corso di aggiornamento per mediatore civile

Corsi di Aggiornamento per Mediatori Civili – 18 crediti formativi

Corso di Aggiornamento obbligatorio per il mantenimento della qualifica di mediatore ai sensi del D.M. 180/2010 e successive modifiche (18 ore biennali).
Prossimi corsi in programma:

  • 11 e 12 marzo 2016. Accreditato dal COA di Velletri – 18 crediti formativi
  • 18 e 19 marzo 2016. Accreditato dal COA di Velletri – 18 crediti formativi
  • 1 e 2 aprile 2016. Accreditato dal Coa di Velletri – 18 crediti formativi

FORMATORI:
Avv. Luca Tantalo: Avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori dal 24 giugno 2010; iscritto all’Albo dei Curatori Fallimentari presso il Tribunale di Roma dal 1998; membro dell’Associazione Italiana per l’Arbitrato; Presidente del Comitato ADR & Mediazione. Si occupa da diversi anni di ADR. Ha gestito come mediatore oltre duecento controversie nei settori di diritto bancario e assicurativo, diritti reali, successioni, responsabilità medica, condominio ed r.c. auto, acquisendo una notevole esperienza nella soluzione delle controversie nazionali e internazionali tra imprese e tra privati. Autore di numerosi articoli in materia di ADR.
Formatore teorico-pratico accreditato dal Ministero della Giustizia ex D.M. 180/2010 per diversi Enti di Formazione Pubblici e Privati.
Avv. Marco Marianello: Avvocato abilitato al Patrocinio presso la Corte Suprema e le Giurisdizioni Superiori. Attività di consulenza legale, redazione di pareri e contratti, assistenza stragiudiziale in materia di diritto dei consumatori, bancario, finanziario e societario. Assistenza giudiziale in materia di diritto dei consumatori, bancario e finanziario. Mediatore Civile e Formatore per mediatori. Specializzazioni in Diritto Bancario, Diritto finanziario, Diritto dei consumatori e ADR
Dott. Luigi Majoli: laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Ha svolto attività didattiche e di ricerca presso diversi istituti, dedicandosi principalmente alle problematiche relative al processo civile. Ha curato svariati corsi di preparazione a concorsi pubblici banditi dagli enti locali. Mediatore professionista dal 2011, svolge la propria attività presso l’organismo di mediazione ADR Intesa di Roma. Ha gestito innumerevoli procedimenti di mediazione. Autore di diverse pubblicazioni ed articoli in tema di mediazione, è iscritto nell’elenco dei formatori tenuto presso il Ministero della Giustizia. Svolge regolarmente attività di formazione, con particolare riferimento ai corsi di aggiornamento obbligatori per i mediatori civili.

Sede corso: ADR Intesa – via Fregene 9 – Roma
Date: 11 e 12 marzo 2016- h. 9.00/19.00 – 18 crediti formativi
18 e 19 marzo 2016- h. 9.00/19.00 – 18 crediti formativi
1 e 2 aprile 2016- h. 9.00/19.00 – 18 crediti formativi
Quota di partecipazione: per ogni modulo di 18 ore € 180,00
per info e iscrizioni: formazione@adrintesa.it

Cassazione: media l’opponente

Corte di Cassazione, Terza sezione civile, sentenza 3 dicembre 2015, n. 24629.

Commento:

Giunge, finalmente e quanto mai atteso, l’intervento della Suprema Corte di Cassazione in ordine alla vexata quaestio relativa alle conseguenze della omessa mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Secondo la Cassazione è il debitore opponente, originario ingiunto, ad essere gravato dall’onere di avviare il procedimento di mediazione all’interno di un giudizio, quale appunto quello di opposizione a decreto ingiuntivo, all’interno del quale al medesimo va ascritto un evidente interesse ad agire.
Con la conseguenza, come si vedrà, che l’omessa instaurazione del tentativo conciliativo implicherà l’improcedibilità della domanda proposta in opposizione, ed il conseguente solidificarsi del decreto ottenuto dal creditore in via monitoria.
Sembra opportuno sintetizzare, sia pur brevemente, i termini della questione.
Come è noto, secondo l’art. 5, co. 4, D.lgs 28/2010, i commi 1 – bis e 2 della medesima disposizione, che prevedono, rispettivamente, la mediazione obbligatoria ante causam, e la mediazione delegata dal giudice per le cause già pendenti, non si applicano “ …nei procedimenti di ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.
Appare evidente come il legislatore abbia ritenuto che lo svolgimento della procedura di mediazione fosse sostanzialmente incompatibile con le peculiari caratteristiche del procedimento monitorio, caratterizzato dalla rapidità e assenza di previa attivazione del contraddittorio, e dell’opposizione, il cui termine di proponibilità risulta contingentato dall’art. 641 c.p.c.
In conseguenza di quanto premesso, in caso di pretesa azionata in via monitoria, l’esperimento della mediazione diviene possibile solo quando sia stata proposta opposizione, e, comunque, dopo l’adozione dei provvedimenti, considerati urgenti e lato sensu cautelari, sulla esecutività del provvedimento monitorio emesso.
Ora, fermo restando che il mancato esperimento della mediazione, tanto nei casi di cui all’art. 5, co. 1 – bis, quanto laddove la stessa venga delegata dal giudice, comporta la improcedibilità della domanda giudiziale, si è assai discusso, in dottrina e soprattutto in giurisprudenza, in ordine a chi abbia l’onere di promuovere la mediazione, e quindi abbia interesse ad evitare la declaratoria di improcedibilità, in punto di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Nella giurisprudenza in materia sono rintracciabili due distinti orientamenti che, fino alle pronunce più recenti, hanno seguitato a contrapporsi.
Secondo un primo indirizzo, che tende a valorizzare risalenti orientamenti relativi all’oggetto del giudizio di opposizione, che costituirebbe una (sia pur eventuale) continuazione della fase monitoria nell’ambito di un’unica vicenda processuale che, non a caso, secondo la giurisprudenza di legittimità, risulterebbe pendente sin dal momento del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo (cfr., ad es., Corte Cass., ord. 4 settembre 2014, n. 18707, e Corte Cass., ord. 3 settembre 2009, n. 19120), la declaratoria di improcedibilità avrebbe ad oggetto la domanda sostanziale proposta in via monitoria.
Il ricorrente opposto, formalmente convenuto nel relativo giudizio, sarebbe da considerarsi attore sotto il profilo sostanziale, mentre l’opponente, che formalmente ha agito, sempre sotto il profilo sostanziale dovrebbe ritenersi convenuto. Pertanto l’opposto, titolare della pretesa sostanziale azionata, divenuta oggetto del giudizio di opposizione, avrà l’onere di promuovere il tentativo di mediazione, subendo, in mancanza, la declaratoria di improcedibilità della domanda, che implicherebbe il venir meno della pretesa sostanziale proposta in via monitoria.
Alla base di una siffatta ricostruzione si pone la ricorrente considerazione secondo cui, diversamente opinando, si finirebbe con il produrre un irragionevole squilibrio ai danni del debitore che non solo subisce l’ingiunzione di pagamento a contraddittorio differito, ma nella procedura successiva alla fase sommaria, viene pure gravato di altro onere che, nel procedimento ordinario, non spetterebbe a lui. E ciò sulla base di una scelta discrezionale del creditore (cfr., in primis, Trib. Varese, 18 maggio 2012, est. Buffone. Successivamente, cfr., ad es., Trib. Ferrara, sent. 7 gennaio 2015 e, ancora Trib. Cuneo, sent. 1 ottobre 2015, che, quanto all’interesse dell’originario ricorrente, si spinge ad affermare che non può ritenersi “…che lo stesso sia già soddisfatto dal titolo monitorio perché, in caso di accoglimento della spiegata opposizione, tale titolo è suscettibile di essere revocato. Dunque, diversamente da quanto affermato dai sostenitori della tesi opposta a quella che qui si preferisce, ben può ritenersi che l’attivazione della procedura di mediazione corrisponda all’interesse del creditore ingiungente giacché, ove quest’ultimo non provveda, il titolo monitorio è destinato alla caducazione per improcedibilità della domanda come originariamente proposta nei confronti del soggetto ingiunto”).
Secondo un diverso orientamento, invece, muovendo da un lato da una asserita scarsa chiarezza obbiettiva delle espressioni letterali utilizzate dal legislatore e dall’altro dall’intento di valorizzare la particolare disciplina giuridica del giudizio di opposizione, si è sostenuta, in caso di omessa mediazione, la improcedibilità della opposizione, con conseguente passaggio in giudicato del decreto opposto (in tal senso già Trib. Prato, 18 luglio 2011, est. Iannone; successivamente cfr., ex multis, Trib. Rimini, 5 agosto 2014 est. Bernardi; Trib. Firenze, 30 ottobre 2014, est. Ghelardini; fino alla recentissima Trib. Pavia, 12 ottobre 2015, est. Marzocchi).
Detta opzione ermeneutica muove dal contesto normativo in cui si inserisce il giudizio di opposizione e, in particolare, da una attenta considerazione del sistema di sanzioni previste dall’ordinamento a fronte dell’inattività del debitore ingiunto.
Occorre innanzitutto fare riferimento alla disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 647 e 650 c.p.c. in virtù del quale, dichiarata l’inammissibilità dell’opposizione tardiva, il decreto acquista esecutività. La medesima sanzione è prevista, poi, dal richiamato art. 647 c.p.c. per l’ipotesi di costituzione tardiva dell’opponente.
Viene in rilievo, infine, il dettato dell’art. 653 c.p.c. che, per il caso di dichiarazione dell’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307 c.p.c. , stabilisce che “…il decreto che non ne sia già munito acquista efficacia esecutiva”.
D’altro canto, come sempre evidenziato dai fautori dell’orientamento in parola, ritenere che la mancata instaurazione del procedimento di mediazione conduca alla revoca del decreto ingiuntivo comporterebbe che, in contrasto con le regole processuali proprie del rito, verrebbe a porsi in capo all’originario ingiungente l’onere di coltivare il giudizio di opposizione per garantirsi la salvaguardia del decreto opposto, con ciò contraddicendo la ratio propria del giudizio di opposizione, che ha la propria peculiarità nel rimettere l’instaurazione del giudizio – e, quindi, la sottoposizione al vaglio del giudice della fondatezza del credito oggetto d’ingiunzione – alla libera scelta del debitore.
D’altra parte, con riferimento a quanto previsto dall’art. 653 c.p.c., è opportuno sottolineare che secondo la costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, concorde la dottrina, tale disposizione va intesa nel senso che l’estinzione del giudizio di opposizione produce gli stessi effetti dell’estinzione del giudizio di impugnazione: il decreto ingiuntivo opposto diviene definitivo ed acquista l’incontrovertibilità propria del giudicato (cfr. Corte Cass., n. 4294/2004). Non sarà pertanto possibile riproporre l’opposizione e resteranno coperti da giudicato implicito tutte le questioni costituenti antecedente logico necessario della decisione monitoria (cfr. Corte Cass., n. 15178/2000).
Evidente, dunque, l’analogia di ratio e di disciplina tra l’estinzione dell’opposizione a decreto ingiuntivo e quella del processo di appello (art. 338 c.p.c. secondo cui “…l’estinzione del giudizio di appello…fa passare in giudicato la sentenza impugnata…”).
Queste, in sostanza, le coordinate ermeneutiche alla base dei due richiamati orientamenti.
Ora, con la decisione in esame, la Corte di Cassazione assume una decisa posizione in favore della seconda ricostruzione, ritenendola, fra l’altro, maggiormente coerente anche con la finalità deflattiva che ha accompagnato l’introduzione da parte del legislatore dell’istituto della mediazione: il formarsi del giudicato sul decreto ingiuntivo opposto, infatti, esclude che possa mettersi nuovamente in discussione tra le parti il rapporto controverso mediante la riproposizione della medesima domanda.
Osserva infatti la Corte come “…la disposizione di cui all’art. 5 d. lgs n. 28 del 2010, di non facile lettura, deve essere interpretata conformemente alla sua ratio. La norma è stata costruita in funzione deflattiva e, pertanto, va interpretata alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell’efficienza processuale. In questa prospettiva la norma, attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira – per così dire – a rendere il processo l’extrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono state precluse. Quindi l’onere di esperire il tentativo di mediazione deve allocarsi presso la parte che ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo”.
La Corte prosegue rilevando come nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la difficoltà di individuazione del soggetto processuale su cui grava l’onere di cui sopra deriva dal fatto che si è in presenza “…di una inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale, nel senso che il creditore del rapporto sostanziale diventa l’opposto nel giudizio di opposizione”.
Proprio quanto da ultimo osservato ha finito con l’ingenerare, secondo il Collegio, “…un errato automatismo logico”, in forza del quale si tende ad individuare nel titolare del rapporto sostanziale, qui convenuto in opposizione, la parte sulla quale verrebbe a gravare l’onere in questione.
Ma, conclude il Giudice di legittimità, ove si mantenga come guida il criterio ermeneutico dell’interesse e del potere di introdurre il giudizio a cognizione piena, “…la soluzione deve essere quella opposta. Invero, attraverso il decreto ingiuntivo, l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale e della ragionevole durata del processo. E’ l’opponente che ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore. E’ dunque sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria perché è l’opponente che intende precludere la via breve per percorrere la via lunga”.
In sostanza, quindi, secondo la Corte è l’opponente “…ad avere interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex art. 653 c.p.c. Soltanto quando l’opposizione sarà dichiarata procedibile riprenderanno le normali posizioni delle parti: opponente – convenuto sostanziale, opposto – attore sostanziale. Ma nella fase precedente sarà il solo opponente, quale unico interessato, ad avere l’onere di introdurre il procedimento di mediazione; diversamente, l’opposizione sarà improcedibile”.
L’interpretazione c.d. evolutiva, ad oggi effettivamente prevalente, è dunque, secondo la Cassazione, quella che deve considerarsi in ultima analisi corretta, soprattutto se rapportata ai principi generali sul giusto processo e agli intenti deflattivi che hanno chiaramente ispirato gli interventi legislativi degli ultimi anni in materia di giustizia civile, primo tra tutti l’introduzione della mediazione, in molti ambiti, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Dott. Luigi Majoli

Testo integrale:

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROBERTA VIVALDI – Rel. Presidente —
Dott. GIACOMO MARIA STALLA – Consigliere –
Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO – Consigliere –
Dott. ANTONIETTA SCRIMA – Consigliere –
Dott. ENZO VINCENTI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 116 – 2014 proposto da:
XXXXXXXXX, in persona dell’amministratore unico XXXXXXX, considerata domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato XXXXXX, giusta procura a margine del ricorso

ricorrente –

contro
YYYYYYYYY, in persona dell’YYYYYYYYY, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CESI, YY, presso lo studio dell’avvocato YYYYYYY, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato YYYYYYYY, giusta procura in calce al controricorso

– controricorrente –

avverso la sentenza n. ZZZZZZ della CORTE D’APPELLO DI TORINO, depositata il 16/05/2013, R.G.N. ZZZZZZZZZZ
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/10/2015 dal consigliere Dott. Roberta Vivaldi;
udito l’avvocato XXXXXXXX per delega;
udito l’avvocato YYYYYYYY;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La XXXXXXXXX ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi avverso la sentenza del 16.5.2013 con la quale la Corte di Appello di Torino – in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti su ricorso della YYYYYYYY per il pagamento di canoni di locazione – aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato improcedibile l’opposizione proposta per il mancato avvio della mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. 5 d. lgs n. 28 del 2010.
Resiste con controricorso la XXXXXXXXX.

MOTIVI DELLA DECISIONE

In via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla resistente.
Vero è che è ammissibile l’impugnazione con la quale l’appellante si limiti a dedurre soltanto vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso anche nel merito in senso a lui sfavorevole, solo ove i vizi denunciati comporterebbero, se fondati, una rimessione al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c.
Nelle ipotesi in cui, invece, il vizio denunciato non rientra in uno dei casi tassativamente previsti dai citati artt. 353 e 354 c.p.c., è necessario che l’appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito.
Diversamente, l’appello fondato esclusivamente su vizi di rito è inammissibile, oltre che per un difetto di interesse, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione (S.U. 14.12.1998 n. 12541; da ultimo Cass. 29.1.2010 n. 2503; Cass. 25.9.2012 n. 16272).
Ma questo solo se la pronuncia abbia deciso anche nel merito in senso sfavorevole all’impugnante; situazione che non si è verificata nel caso in esame di pronuncia, solo in rito, sulla improcedibilità della opposizione.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione, falsa applicazione di norma di diritto (art. 360, comma 1°, n. 3, c.p.c.): in particolare, violazione dell’art. 5 D. lgs 28/2010.
La disposizione di cui all’art. 5 d. lgs n. 28 del 2010, di non facile lettura, deve essere interpretata conformemente alla sua ratio.
La norma è stata costruita in funzione deflattiva e, pertanto, va interpretata alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell’efficienza processuale.
In questa prospettiva la norma, attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira – per così dire – a rendere il processo l’extrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono state precluse.
Quindi l’onere di esperire il tentativo di mediazione deve allocarsi presso la parte che ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo.
Nel procedimento per decreto ingiuntivo cui segue l’opposizione, la difficoltà di individuare il portatore dell’onere deriva dal fatto che si verifica una inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale, nel senso che il creditore del rapporto sostanziale diventa l’opposto nel giudizio di opposizione.
Questo può portare ad un errato automatismo logico per cui si individua nel titolare del rapporto sostanziale (che normalmente è l’attore nel rapporto processuale) la parte sulla quale grava l’onere.
Ma in realtà – avendo come guida il criterio ermeneutico dell’interesse e del potere di introdurre il giudizio di cognizione – la soluzione deve essere quella opposta.
Invero, attraverso il decreto ingiuntivo, l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale e della ragionevole durata del processo.
E’ l’opponente che ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore.
E’ dunque sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria perché è l’opponente che intende precludere la via breve per percorrere la via lunga.
La diversa soluzione sarebbe palesemente irrazionale perché premierebbe la passività dell’opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice.
Del resto, non si vede a quale logica di efficienza risponda una interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l’onere di effettuare il tentativo di mediazione quando ancora non si sa se ci sarà opposizione allo stesso decreto ingiuntivo.
E’, dunque, l’opponente ad avere interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex art. 653 c.p.c.
Soltanto quando l’opposizione sarà dichiarata procedibile riprenderanno le normali posizioni delle parti: opponente – convenuto sostanziale, opposto – attore sostanziale.
Ma nella fase precedente sarà il solo opponente, quale unico interessato, ad avere l’onere di introdurre il procedimento di mediazione; diversamente, l’opposizione sarà improcedibile.
Il motivo, quindi, non è fondato.
Con il secondo motivo si denuncia vizio di omessa, insufficiente e comunque contraddittoria motivazione circa il fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c.).
Il motivo è inammissibile perché aspecifico.
La ricorrente, al di là della critica, soltanto enunciata, non specifica, né riporta in ricorso, quali siano le parti della motivazione insufficienti, carenti o contraddittorie, né indica quali siano le ragioni della decisività degli errori motivazionali; vale a dire la loro rilevanza ai fini della decisione.
Conclusivamente il ricorso è rigettato.
La novità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese.
Sussistono le condizioni per l’applicazione del disposto dell’art. 13 c. 1 quater dpr n. 115/2002 introdotto dalla legge 228 del 2012.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13 c. 1 quater del d.p.r. n. 115/2002 dà atto della sussistenza per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il giorno 7 ottobre 2015, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di cassazione.
Il Presidente Estensore

Mediazione: sì alle spese di avvio e obbligo formativo per avvocati

Importanti conferme da parte del Consiglio di Stato, con la sentenza 17 novembre 2015, in ordine alle spese di avvio del procedimento di mediazione, all’obbligo degli avvocati, mediatori ex lege, di formarsi e di aggiornarsi e, più in generale, alla piena legittimità costituzionale della mediazione così come riformata dalla legge 98/2013.

Il Ministero della Giustizia e il Ministero dello Sviluppo Economico hanno interposto appello, previa sospensiva, avverso la sentenza con la quale il TAR Lazio, in parziale accoglimento del ricorso proposto dall’Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC), aveva parzialmente annullato il DM 180/2010.

Costituitasi nel giudizio, l’appellata UNCC, non limitandosi a controdedurre ai fini del rigetto dell’appello, ha a sua volta proposto appello incidentale avverso la medesima pronuncia di primo grado nella parte in cui respingeva una delle questioni di legittimità costituzionale avanzate da parte ricorrente.

Inoltre, aderivano ad adiuvandum trentuno avvocati mediatori iscritti e l’associazione Primavera Forense, a sua volta organismo di mediazione iscritto, la quale ha assunto, in limine, l’inammissibilità del ricorso di primo grado per omessa notifica ad almeno un controinteressato (vale a dire, ad almeno un organismo di mediazione).

Questa, in sintesi, la vicenda in fatto.

Occorre ora analizzare i motivi della decisione del supremo giudice amministrativo, secondo l’ordine delle diverse argomentazioni in diritto.

In primo luogo, il Collegio rileva come, in ordine logico, debba necessariamente muoversi dall’appello incidentale, dal momento che “…la sua ipotetica fondatezza comporterebbe la possibile incostituzionalità delle stesse norme primarie a monte della censurata disciplina regolamentare” e “…che siffatta questione, ove ritenuta non manifestamente infondata, imporrebbe la rimessione alla Corte costituzionale anche d’ufficio”.

In effetti, con l’impugnazione incidentale, l’UNCC reitera una sola delle questioni di legittimità costituzionale che il TAR aveva ritenuto manifestamente infondate, in particolare quella relativa alla nuova mediazione delegata dal giudice ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Sul punto, il Consiglio di Stato conferma la pronuncia di primo grado, nel senso dell’esclusione di una significativa incisione del diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost., risultando “…la nuova disciplina introdotta nel 2013 (…) circondata da cautele idonee a prevenire un serio pregiudizio di tale diritto: in tal senso andrebbero le previsioni dell’assistenza obbligatoria del difensore, della specializzazione dei mediatori e, soprattutto, della circoscrizione dell’obbligatorietà al solo “primo incontro” di cui al comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. nr. 28/2010, all’esito del quale l’interessato può decidere di non proseguire nella procedura di mediazione”.

Quanto all’obiezione secondo la quale la previsione di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, finirebbe con l’obbligare l’interessato non già al solo primo incontro, ma ad esperire l’intero procedimento di mediazione, il Giudice, premesso che il primo incontro costituisce “…parte integrante del procedimento di mediazione e non un qualcosa di estraneo ad esso”, osserva che la stessa si pone in pieno contrasto con il dettato normativo, in quanto il comma 2 – bis del medesimo art. 5, “…con previsione certamente applicabile anche alla fattispecie regolata dal precedente comma 2”, dispone che laddove “…l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.

In sostanza, dunque, la Sezione condivide, e pertanto conferma, la valutazione di manifesta infondatezza in ordine alla censura di legittimità costituzionale riproposta.

Egualmente infondata risulta l’eccezione di inammissibilità del ricorso di prime cure sollevata dall’interveniente ad adiuvandum Associazione Primavera Forense, secondo cui l’originario contraddittorio avrebbe dovuto essere allargato ad almeno un organismo di mediazione, in quanto controinteressato. L’eccezione, ad avviso del Giudice, non ha pregio in quanto secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, nell’ipotesi di impugnazione di norme regolamentari, “…non possono individuarsi soggetti aventi posizione formale di controinteressati, a nulla rilevando in tal senso la posizione dei destinatari delle disposizioni generali e astratte contenute nel regolamento impugnato”.

Per quanto concerne l’impugnazione principale proposta dall’Amministrazione, invece, la situazione appare più complessa.

Infatti, se ad avviso del Giudice deve considerarsi infondato il primo motivo d’appello, con il quale si reiterava l’eccezione, già disattesa dal TAR, di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione, dovendosi riconoscere la rappresentatività nazionale della UNCC, parzialmente fondati, nei termini che immediatamente si passa ad illustrare, risultano invece il secondo ed il terzo motivo di gravame.

Il secondo motivo riguarda la parte della sentenza di prime cure in cui era stata dichiarata l’illegittimità dei commi 2 e 9 dell’art. 16, DM 180/2010. Dette disposizioni, come è noto, implicano comunque l’erogazione di somme da parte dell’utente anche in caso di esito negativo del primo incontro, ed erano state ritenute dal primo giudice incompatibili con l’innovativa disposizione di cui all’art. 17,  co. 5 – ter, D.lgs 28/2010, secondo cui: “…nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”;

Secondo la Sezione, occorre muovere dall’infelice scelta operata dal legislatore, con l’utilizzo del termine “compenso”, in un contesto normativo in cui il corrispettivo dovuto per i servizi di mediazione è qualificato più tecnicamente come “indennità”, e non solo a livello primario: infatti, anche a norma dell’art. 1 del censurato DM 180/2010 si parla per l’appunto di “indennità”, definendola come “…l’importo posto a carico degli utenti per la fruizione del servizio di mediazione fornito dagli organismi”.

Nel successivo art. 16 poi si ha la distinzione tra “spese di avvio” (cui deve aggiungersi la distinta voce “spese vive documentate”) e “spese di mediazione”.

Ora, il Consiglio di Stato ribadisce che il termine “compenso” di cui al citato art. 17,  co. 5 – ter, D.lgs 28/2010 deve essere inteso quale corrispettivo di un servizio prestato, mentre “…le spese di avvio, quantificate dal legislatore in modo fisso e forfettario (e, quindi, sganciato da ogni considerazione dell’entità del servizio effettivamente prestato dall’organismo di mediazione), vanno qualificate come onere economico imposto per l’accesso a un servizio che è obbligatorio ex lege per tutti coloro i quali intendano accedere alla giustizia in determinate materie”.

D’altra parte, il Giudice osserva “…che il primo incontro non costituisce un passaggio esterno e preliminare della procedura di mediazione, ma ne è invece parte integrante alla stregua del chiaro tenore testuale dell’art. 8…”; di talché, avendo il legislatore configurato la mediazione come obbligatoria per chiunque intenda adire la giustizia in determinate materie, appare del tutto coerente e ragionevole la “…scelta di scaricare i relativi costi non sulla collettività generale, ma sull’utenza che effettivamente si avvarrà di detto servizio”.

Non possono essere condivise, sul punto, le due argomentazioni svolte dall’appellante, ossia, da un lato, che le spese di avvio, per la loro incidenza sul complessivo equilibrio economico-finanziario degli organismi di mediazione, si risolverebbero, in sostanza, in una prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva (relativa) di legge di cui all’art. 23 Cost.; e, dall’altro, che il riconoscimento di un credito d’imposta a favore di chi si sia avvalso della mediazione  non varrebbe nell’ipotesi in cui non si sia andati oltre il primo incontro.

Sotto il primo profilo, il Consiglio di Stato osserva come non sia sostenibile “…una violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. in presenza di una disposizione primaria, quale è l’art. 17 del d.lgs. nr. 28/2010, che, nel disciplinare i criteri e le modalità per il reperimento delle risorse atte a consentire il funzionamento degli organismi di mediazione, in via di eccezione esonera l’utenza che si avvalga dell’obbligatorio primo incontro, in caso di esito infruttuoso di esso, dalla sola corresponsione di somme a titolo di “compenso” (nel senso sopra precisato)”.

Per quanto concerne il credito d’imposta, deve rilevarsi, secondo il Giudice, come l’argomentazione dell’appellante muova dall’erroneo presupposto già in precedenza evidenziato, vale a dire l’asserita estraneità del primo incontro rispetto al procedimento di mediazione, che non trova, tra l’altro, alcun aggancio testuale nell’art. 20 D.lgs. 28/2010, che, nel disciplinare il credito d’imposta, non circoscrive affatto la detraibilità alle sole somme erogate in caso di effettivo accesso alla mediazione.

Infine, il terzo motivo di impugnazione.

Con il gravame in parola, l’Amministrazione censura il capo di sentenza con cui era stato annullato l’art. 4, co. 3, lettera b), DM 180/2010, relativo all’obbligo, anche per gli avvocati, di seguire i percorsi di formazione e aggiornamento previsti per gli organismi di mediazione.

Il Consiglio di Stato, nell’apparato motivazionale in commento, muove dalla premessa che “…non può sussistere dubbio sulla diversità “ontologica” dei corsi di formazione e aggiornamento gestiti per l’avvocatura dai relativi ordini professionali  (…) rispetto alla formazione specifica che la normativa primaria richiede per i mediatori, proprio in ragione dell’esigenza (…) di assicurare che il rischio di “incisione” sul diritto di iniziativa giudiziale costituzionalmente garantito sia bilanciato da un’adeguata garanzia di preparazione e professionalità in capo agli organismi chiamati a intervenire in tale delicato momento”.

E che si tratti di un’esigenza rivestita di una importanza centrale è attestato dalla specifica attenzione ad essa rivolta sul terreno comunitario, atteso che l’art. 4, par. 2, della direttiva 2008/52/CE, esplicitamente dispone che gli Stati membri sono tenuti ad incoraggiare “…la formazione iniziale e successiva dei mediatori allo scopo di garantire che la mediazione sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti”. Dalla riportata disposizione comunitaria, pertanto, discende l’esclusione di “…ogni opzione normativa o ermeneutica che possa anche solo dare l’apparenza di un ridimensionamento delle esigenze così rappresentate”.

D’altronde, osserva la Sezione, non può condividersi l’opzione ermeneutica fatta propria nel primo grado di giudizio, secondo la quale il parametro dell’illegittimità della disposizione regolamentare in quella sede annullata sarebbe stato costituito dall’art. 16, co. 4 – bis, D.lgs 28/2010. In effetti, la disposizione di rango primario or ora richiamata, stabilito che gli avvocati sono mediatori di diritto, prosegue affermando espressamente che “…gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense…”.

In conclusione, quindi, il Consiglio di Stato ha provveduto, con la decisione oggi in commento, al ripristino dell’obbligo inerente al completo iter di formazione, nei termini di cui al DM 180/2010, ed al conseguente percorso di aggiornamento.

Un intervento, dunque, che non può che essere salutato con piena soddisfazione da coloro che auspicano una sempre maggiore diffusione della mediazione, risultato certamente non perseguibile senza le indispensabili garanzie sul piano della effettiva preparazione specifica di tutti gli operatori del settore.

Dott. Luigi Majoli

Testo integrale:

N. 05230/2015REG.PROV.COLL.
N. 02156/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello nr. 2156 del 2015, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA e dal MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
contro
l’UNIONE NAZIONALE DELLE CAMERE CIVILI (U.N.C.C.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Antonio de Notaristefani di Vastogirardi e Francesco Storace, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Crescenzio, 20,
e con l’intervento di
ad adiuvandum:
– avvocati Roberto NICODEMI, Maria AGNINO, Antonio D’AGOSTINO, Alessandra GULLO, Gemma SURACI, Monica MAZZENGA, Gabriella SANTINI, Laura NICOLAMARIA, Nicola PRIMERANO, Luigi RAPISARDA, Elisabetta ZENONI, Alessandra TOMBOLINI, Sabina MARONCELLI, Stefano AGAMENNONE, Silvia MONTANI, Elena ZAFFINO, Elisabetta Carla PICCIONI, Luciano CAPOGROSSI GUARNA, Giuliana SCROCCA, Maurizio FERRI, Matilde ABIGNENTE, Guido CARDELLI, Marco Fabio LEPPO, Alessandra ROMANINI, Claudio DRAGONE, Roberta D’UBALDO, Corrado DE MARTINI, Arnaldo Maria MANFREDI, Eugenio GAGLIANO, Fabio CAIAFFA e Daniela BERTES, rappresentati e difesi dall’avv. Gemma Suraci, con domicilio eletto presso la stessa in Roma, via degli Scipioni, 237;
– ASSOCIAZIONE PRIMAVERA FORENSE, in persona del legale rappresentante pro tempore,rappresentata e difesa dall’avv. Marco Benucci, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, corso d’Italia, 29;
per l’annullamento in parte qua,
previa sospensiva,
della sentenza del T.A.R. del Lazio nr. 1351/2015, notificata in data 5 marzo 2015.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’appellata Unione Nazionale delle Camere Civili (U.N.C.C.) e l’appello incidentale dalla stessa proposto, nonché gli atti di intervento in epigrafe meglio indicati;
Viste le memorie prodotte dall’appellata U.N.C.C. (in data 25 settembre 2015) e dagli intervenienti avv.ti Nicodemi e altri (in data 5 ottobre 2015) a sostegno delle rispettive difese;
Vista l’ordinanza di questa Sezione nr. 1694 del 22 aprile 2015, con la quale è stata accolta la domanda incidentale di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, all’udienza pubblica del giorno 27 ottobre 2015, il Consigliere Raffaele Greco;
Uditi l’avv. dello Stato Colelli per le Amministrazioni appellanti, gli avv.ti de Notaristefani di Vastogirardi e Storace per l’U.N.C.C., l’avv. Suraci per gli intervenienti in epigrafe meglio indicati e l’avv. Michele Basile (in dichiarata delega dell’avv. Benucci) per l’ulteriore interveniente Associazione Primavera Forense;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Il Ministero della Giustizia e il Ministero dell’Economia e delle Finanze hanno impugnato, chiedendone la riforma previa sospensiva, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio, in parziale accoglimento del ricorso proposto dall’Unione Nazionale delle Camere Civili (U.N.C.C.), ha parzialmente annullato il decreto nr. 180 del 18 ottobre 2010, recante il regolamento per la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti ai suddetti organismi.
A sostegno dell’appello, è stata dedotta, con tre distinti mezzi, l’erroneità della sentenza in epigrafe:
1) nella parte in cui ha disatteso l’eccezione preliminare di carente legittimazione in capo all’originaria ricorrente;
2) nella parte in cui ha ritenuto illegittimi, e quindi annullato, i commi 2 e 9 dell’art. 16 del precitato decreto, relativi alle spese di avvio ed alle spese di mediazione;
3) nella parte in cui ha ritenuto illegittimo, e quindi annullato, l’art. 4, comma 1, lettera b), del medesimo decreto, relativo all’obbligo anche per gli avvocati di svolgere la formazione obbligatoria prevista per i mediatori.
Si è costituita l’appellata U.N.C.C., la quale, oltre a controdedurre a sostegno dell’infondatezza dell’appello e a chiederne la reiezione, ha altresì proposto appello incidentale, censurando la sentenzade qua nella parte in cui è stata respinta, fra le varie questioni di legittimità sollevate dalla ricorrente, quella relativa al contrasto degli artt. 5, comma 2, del citato d.m. con l’art. 24 Cost.
Nel corso del giudizio, si sono avuti, altresì, in adesione all’appello principale:
– l’intervento ad adiuvandum degli avvocati Roberto Nicodemi ed altri, nella qualità di mediatori iscritti all’albo;
– l’intervento ad adiuvandum, a valere quale opposizione di terzo ex art. 109, comma 2, cod. proc. amm., dell’Associazione Primavera Forense, a sua volta organismo di mediazione regolarmente iscritto.
Quest’ultima, oltre a concludere nel senso della fondatezza del gravame, assume in liminel’inammissibilità del ricorso di primo grado per mancata notifica, quale controinteressato, ad almeno un organismo di mediazione.
Alla camera di consiglio del 21 aprile 2015, questa Sezione ha accolto l’istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata formulata in via incidentale dalle Amministrazioni appellanti.
Di poi, parte appellata ha ulteriormente argomentato con memoria a sostegno delle proprie tesi.
All’udienza del 27 ottobre 2015, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Giunge all’attenzione della Sezione il contenzioso relativo alla regolamentazione attuativa dell’art. 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, nr. 28, il quale, sulla scorta della delega contenuta nell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, nr. 69, ha introdotto nel nostro ordinamento la mediazione in materia civile e commerciale, come prescritto dalla direttiva 21 maggio 2008, nr. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea.
In primo grado, l’Unione Nazionale delle Camere Civili (U.N.C.C.) ha impugnato il decreto del Ministro della Giustizia, adottato di concerto col Ministro dell’Economia e delle Finanze, nr. 180 del 18 ottobre 2010, lamentandone l’illegittimità sotto plurimi profili, anche sulla base della ritenuta illegittimità costituzionale di retrostanti disposizioni del citato d.lgs. nr. 28 del 2010.
Il T.A.R. del Lazio, investito della controversia, in parziale accoglimento delle deduzioni di parte attrice, ha sollevato (ord. 12 aprile 2011, nr. 3202) questione di legittimità costituzionale di alcune norme dell’impugnato decreto, concernenti fra l’altro l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione ai fini dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie.
Sulla questione la Corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza nr. 272 del 6 dicembre 2012, con la quale ha annullato, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., l’art. 5, comma 1, del d.lgs. nr. 28 del 2010, nonché una serie di disposizioni a questo correlate, ritenendo viziata da eccesso di delega la previsione dell’obbligatorietà del ricorso alla mediazione ed alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale in relazione a varie tipologie di controversie.
A sèguito dell’intervento del giudice delle leggi, e dopo un primo tentativo di modifica della normativa regolamentare non andato a buon fine a causa della mancata conferma in sede di conversione del decreto-legge in cui era stata inserita, il legislatore è nuovamente intervenuto con l’art. 84, comma 1, lettera b), del decreto-legge 21 giugno 2013, nr. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, nr. 98, che ha reintrodotto, inserendo nell’art. 5 del d.lgs. nr. 28/2010 il nuovo comma 5-bis (nonché attraverso l’introduzione di ulteriori disposizioni complementari), sia l’obbligatorietà del previo ricorso alla mediazione che la sua configurazione come condizione di procedibilità dell’azione.
Con la sentenza che ha definito il primo grado del presente giudizio, il T.A.R. capitolino:
– ha, da un lato, respinto la maggior parte delle doglianze attoree, ritenendo manifestamente infondate le ulteriori questioni di legittimità costituzionale articolate avverso la nuova disciplina medio temporeintervenuta;
– ha, per altro verso, accolto il ricorso limitatamente ai commi 2 e 9 dell’art. 16 del d.m. nr. 28/2010 (reputando illegittima la perdurante previsione della debenza delle spese di avvio e delle spese di mediazione, a fronte del principio di gratuità della mediazione contenuto nella normativa primaria) ed al comma 3, lettera b), dell’art. 4 (reputando illegittima la mancata previsione dell’esclusione degli avvocati dalla formazione obbligatoria ivi prevista, a fronte del riconoscimento agli stessi della qualifica di mediatori di diritto).
2. La ricostruzione che precede, in parte ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non risulta contestata dalle parti costituite, per cui, vigendo la preclusione di cui all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm., deve considerarsi idonea alla prova dei fatti oggetto di giudizio.
3. Tutto ciò premesso, l’appello dell’Amministrazione si appalesa in parte fondato e pertanto meritevole di accoglimento, mentre invece non è meritevole di favorevole delibazione l’appello incidentale dell’originaria ricorrente.
4. In ordine logico, è proprio l’appello incidentale a dover essere prioritariamente scrutinato, atteso:
a) che la sua ipotetica fondatezza comporterebbe la possibile incostituzionalità delle stesse norme primariea monte della censurata disciplina regolamentare;
b) che siffatta questione, ove ritenuta non manifestamente infondata, imporrebbe la rimessione alla Corte costituzionale anche d’ufficio (e, quindi, indipendentemente da ogni rilievo circa la legittimazione processuale dell’originaria ricorrente, come riproposto nel primo motivo d’appello dell’Amministrazione).
4.1. Con la propria impugnazione incidentale, l’U.N.C.C. reitera una sola delle questioni di legittimità costituzionale che il primo giudice ha ritenuto manifestamente infondate, e segnatamente quella relativa al comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. nr. 28/2010, il quale, in un contesto nuovamente connotato dall’obbligatorietà del previo ricorso alla mediazione e dalla sua strutturazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale in determinate materia (per effetto della “novella” introdotta dal d.l. nr. 69 del 2013), consente al giudice, anche in sede di appello, di imporre alle parti l’esperimento della procedura di mediazione.
4.2. Al riguardo, il primo giudice ha escluso che la nuova disciplina introdotta nel 2013, pur stabilendo nei termini visti l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione, comportasse una significativa incisione del diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost., essendo essa circondata da cautele idonee a prevenire un serio pregiudizio di tale diritto: in tal senso andrebbero le previsioni dell’assistenza obbligatoria del difensore, della specializzazione dei mediatori e, soprattutto, della circoscrizione dell’obbligatorietà al solo “primo incontro” di cui al comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. nr. 28/2010, all’esito del quale l’interessato può decidere di non proseguire nella procedura di mediazione.
4.3. In critica a tali argomenti, parte appellante incidentale rileva che le garanzie previste a favore del privato sarebbero solo apparenti, essendo per un verso limitata nel tempo la previsione dell’obbligatorietà dell’assistenza del difensore in sede di mediazione, e sotto altro profilo non idoneamente assicurata la specializzazione e l’esperienza di diritto dei mediatori (e ciò malgrado la contestuale previsione per cui gli stessi avvocati sono “mediatori di diritto”).
Soprattutto, l’appellante incidentale muove dal presupposto che la previsione di cui al ricordato comma 2 dell’art. 5 obblighi l’interessato, a sèguito dell’ordinanza del giudice che impone la mediazione quale condizione di procedibilità dell’azione, non già a limitarsi al primo incontro, ma ad esperire la vera e propria procedura di mediazione.
4.4. La Sezione non condivide tale ultimo avviso, che appare in frontale contrasto col dettato normativo.
Infatti, al di là di quanto appresso meglio si dirà in ordine all’essere il primo incontro parte integrante del procedimento di mediazione e non un qualcosa di estraneo ad esso, rileva il chiaro tenore testuale del comma 2-bis del medesimo art. 5, il quale, con previsione certamente applicabile anche alla fattispecie regolata dal precedente comma 2, dispone: “…Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.
Quanto ai più specifici rilievi svolti nell’appello incidentale, questi sono basati su una svalutazione della rilevanza e della centralità del momento formativo e dell’aggiornamento dei mediatori, il quale invece, come pure meglio appresso si rileverà, costituiscono parte essenziale del substrato comunitario dell’istituto de quo, di modo che non è possibile predicare l’illegittimità costituzionale delle previsioni in questione sulla base di una mera visione “pessimistica” del come in concreto detta formazione sarà attuata (come sembra fare parte appellante incidentale, allorché assume che i cittadini saranno lasciati in balìa di mediatori che non saranno necessariamente “esperti di diritto”).
4.5. In definitiva, la Sezione ritiene di dover condividere e confermare le conclusioni esposte nella sentenza impugnata in punto di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale qui riproposta: nel senso che, una volta superato il vizio di eccesso di delega che aveva indotto l’intervento cassatorio della Corte costituzionale con la richiamata sentenza nr. 272 del 2012, non è dato rinvenire manifesti e significativi profili di violazione dell’art. 24 Cost. ovvero di altri parametri di rango costituzionale.
5. Proseguendo nella disamina delle questioni preliminari, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di prime cure sollevata nell’atto di intervento ad adiuvandum dell’Associazione Primavera Forense, laddove si assume il difetto di corretta instaurazione del rapporto processuale a cagione della mancata evocazione in giudizio di almeno un organismo di mediazione, quale controinteressato nei cui confronti il provvedimento impugnato era produttivo di effetti.
Tale questione può certamente essere delibata nella presente sede, atteso che:
a) va intesa quale vero e proprio motivo di impugnazione, essendo articolata in un atto di intervento in appello scaturito da conversione di opposizione di terzo proposta dinanzi al giudice di primo grado, giusta il disposto dell’art. 109, comma 2, cod. proc. amm.;
b) afferisce alla rituale instaurazione del rapporto processuale, e pertanto può pacificamente essere formulata anche per la prima volta in grado di appello.
Tuttavia, l’eccezione è infondata, dovendo in questa sede ribadirsi il consolidato insegnamento giurisprudenziale per cui, in caso di impugnazione di norme regolamentari, non possono individuarsi soggetti aventi posizione formale di controinteressati, a nulla rilevando in tal senso la posizione dei destinatari delle disposizioni generali e astratte contenute nel regolamento impugnato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 giugno 2006, nr. 3717; id., sez. V, 17 maggio 2005, nr. 6420).
6. Ciò premesso, col primo motivo d’impugnazione l’Amministrazione reitera l’eccezione, disattesa dal primo giudice, di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione, non potendo riconoscersi sufficiente rappresentatività all’Unione istante in primo grado.
Il mezzo è infondato, atteso che, come già rilevato in sede cautelare, va ascritta a mero errore l’indicazione nell’epigrafe del ricorso (e della sentenza di primo grado) del nominativo della ricorrente come “Unione Nazionale delle Camere Civili di Parma”, risultando documentate dallo statuto, da un lato, la rappresentatività nazionale dell’associazione, e, per altro verso, che l’originaria sede in Parma dipendeva unicamente dalla previsione che, nelle more dell’individuazione di una sede in Roma, fissava automaticamente la sede sociale presso lo studio professionale del Presidente pro tempore (il quale, al momento della proposizione del ricorso, era appunto un avvocato del foro di Parma).
7. Parzialmente fondati invece, come più sopra anticipato, sono il secondo e il terzo motivo dell’appello dell’Amministrazione, con i quali si censurano le due statuizioni di annullamento della disciplina regolamentare cui è pervenuto il primo giudice.
8. Principiando dal secondo mezzo, questo attiene alla parte della sentenza impugnata nella quale è stata ritenuta l’illegittimità dei commi 2 e 9 dell’art. 16 del d.m. nr. 180 del 2010, nei quali rispettivamente si prevedeva che: “…Per le spese di avvio, a valere sull’indennità complessiva, è dovuto da ciascuna parte per lo svolgimento del primo incontro un importo di euro 40,00 per le liti di valore fino a 250.000,00 euro e di euro 80,00 per quelle di valore superiore, oltre alle spese vive documentate che è versato dall’istante al momento del deposito della domanda di mediazione e dalla parte chiamata alla mediazione al momento della sua adesione al procedimento. L’importo è dovuto anche in caso di mancato accordo”, e che: “…Le spese di mediazione sono corrisposte prima dell’inizio del primo incontro di mediazione in misura non inferiore alla metà. Il regolamento di procedura dell’organismo può prevedere che le indennità debbano essere corrisposte per intero prima del rilascio del verbale di accordo di cui all’articolo 11 del decreto legislativo. In ogni caso, nelle ipotesi di cui all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo, l’organismo e il mediatore non possono rifiutarsi di svolgere la mediazione”.
8.1. Tali previsioni, comportanti sempre e comunque l’erogazione di somme da parte dell’utente anche in caso di esito negativo del primo incontro, sono state ritenute dal primo giudice incompatibili con l’innovativa disposizione di cui al comma 5-ter dell’art. 17 del d.lgs. nr. 28/2010, secondo cui: “…Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.
Siffatta incompatibilità viene in sentenza ricondotta a un difetto di coordinamento fra la “novella” di cui al d.l. nr. 69/2013 ed il preesistente impianto normativo, avendo la prima introdotto il principio della gratuità del ricorso alla mediazione, sia pure limitatamente alla fase del “primo incontro”.
8.2. A fronte di tali argomentazioni, la Sezione reputa fondate le opposte deduzioni della difesa erariale, nei limiti e per le ragioni già in parte anticipate in fase cautelare e che di sèguito si vanno ulteriormente a sviluppare.
8.2.1. Innanzi tutto, è opportuno rilevare l’infelicità della formula impiegata dalla novella del 2013 da ultimo citata, la quale per la prima volta fa uso del generico termine “compenso”, inserendosi in un tessuto normativo in cui il corrispettivo dovuto per i servizi di mediazione è qualificato più tecnicamente come “indennità”; quest’ultima terminologia, oltre che nelle norme primarie anteriori al ricordato intervento del 2013, si rinviene anche nell’art. 1 del censurato d.m. nr. 180/2010, laddove l’indennità di mediazione è definita come “l’importo posto a carico degli utenti per la fruizione del servizio di mediazione fornito dagli organismi” (comma 1, lettera h).
Tale indennità poi, a tenore del successivo e citato art. 16, si compone di varie voci, fra le quali rilievo primario hanno le già richiamate “spese di avvio” e “spese di mediazione”.
8.2.2. Tanto premesso, nessun dubbio può porsi per le spese di mediazione, le quali, comprendendo “anche l’onorario del mediatore per l’intero procedimento di mediazione” (art. 16, comma 10), integrano certamente il nucleo essenziale dell’indennità di mediazione: di queste, in applicazione del richiamato comma 5-ter dell’art. 17, non può che essere esclusa la debenza in caso di esito negativo del primo incontro.
Diverse considerazioni vanno svolte per le spese di avvio, indipendentemente dal se le si voglia considerare comprensive delle “spese vive documentate” ovvero a latere di esse (sul punto, il dettato del comma 9 sconta una certa ambiguità): ed invero, mentre non può seriamente essere negato il rimborso delle spese vive (sul che la stessa originaria ricorrente avendo chiarito di non avere alcunché da opporre), anche per le residue spese disciplinate dal medesimo comma 9 deve ritenersi la loro estraneità alla nozione di “compenso” – intesa quale corrispettivo di un servizio prestato – introdotta dal comma 5-ter dell’art. 17.
Ed invero, come efficacemente dimostrato dalla difesa erariale e dagli intervenienti ad adiuvandum, le spese di avvio, quantificate dal legislatore in modo fisso e forfettario (e, quindi, sganciato da ogni considerazione dell’entità del servizio effettivamente prestato dall’organismo di mediazione), vanno qualificate come onere economico imposto per l’accesso a un servizio che è obbligatorio ex lege per tutti coloro i quali intendano accedere alla giustizia in determinate materie; quanto sopra risulta confermato dal riconoscimento, a favore di chi tali spese abbia erogato, di un correlativo credito d’imposta commisurato alla somma versata e dovuto, ancorché in misura ridotta, anche nel caso in cui la fruizione del servizio si sia arrestata al primo incontro (art. 20, d.lgs. nr. 28/2010).
In altri termini, posto che il primo incontro non costituisce un passaggio esterno e preliminare della procedura di mediazione, ma ne è invece parte integrante alla stregua del chiaro tenore testuale dell’art. 8 del d.lgs. nr. 28/2010, e dal momento che tale fase il legislatore ha inteso configurare come obbligatoria per chiunque intenda adire la giustizia in determinate materie, indipendentemente dalla scelta successiva se avvalersi o meno della mediazione (al punto da qualificare l’esperimento del detto incontro come condizione di procedibilità dell’azione), ne discende la coerenza e ragionevolezza della scelta di scaricare i relativi costi non sulla collettività generale, ma sull’utenza che effettivamente si avvarrà di detto servizio.
8.3. A fronte dei rilievi fin qui svolti, che la Sezione ha in parte anticipato in fase cautelare, parte appellata nella propria memoria conclusiva rileva:
– che quanto evidenziato in ordine alla non riconducibilità delle spese di avvio alla nozione di “compenso”, di cui all’art. 17, comma 5-ter, del d.lgs. nr. 28/2010, sarebbe bensì vero in astratto, ma trascurerebbe di considerare la circostanza, dimostrata dall’esperienza pratica, che le spese de quibusfiniscono di fatto per coprire non solo i costi di esercizio degli organismi di mediazione (come era negli intenti del legislatore), ma anche e per buona parte i loro compensi, di modo che dovrebbe in ogni caso concludersi che esse, per come sono state quantificate e per la loro incidenza sul complessivo equilibrio economico-finanziario degli organismi di mediazione, finirebbero comunque per risolversi in una prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost.;
– che, quanto alla previsione del riconoscimento di un credito d’imposta a favore di chi si sia avvalso della mediazione, questa andrebbe in realtà riferita alla sola ipotesi in cui dopo il primo incontro vi sia stato accesso alla mediazione, ma questa abbia poi avuto esito negativo, e non anche al caso in cui non si sia andati oltre il primo incontro.
8.3.1. Con riguardo al primo aspetto, la Sezione osserva anzi tutto che il tema della quantificazione dell’indennità di mediazione, e specificamente dell’incidenza delle spese di avvio sul complessivo equilibrio economico-finanziario degli organismi di mediazione, risulta estraneo al perimetro del presente giudizio, non essendo stato in prime cure il d.m. nr. 180/2010 impugnato nella parte relativa alla determinazione dei criteri di calcolo dell’indennità.
Al di là di tale assorbente rilievo, la descrizione degli effetti “perversi”, che si paventa possano scaturire da una determinata opzione normativa, non è evidentemente ex se sufficiente a farne inferire l’illegittimità; né può predicarsi una violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. in presenza di una disposizione primaria, quale è l’art. 17 del d.lgs. nr. 28/2010, che, nel disciplinare i criteri e le modalità per il reperimento delle risorse atte a consentire il funzionamento degli organismi di mediazione, in via di eccezione esonera l’utenza che si avvalga dell’obbligatorio primo incontro, in caso di esito infruttuoso di esso, dalla sola corresponsione di somme a titolo di “compenso” (nel senso sopra precisato).
8.3.2. Quanto al secondo rilievo, esso muove da un presupposto – l’estraneità del “primo incontro” al procedimento di mediazione propriamente detto – che non solo non trova alcun aggancio testuale nell’art. 20 del d.lgs. nr. 28/2010 (il quale, nel disciplinare il credito d’imposta, non impiega affatto espressioni univoche nel senso di circoscrivere la detraibilità alle sole somme erogate in caso di effettivo accesso alla mediazione), ma – come detto – appare smentito da altre disposizioni del medesimo decreto, e in primo luogo dall’art. 8, alla cui stregua il primo incontro rientra indiscutibilmente nel “procedimento” di mediazione.
In ogni caso, è evidente alla stregua di quanto sopra esposto che la disciplina riveniente dall’art. 20 del d.lgs. nr. 28/2010 costituisce solo una conferma, ulteriore e ad abundantiam, delle conclusioni che devono essere raggiunte aliunde, nel senso della riconducibilità delle spese di avvio non già al concetto di “compenso” degli organismi di mediazione, ma piuttosto a un costo di esercizio che il legislatore nella propria discrezionalità ha inteso porre a carico dell’utenza che è obbligata per legge a far ricorso al relativo servizio.
9. Col proprio terzo motivo d’appello, l’Amministrazione censura il capo di sentenza con cui è stato annullato il comma 3, lettera b), dell’art. 4 del d.m. nr. 180/2010, nella parte in cui obbligava anche gli avvocati a seguire i percorsi di formazione e aggiornamento previsti per gli organismi di mediazione.
A tale conclusione il primo giudice è giunto sulla base del duplice rilievo che, a norma dell’art. 16, comma 4-bis, del d.lgs. nr. 28/2010, gli avvocati sono mediatori di diritto (potendo dunque iscriversi de plano al relativo registro), e che essi hanno dei propri peculiari percorsi di formazione e aggiornamento previsti dalla legge, nei quali può certamente rientrare anche la preparazione allo svolgimento dell’attività di mediatore.
La Sezione, pur senza condividere taluni degli argomenti sul punto impiegati dalla difesa erariale (e, in particolare, quello imperniato sulla pretesa diversità “culturale” che esisterebbe, in relazione alla possibilità di accesso del cittadino alla giustizia, fra l’atteggiamento tipico dell’avvocato e quello richiesto al mediatore), reputa fondate le critiche mosse in parte qua alla sentenza in epigrafe.
Ed invero, non può sussistere dubbio sulla diversità “ontologica” dei corsi di formazione e aggiornamento gestiti per l’avvocatura dai relativi ordini professionali – i quali possono bensì prevedere anche una preparazione all’attività di mediazione, ma solo come momento eventuale e aggiuntivo rispetto ad una più ampia e variegata pluralità di momenti e percorsi di aggiornamento – rispetto alla formazione specifica che la normativa primaria richiede per i mediatori, proprio in ragione dell’esigenza (non casualmente qui agitata proprio dall’odierna appellata ed appellante incidentale) di assicurare che il rischio di “incisione” sul diritto di iniziativa giudiziale costituzionalmente garantito sia bilanciato da un’adeguata garanzia di preparazione e professionalità in capo agli organismi chiamati a intervenire in tale delicato momento.
Inoltre, che questo costituisca un tema centrale e “sensibile” del sistema si ricava anche dalla retrostante normativa europea in subiecta materia (e, in particolare, dall’art. 4, par. 2, della direttiva 2008/52/CE, secondo cui: “…Gli Stati membri incoraggiano la formazione iniziale e successiva dei mediatori allo scopo di garantire che la mediazione sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti”), alla cui stregua va esclusa ogni opzione normativa o ermeneutica che possa anche solo dare l’apparenza di un ridimensionamento delle esigenze così rappresentate.
A fronte di ciò, non è dato ricavare argomenti decisivi in contrario dal disposto del comma 4-bis dell’art. 16 del d.lgs. nr. 28/2010 (richiamato dal primo giudice quale parametro della ritenuta illegittimità in parte quadella disciplina regolamentare), atteso che tale disposizione, proprio subito dopo aver stabilito che: “…Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori”, espressamente aggiunge: “…Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense (…)”.
10. In conclusione, e riepilogando, s’impone il parziale accoglimento dell’appello dell’Amministrazione, con la conseguente riforma della sentenza impugnata e le reiezione del ricorso di primo grado quanto all’art. 16, comma 9, ed all’art. 4, comma 3, lettera b), del d.m. nr. 180/2010 (fermo restando, per il resto, quanto statuito dal primo giudice).
11. In considerazione della complessità e novità delle questioni esaminate, nonché della parziale soccombenza reciproca, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto:
– accoglie l’appello principale, nei limiti di cui in motivazione;
– respinge l’appello incidentale;
– per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado quanto ai vizi dedotti avverso l’art. 16, comma 9, e l’art. 4, comma 1, lettera b) del d.m. 18 ottobre 2010, nr. 180, confermando per il resto la sentenza medesima.
Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 ottobre 2015 con l’intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Raffaele Greco, Consigliere, Estensore
Raffaele Potenza, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Alessandro Maggio, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 17/11/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Potere di autentica del segretario comunale, mediazione e autentica notarile.

Secondo l’art. 97, co. 4, lett. c), D.lgs 267/2000 (TUEL), come modificato dall’art. 10, co. 2 – quater, L. 114/2014, il segretario comunale “…roga, su richiesta dell’ente, i contratti nei quali l’ente è parte e autentica scritture private ed atti unilaterali nell’interesse dell’ente”.
In conseguenza dell’intervento legislativo in parola, che ha modificato la precedente formulazione, risalente originariamente all’art. 17, co. 68., L. 127/97 (Bassanini – bis), secondo cui il segretario comunale poteva rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte, risulta evidentemente accentuata una funzione rogatoria su richiesta.
Nulla è mutato, invece, per quanto concerne il potere di autentica, che resta attribuito al segretario comunale laddove il Comune sia parte dell’atto.
Ciò in quanto l’ordinamento dispone, come è noto, che la competenza generale in materia di autentica spetti al notaio, configurandosi il potere medesimo in capo a diverso pubblico ufficiale solo nell’ipotesi in cui una norma espressamente lo preveda e con esclusivo riferimento agli atti ai quali la funzione è specificamente attribuita.
Non potrebbe dunque ravvisarsi una competenza del segretario comunale in ordine all’autentica di scritture private di contenuto negoziale, laddove tutte le parti risultino estranee all’amministrazione comunale, mentre ove il Comune sia parte dell’atto ovvero nell’ipotesi di scritture private unilaterali, provenienti da terzi, tali da costituire uno strumento di impegno negoziale nei confronti del Comune, il potere di autentica di firma spetterà, per espressa previsione normativa, allo stesso segretario comunale.
Naturalmente, si tratta di intendersi per quanto riguarda il significato dell’espressione “…nell’interesse dell’ente”. Trattandosi di competenza certificativa attribuita al segretario comunale esclusivamente laddove venga ad essere impegnato il Comune, l’interesse dell’ente locale preso in considerazione non può che essere unicamente quello negoziale.
La richiamata disposizione, in altri termini, non può essere riferita a interessi di carattere generale (come, ad es., l’interesse urbanistico o quello tributario), dal momento che in tali ipotesi l’amministrazione comunale dispone degli ordinari strumenti pubblicistici per realizzare le proprie finalità. Si tratta, dunque, di attività negoziali di carattere privatistico, funzionali peraltro allo svolgimento di compiti pubblicistici.
In conseguenza di quanto precede, ove si tratti di verbale di conciliazione all’esito di un procedimento di mediazione in cui è parte il Comune, ben potrà essere svolta dal segretario comunale l’attività di cui all’art. 11, co. 3, D.lgs 28/2010.
Quest’ultima disposizione prevede che “Se e’ raggiunto l’accordo amichevole di cui al comma 1 ovvero se tutte le parti aderiscono alla proposta del mediatore, si forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere. Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento”.
La scelta del legislatore appare del tutto coerente con il sistema di pubblicità immobiliare oggi in vigore nell’ordinamento giuridico, dal momento che l’art. 2657 cod. civ. stabilisce che titoli validi per la trascrizione siano esclusivamente le sentenze, gli atti pubblici o le scritture private autenticate o la cui sottoscrizione sia stata accertata in sede giudiziale. D’altra parte, la ratio delle previsioni di cui all’art. 11 risulta chiaramente espressa all’interno della relazione illustrativa al decreto 28/2010 laddove, nel paragrafo rubricato “Articolo 11 (Conciliazione)”, si afferma che “Al fine di garantire la certezza dei traffici e offrire maggiori garanzie alle parti, è stato previsto che l’autografia della sottoscrizione del verbale di accordo che abbia ad oggetto diritti su beni immobili soggetti a trascrizione (e annotazione), per poter effettuare quest’ultima, debba essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. La disposizione si estende, logicamente, agli atti di divisione immobiliare per effetto del combinato disposto con l’articolo 2645 c.c.”.
Nella summenzionata fattispecie di procedimento di mediazione in cui il Comune é parte, il “pubblico ufficiale a ciò autorizzato” di cui al secondo periodo della disposizione riportata risulta essere, sulla base del quadro normativo in precedenza riassunto, per l’appunto il segretario comunale. Il quale, di conseguenza, procederà all’autentica della sottoscrizione del processo verbale redatto dal mediatore, attività che, a norma dell’art. 2703, co. 2, cod. civ. “…consiste nell’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza. Il pubblico ufficiale deve previamente accertare l’identità della persona che sottoscrive”.
Le considerazioni appena svolte non possono non indurre ad alcune riflessioni consequenziali in ordine all’intervento del notaio a seguito di verbale di conciliazione relativo a mediazione positivamente conclusasi tra soggetti privati e tale da investire contratti o atti di cui all’art. 2643 cod. civ.
Si pensi all’ipotesi – paradigmatica – degli accordi di mediazione relativi al riconoscimento della sussistenza dei presupposti di legge per l’usucapione, in cui la sottoscrizione del relativo verbale, a norma del n. 12 – bis dell’art. 2643 cod. civ. (introdotto dal “Decreto del fare” poi convertito in L. 98/2013) deve essere autenticata da pubblico ufficiale a ciò autorizzato (vale a dire – fuori dalle ipotesi di competenza del segretario comunale – in via generale dal notaio).
Orbene, la situazione è nota. Ben raramente, infatti, si verificherà l’ipotesi di un notaio, non mediatore, presente all’accordo, il quale, assistendo alla sottoscrizione del verbale e dell’accordo allegato, ne autentichi le firme apposte, provvedendo, successivamente, alla registrazione ed alla trascrizione del medesimo, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 10, D.P.R. 131/1986 e 2671, co.1, cod. civ., secondo cui “Il notaio o altro pubblico ufficiale che ha ricevuto o autenticato l`atto soggetto a trascrizione, ha l`obbligo di curare che questa venga eseguita nel più breve termine possibile, ed è tenuto al risarcimento dei danni in caso di ritardo, salva l`applicazione delle pene pecuniarie previste dalle leggi speciali, se lascia trascorrere trenta giorni dalla data dell`atto ricevuto o autenticato”.
Nulla peraltro sembrerebbe ostare alla possibilità, per le parti e per il mediatore, una volta che le prime abbiano raggiunto l’accordo, di differire la sottoscrizione del verbale ad un momento cronologicamente successivo, che si svolga alla presenza del notaio, il quale, a quel punto, secondo la previsione del menzionato art. 11, co. 3, D.lgs 28/2010, letteralmente interpretata, dovrebbe limitarsi all’autentica delle sottoscrizioni stesse, senza entrare nel merito dei contenuti dell’atto redatto dal mediatore e sottoscritto dallo stesso, dalle parti e dagli avvocati che le assistono, non assumendosi, di conseguenza, responsabilità alcuna in ordine ai contenuti medesimi, ma esclusivamente riguardo l’effettiva corrispondenza delle firme in sua presenza apposte alle rispettive identità personali.
In effetti, secondo l’art. 28, co. 1, della Legge sul Notariato, il notaio “…non può ricevere o autenticare atti (…) se essi sono espressamente proibiti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico”.
Correlativamente, l’art. 28 stesso è richiamato dal successivo art. 138, co. 2, L.N., come modificato dall’art. 1, co. 1, lett. p), D.lgs 110/2010, in cui è prevista la sanzione della “…sospensione da sei mesi a un anno (per) il notaio che contravviene alle disposizioni degli articoli 27, 28, 29, 47, 48, 49, e 52 – bis, co. 2”.
Appare evidente, peraltro, come il controllo di legalità sui contenuti dell’atto, e dunque dell’accordo che in esso è contenuto, che a norma delle menzionate disposizione della legge sul notariato deve essere esercitato anche sulle scritture private autenticate, trovi, nel caso specifico degli accordi conciliativi raggiunti all’esito di un procedimento di mediazione, una espressa previsione da parte dell’art. 12, co. 1, D.lgs 28/2010, laddove si prevede che “Gli avvocati attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico”.
In sostanza, dunque, secondo il D.lgs 28/2010, il mediatore è chiamato a certificare l’autografia della sottoscrizione delle parti, mentre gli avvocati dovranno attestare e certificare la non contrarietà dell’accordo a norme imperative o all’ordine pubblico.
Attestazione e certificazione, quest’ultima, che la legge notarile attribuisce in generale al notaio ex art. 28.
Ora, ad avviso di chi scrive, deve essere tenuto nel dovuto conto il fatto che nella fattispecie si è in presenza di un accordo tra privati che viene formalizzato in un verbale redatto all’esito di un procedimento, nel quale le parti devono essere assistite dall’avvocato, in cui il mediatore, che fornisce una prestazione d’opera intellettuale (dalla quale, per inciso, scaturisce il relativo diritto alla retribuzione), certifica, per espressa previsione di legge, l’autografia della sottoscrizione delle parti e pertanto, nelle ipotesi di cui all’art. 11, co. 3, D.lgs 28/2010, al fine di addivenire ad un titolo idoneo ad essere trascritto, dovrebbe ritenersi sufficiente la autentica delle sottoscrizioni da parte del notaio.
Evidentemente, ove l’intervento del notaio andasse ad estendersi alla legalità dell’accordo nella sua interezza, ciò condurrebbe, come in molti casi in effetti avviene, alla riproduzione, all’interno dell’atto pubblico, del verbale conclusivo del procedimento di mediazione, con conseguente duplicazione, in termini pratici, dello stesso e – soprattutto – con conseguente aumento a dismisura dei costi per le parti (basti il confronto tra le tariffe per l’autentica e quelle per la redazione di un atto ex novo).
Ciò, ovviamente, sarebbe inevitabile stante la lettera dell’art. 2703, co. 2, cod. civ., laddove l’intervento del notaio fosse successivo alla stesura, e relativa sottoscrizione, del verbale, dal momento che verrebbe a mancare la prescritta contestualità; e ancora, nulla quaestio nell’ipotesi in cui fossero le parti stesse, in sede di accordo, ad obbligarsi, al fine di prevenire a determinati risultati, ad un successivo atto notarile.
In conclusione, dunque:
ove si consideri la previsione di cui all’art. 11, co. 3, D.lgs 28/2010, nella quale, giova ricordarlo, non è fatta menzione alcuna alla necessità di un atto pubblico ai fini della trascrizione, in termini di lex specialis, con conseguente portata derogatoria rispetto alla normativa generale in tema di autenticazione, il notaio dovrebbe limitarsi a provvedere all’autentica della sottoscrizione del verbale, con correlativa esclusione dalla propria responsabilità dei profili attinenti al merito;
ove invece si ritenga di diversamente opinare, se il verbale di conciliazione è sottoscritto dalle parti (e dal mediatore) dinanzi al notaio, nel rispetto dunque di quanto previsto dall’art. 2703 cod. civ., egualmente il notaio procederà alla semplice autentica, non alla redazione ex novo di un atto pubblico destinato a incorporare il verbale.
Tornando al tema dell’usucapione, quest’ultima non è che l’effetto legale di una fattispecie, e dunque non potrà derivare da una volontà negoziale (e, d’altra parte, non potrebbero in alcun modo attribuirsi rilevo ed efficacia ad una volontà negoziale che pretendesse di sostituirsi a quanto previsto dalla legge).
Da quanto precede può evincersi come, in sede di accordo conciliativo conseguente al procedimento di mediazione, non potrà emergere una volizione mirante al riconoscimento dell’acquisto di un diritto reale, effetto che, per l’appunto, non può essere determinato dalla volontà delle parti; detto accordo, tuttavia, ben potrà avere ad oggetto il riconoscimento della sussistenza delle circostanze che rappresentano i presupposti necessari ad un acquisto per usucapione.
Di conseguenza, la previsione normativa, contenuta nel nuovo n. 12 – bis dell’art. 2643 cod. civ., relativa alla trascrivibilità di un accordo raggiunto in mediazione in materia di usucapione costituisce un indubbio elemento chiarificatore in un ambito nel quale, fino alla novella legislativa, i dubbi e le incertezze sembravano fare aggio sui punti fermi.
Non è chi non veda i vantaggi, in termini di tempi e di costi, derivanti dall’utilizzo dello strumento della mediazione rispetto alla alternativa giudiziale. È con rammarico, dunque, che vanno registrati determinati atteggiamenti del Notariato, che non appaiono sempre condivisibili, e che finiscono con il ridurre, di fatto, la portata dei vantaggi stessi.
Occorrerebbe, forse, un intervento del legislatore che si esprimesse in modo chiaro e definitivo sul problema rappresentato dal rapporto tra quanto previsto dall’art. 11, co. 3, D.lgs 28/2010 ed il dettato degli artt. 28 e 139 della legge sul notariato.

mediazione civile pavia

Tribunale di Pavia, sez. III civ., sentenza 14 ottobre 2015.

Sentenza non definitiva, ai sensi dell’art. 279, co. 2, n. 4, c.p.c., con la quale il Tribunale di Pavia, in composizione monocratica, pronuncia sulle questioni preliminari emerse in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo nel quale il Giudice aveva disposto la mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.
In particolare, venivano eccepite due distinte questioni inerenti al procedimento di mediazione delegata.
In primo luogo, l’istanza di mediazione sarebbe stata (ed in effetti era stata) depositata presso l’Organismo di mediazione tardivamente, vale a dire allorché il previsto termine di 15 gg. risultava già spirato.
Detta eccezione, secondo il Tribunale, è priva di pregio.
Ciò, in quanto il termine in questione deve considerarsi ordinatorio e non perentorio. Rileva infatti il provvedimento in commento, come, malgrado la presenza di due distinti orientamenti giurisprudenziali, l’uno favorevole alla natura perentoria, l’altro a quella ordinatoria del suddetto termine, debba propendersi “…coerentemente con la natura informale dell’istituto, per la natura ordinatoria del termine”.
Ma, sul punto, “…decisivo è il disposto dell’art. 152, co. 2, cpc, per il quale <i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori> e, come si è appena visto, nessuna norma del D.lgs 28 definisce <perentorio> il termine di quindici giorni. A ciò si aggiunga che, per taluni soggetti (enti pubblici, società per azioni, condomìni, ecc.) ove il termine per avventura fosse considerato perentorio, ne sarebbe pressoché impossibile il rispetto per i tempi lunghi di formazione delle loro volontà”.
Anche la seconda eccezione proposta non può essere accolta.
Infatti, secondo parte eccipiente, l’istanza presentata all’Organismo, oltre che tradiva, sarebbe stata caratterizzata dalla mancata indicazione dell’oggetto della mediazione stessa.
Ora, però, stante la dimostrata informalità del procedimento di mediazione, il Tribunale ritiene che detta circostanza non possa implicare l’invalidità del tentativo di mediazione, dal momento che l’ambito oggettivo della stessa risulta agevolmente ricavabile dai documenti allegati all’istanza o – al limite, e come chi concretamente opera in mediazione ben sa – dall’esposizione resa oralmente dalle parti e dagli avvocati che le assistono durante l’incontro dinanzi al mediatore.
Osserva infatti il Giudice come “… nella specie erano indicate nel modulo di avvio le condizioni alle quali la parte istante si dichiarava disponibile a conciliare; era indicato un giudizio pendente avanti a questo tribunale in quanto era addirittura fatto riferimento ad una possibilità di responsabilità aggravata ex art. 96 cpc ed è evidente che le parti in quella mediazione corrispondevano e corrispondono alle parti di questo giudizio. Quel che più rileva è, tuttavia, che l’incontro avanti al mediatore si svolgeva con la partecipazione dei legali e soprattutto dei rispettivi clienti…”, vale a dire con le modalità previste dall’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010 e, dunque, con la concreta possibilità di far emergere in modo pieno l’oggetto della mediazione in sede di primo incontro.
Conseguentemente, il Tribunale, rilevato che l’eccezione avrebbe potuto forse essere diversamente valutata se sollevata con riferimento ad una istanza di mediazione avanzata ante causam, non può accoglierla nell’ambito di “…una mediazione demandata, nella quale l’oggetto della mediazione è agevolmente determinabile – solo che lo si voglia vedere – anche per relationem rispetto all’oggetto della causa pendente. Infine, per l’art. 5, co. 2- bis, D.lgs cit., la condizione di procedibilità deve considerarsi avverata se il primo incontro si conclude senza l’accordo e tale circostanza si è verificata nella specie”.
Sulla base delle considerazioni che precedono, dunque, il Giudice rigetta l’ eccezione di improcedibilità dell’azione per la mancata indicazione dell’oggetto della procedura di mediazione in quanto non solo infondata, ma anche pretestuosa e temeraria.
Dott. Luigi Majoli

Testo integrale:

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI PAVIA
SEZ. III CIVILE

in composizione monocratica ai sensi dell’art. 50 ter c.p.c. in persona del Dott. Giorgio Marzocchi, ha pronunciato la seguente

SENTENZA PROVVISORIA
ex art. 281 sexies c.p.c.

nella causa civile iscritta al numero di ruolo generale sopra riportato promossa con atto di citazione per opposizione a decreto ingiuntivo notificato il 13.01.2014 e iscritto a ruolo il 16.01.2014
DA
xxxxx, rappresentato e difeso dall’Avv. zzzzzzzzz, elettivamente domiciliato, giusta procura alla lite in calce all’atto di citazione, presso lo studio del difensore in Pavia, via yyyyyyyyy attore – opponente
CONTRO
xxxxxxx, in persona del liquidatore sig. zzzzzzz convenuto – opposto
All’udienza tenutasi il 14.10.2015, precisate le conclusioni e udita la discussione orale prevista dall’art. 281 sexies c.p.c., viene pubblicata con deposito in cancelleria la seguente sentenza, avendo i difensori rinunciato alla lettura del provvedimento.

FATTO E MOTIVI

1.  Con atto di citazione notificato il 13.01.2014 xxxxxxx xxxxxxxx proponeva opposizione a decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c. n. 1380/13 (RG 3512/13) con il quale il Tribunale di Pavia, su ricorso di xxxxxxx in Liquidazione ingiungeva il pagamento della somma di euro 47.500,00 oltre IVA e accessori; rilevava l’opponente che che il credito era fondato su atto di transazione del 21.06.2013 nel quale le parti pattuivano, tra l’altro, un pagamento rateale a suo carico, quale committente di un’opera edilizia realizzata dalla società opposta nell’abitazione dell’opponente; che la transazione sulla quale era fondato il decreto ingiuntivo non si era mai perfezionata in quanto xxxxxxx non aveva mai apposto la propria firma in calce a quel documento; che la tesi dell’opponente di falsità della sua firma era confermata dalla CTU grafologica disposta preliminarmente dal giudice; che, nel corso del giudizio era da lui avviata la mediazione giudiziale demandata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010 che dava esito negativo; che all’udienza di verifica dell’esito della mediazione la società opposta sollevava eccezioni sul tardivo e scorretto avvio della procedura di mediazione e chiedeva la declaratoria di improcedibilità dell’opposizione con conferma del decreto ingiuntivo. L’opponente concludeva chiedendo il rigetto delle eccezioni preliminari dell’opposta, la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, la revoca del decreto ingiuntivo e il rigetto della domanda con il favore delle spese.

2.  Si costituiva in giudizio la società opposta XXXXXXX, in liquidazione, contestando gli assunti dell’opponente e ribadendo la legittimità del proprio operato; rilevava che il legale rappresentante della società opposta, sig. yyyyyy aveva personalmente partecipato alla trattativa per la definizione delle condizioni della transazione del 21.06.2013; che la negoziazione si svolgeva trattando con due professionisti di fiducia dell’opponente; che la sottoscrizione della transazione non era tuttavia avvenuta nella contemporanea presenza dei firmatari xxxx e yyyy, in quanto quest’ultimo si limitava ad apporre la propria firma sulla transazione e a consegnare il documento a uno dei professionisti di controparte affinché raccogliesse la firma del cliente; che successivamente il sig. xxxx ritirava dal professionista il documento completo delle firme delle parti; che la CTU grafologica accertava che la firma attribuita a XXXXX apposta in calce alla transazione era apocrifa; che nel corso del giudizio era svolta la mediazione demandata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010 e un tentativo di conciliazione giudiziale, ma entrambi davano esito negativo; che la mediazione non era avviata tempestivamente né correttamente, per non essere stato compiutamente indicato nel modulo di avvio della mediazione l’oggetto della procedura. L’opposta concludeva chiedendo fosse fissata udienza ex art. 281 sexies cpc sulla questione preliminare di improcedibilità del giudizio con conseguente conferma del decreto ingiuntivo e condanna dell’opponente alla rifusione delle spese del giudizio; in subordine chiedeva ammettersi le prove per interrogatorio formale e per testi come da memoria ex art. 183, co. 6, n. 2, cpc.

3.  La procedura di mediazione è procedura riservata, in buona misura orale e, per molti aspetti, informale. L’informalità della procedura si deduce chiaramente da varie norme del D.lgs 28/2010. L’art. 3, co. 3, stabilisce che gli atti del procedimento di mediazione non sono soggetti a formalità; l’art. 6, co. 1, stabilisce che la procedura di mediazione ha una durata non superiore a tre mesi e tale norma è derogabile dalla volontà delle parti e del mediatore; l’art. 8, co. 2, ribadisce che il procedimento di mediazione si svolge senza formalità e il successivo comma 3, che disciplina il omento più importante della procedura, l’attività del mediatore, si limita a stabilire che il mediatore “si adopera” affinché le parti raggiungano un accordo amichevole, senza ulteriori specificazioni al contenuto dell’attività del mediatore, attività che si conferma essenzialmente di dialogo con le parti e i difensori. Oltre a tali norme, che per chiarezza non necessitano di particolare commento e che dimostrano l’informalità della procedura di mediazione, possono prendersi in rapido esame, quali indici della natura informale della procedura, la competenza territoriale dell’organismo di mediazione, stabilita dall’art. 4, D.lgs cit., pacificamente derogabile dall’accordo tra le parti e la natura del termine di quindici giorni per l’avvio della mediazione. Su tale ultima questione non è ignota al giudicante la divergenza emersa in giurisprudenza, nel silenzio dell’art. 5, sia del comma 1 – bis sia del comma 2, tra chi si è espresso per la natura perentoria del termine (tra le altre, Trib. Firenze, Gherardini, sent. 4.06.2015) e chi invece per la sua natura ordinatoria (Trib. Firenze, Breggia, ord. 17.06.2015). Lo scrivente propende, coerentemente con la natura informale dell’istituto, per la natura ordinatoria del termine. Decisivo è il disposto dell’art. 152, co. 2, cpc, per il quale “i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori” e, come si è appena visto, nessuna norma del D.lgs 28 definisce “perentorio” il termine di quindici giorni. A ciò si aggiunga che, per taluni soggetti (enti pubblici, società per azioni, condomìni, ecc.) ove il termine per avventura fosse considerato perentorio, ne sarebbe pressoché impossibile il rispetto per i tempi lunghi di formazione delle loro volontà. In materia condominiale sono infatti espressamente previste dall’art. 71 quater, co. 4 e 6, Disp. att. al c.c., eccezioni al rigore dei termini con possibilità di rinvio dell’incontro di mediazioni (co. 4) potendosi disporre una proroga del termine di adesione adottabile caso per caso o di proroga dei termini per la risposta alla proposta del mediatore (co. 6), in considerazione della particolare natura del soggetto convocato in mediazione.

4.  Eccezione di improcedibilità per tardività della presentazione dell’istanza di avvio. L’eccezione, pur se non ribadita nella discussione orale dalla difesa dell’opposta, è infondata e va rigettata. L’ordinanza che demandava le parti in mediazione, ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010 era del 19.02.2015 ed era emessa facendo prudente applicazione della discrezionalità che la norma attribuisce al magistrato – anche in grado di appello – il quale, prima di mandare le parti in mediazione, deve valutare la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti. Ai tre parametri di legge lo scrivente magistrato onorario, dopo l’assegnazione del procedimento a sé, si è rapportato per valutare e decidere se mandare le parti in mediazione. E’ indubbio, sia dall’esame degli atti difensivi che dall’esame dei documenti di parte opposta, che le parti prima di instaurare il giudizio non solo tentavano di risolvere in via amichevole l’insorgente lite giudiziaria ma, data la natura del giudizio, è altrettanto indubbio che l’esame dei diritti in questo giudizio coinvolge aspetti e comportamenti di buona o di mala fede nella relazione tra xxxx e yyyy, principali protagonisti della vicenda che ha portato alla contestata transazione. Sulla base di tali elementi, una procedura di mediazione in corso di causa non sarebbe stata affatto fuori luogo e avrebbe dato invece – ad avviso dello scrivente – un’utile opportunità alle parti per riprendere un negoziato pendente judicio. Alla luce del negativo esito dei tentativi di definizione amichevole è ora evidente la necessità di proceder oltre e decidere la controversia con sentenza. Venendo all’eccezione in parola, per valutare la tempestività dell’avvio della mediazione è sufficiente considerare la data del provvedimento, della sua comunicazione e della presentazione dell’istanza di avvio. L’ordinanza che disponeva che disponeva la mediazione demandata era emessa il 19.02.2015, la sua comunicazione telematica alle parti a cura della cancelleria era del 23.02.2015 e l’istanza di avvio della mediazione era presentata dall’opponente all’organismo di mediazione il 5.03.2015. dal semplice raffronto delle date appare evidente, ove fosse necessario accertarlo, che l’avvio della mediazione era tempestivo e che l’eccezione preliminare in parola è del tutto priva di fondamento e come tale doveva essere rigettata. Ad avviso dello scrivente, data la natura ordinatoria del termine, sarebbe stato sufficiente riscontrare, all’udienza di verifica dell’esito della mediazione successiva all’ordinanza ex art. 5, co. 2, D.lgs cit., un regolare svolgimento dell’incontro preliminare per poter considerare soddisfatta la condizione di procedibilità ed eventualmente disporre, su istanza di entrambe le parti, un rinvio della causa per la verifica dell’esito della mediazione.

5.  Eccezione di improcedibilità per non avere l’opponente indicato l’oggetto della mediazione nell’istanza d’avvio. La procedura di mediazione non è, come si è già dimostrato sopra, soggetta a forme solenni stabilite dal D.lgs 28/2010. I vari organismi di mediazione hanno, per loro regolamento, predisposto moduli sia per l’avvio delle procedure che per l’adesione alle stesse. La modulistica viene compilata dalle parti, spesso utilmente assistite dai difensori fin dalla fase di compilazione dei moduli. Data l’informalità della procedura è evidente come l’oggetto della mediazione possa essere ricavato non solo dal modulo di avvio ma anche aliunde, ad esempio dai documenti allegati o, ancora e soprattutto, dall’esposizione orale delle parti durante l’incontro di mediazione, sempre che la discussione – anche in quella procedura – non si dilunghi e si perda in questioni preliminari, togliendo così alle parti un’opportunità di dialogo che potrebbe non ripresentarsi più. Nella specie erano indicate nel modulo di avvio le condizioni alle quali la parte istante si dichiarava disponibile a conciliare; era indicato un giudizio pendente avanti a questo tribunale in quanto era addirittura fatto riferimento ad una possibilità di responsabilità aggravata ex art. 96 cpc ed è evidente che le parti in quella mediazione corrispondevano e corrispondono alle parti di questo giudizio. Quel che più rileva è, tuttavia, che l’incontro avanti al mediatore si svolgeva con la partecipazione dei legali e soprattutto dei rispettivi clienti, in ossequio a quanto stabilito sia nella citata ordinanza giudiziale che nell’art. 8, co. 1, D.lgs cit. a mente del quale per un regolare svolgimento della procedura di mediazione “al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”. L’eccezione sollevata dalla convenuta opposta potrebbe forse concepirsi in una mediazione ante iudicio, obbligatoria per materia, ex art. 5, co. 1 – bis, D.lgs cit., ma non in una mediazione demandata, nella quale l’oggetto della mediazione è agevolmente determinabile – solo che lo si voglia vedere – anche per relationem rispetto all’oggetto della causa pendente. Infine, per l’art. 5, co. 2- bis, D.lgs cit., la condizione di procedibilità deve considerarsi avverata se il primo incontro si conclude senza l’accordo e tale circostanza si è verificata nella specie. Da tutte le considerazioni che precedono consegue che l’eccezione di improcedibilità dell’azione per la mancata indicazione dell’oggetto della procedura di mediazione deve essere rigettata in quanto non solo infondata, ma anche pretestuosa e temeraria. Dal rigetto delle eccezioni di improcedibilità discende logicamente che non v’è luogo a provvedere sulla domanda di conferma del decreto ingiuntivo opposto, decisione che viene rimessa alla sentenza definitiva. Essendo il presente provvedimento una sentenza provvisoria che si limita a risolvere questioni preliminari e a disporre la prosecuzione del giudizio, ex art. 279, co. 2, n. 4 cpc, non si adotta alcuna decisione sulle spese di lite la cui regolazione è rimessa alla sentenza definitiva.

P.Q.M.

Il Tribunale di Pavia, pronunciando sulle eccezioni preliminari, così provvede:
1) Ritenuta soddisfatta la condizione di procedibilità consistente nel corretto e tempestivo avvio e svolgimento della procedura di mediazione demandata, ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, rigetta le eccezioni di improcedibilità;
2) Spese legali nella sentenza definitiva;
3) Dispone la rimessione della causa sul ruolo per la prosecuzione del giudizio.

Così deciso in Pavia, in esito all’udienza del 14 ottobre 2015.
Si comunichi.
Dott. Giorgio Marzocchi

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