorno all’altro, solo con un invito del legislatore. Occorrono forti incentivi e deterrenti per le prevedibili naturali resistenze al Nuovo, anche quando sicuramente, come in questo caso, un Nuovo molto positivo, perché diretto a rivitalizzare la giurisdizione valorizzandola negli ambiti dove è davvero necessaria. Senza la pretesa, che sarebbe errata e velleitaria, di sostituirla tout court, ma affiancandole un valore aggiunto che consiste nella possibilità per le parti, in moltissimi casi, nell’area dei diritti disponibili, di pervenire con l’aiuto di un mediatore professionale e imparziale, all’accordo. Prevenendo o ponendo fine ad una lite. Una cultura quindi della pacificazione sociale, piuttosto dell’esasperazione del conflitto giudiziario immanente ed ubiquo”.

Sembra opportuno, conclusivamente sul punto, sottolineare il fatto che, come rivelato in modo inequivocabile dalla locuzione in ogni caso la condanna di cui al terzo comma può essere emessa sia nelle situazioni di cui ai primi due commi dell’art. 96 e sia in ogni altro caso. E quindi in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole.

Come è noto, la giurisprudenza che richiedeva la sussistenza della gravità della colpa (ove non fosse presente il dolo) è stata di recente superata: cfr. Corte Cassaz. ord. 10 settembre 2018 n. 21943, secondo la quale ad integrare il presupposto soggettivo della condanna ex art. 96, co. 3, è sufficiente la sussistenza di condotte pretestuose.

Nel caso di specie, evidenzia il Giudice, “…in presenza di chiare e comprovate circostanze (indicate dal giudice nell’ordinanza di invio in mediazione) che imponevano a tutta evidenza di dismettere una posizione processuale di ostinata pregiudiziale e pervicace resistenza, la condotta della P.A. convenuta che ha scelto deliberatamente quanto ingiustificatamente di non aderire alla mediazione demandata dal giudice, integra certamente dolo o colpa grave. Deve affermarsi che il volontario ed ingiustificato rifiuto di aderire ad un ordine del giudice civile, legittimamente dato, va sempre considerato grave ed infatti l’ordinamento prevede rimedi, sanzioni e deterrenti di variegata natura e contenuto, a carico della parte (e talvolta anche del terzo) renitente”.

Con riferimento alla quantificazione della sanzione, il Tribunale osserva come la somma debba essere rapportata allo allo stato soggettivo del responsabile, perché il dolo e la cosciente volontarietà della condotta censurabile ex art. 96, co. 3, è più grave della colpa. Si è trattato di una “…volontaria condotta del Comune di Roma, che disattendendo il motivato e ragionevole invito del giudice di cercare di trovare un conveniente accordo tenendo conto di quanto argomentato nell’ordinanza, ha preferito portare la causa alle estreme conseguenze, aggravando inutilmente il lavoro del giudice, piuttosto che ragionare e discutere responsabilmente in sede conciliativa, con un sicuro risparmio anche per le casse dell’ente territoriale”. Inoltre, deve guardarsi, da un lato, alla qualifica ed alle caratteristiche “…del responsabile, persona fisica o giuridica che sia, ed alla sua maggiore o minore capacità anche in termini organizzativi, di preparazione professionale, culturale, tecnica, di assumere condotte consapevoli. In questo caso la condotta del Comune non era scusabile, trattandosi, invero, di un ente di grandi dimensioni”; dall’altro, “…alla necessità che in relazione alle caratteristiche del soggetto responsabile, ed in particolare alla sua capacità patrimoniale, la condanna ex art.96 co III° c.p.c. costituisca un efficace deterrente ed una sanzione significativa ed avvertibile.

Di qui, la condanna nei confronti di Roma Capitale al pagamento anche dell’ulteriore somma di 18.000 euro, in favore della parte attrice, in applicazione dell’anzidetto art. 96, co. 3, c.p.c.

Inoltre, e si tratta di aspetto non certamente di secondaria importanza, il Tribunale ha disposto, con separata ordinanza, l’invio degli atti e della sentenza alla Procura Generale della Corte dei Conti per la valutazione dei danni erariali.

Certamente in molti casi un’accorta applicazione dell’art. 96, co. 3, c.p.c., può rappresentare un ulteriore valido deterrente alla ancor troppo frequente diserzione dalla mediazione, soprattutto in vicende, come quella in oggetto, che vedono il coinvolgimento di soggetti “forti”, come la Pubblica Amministrazione, con conseguente esigenza di riequilibrio di posizioni, anche se la discrezionalità del Giudice, unico parametro utilizzabile in ordine alla determinazione dell’ammontare della somma, non sembra poter garantire sempre un utilizzo ottimale della disposizione in esame.

In merito alla mediazione demandata di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, l’auspicio, più volte ribadito da chi scrive, dovrebbe andare nel senso di un intervento legislativo volto a sancire regole procedimentali proprie per il modello in parola, tali da non consentire valutazioni delle parti in sede di “primo incontro”, in presenza di una valutazione circa la mediabilità della causa già effettuata dal Giudice nel momento stesso in cui dispone il tentativo conciliativo, preceduto o meno che sia da una proposta formulata ex art. 185 – bis c.p.c.: un accorgimento che – verosimilmente – garantirebbe in un ragguardevole novero di ipotesi la “effettività” del tentativo stesso, liberando, a mio parere, i Giudici dalla necessità di operare argomentazioni ermeneutiche estensive, quanto mai gradite da chi in concreto opera nella mediazione, ma non sempre in grado, tuttavia, di essere coerenti fino in fondo con un impianto normativo obiettivamente perfettibile.

Luigi Majoli – ADR Intesa

MAGGIORI INFO? CONTATTACI