mediazione obbligatoria conciliazione

TAR Lazio, sent. 26/01/15: ribadita legittimità costituzionale della mediazione obbligatoria

Seconda decisione, a stretto giro, da parte del TAR Lazio, che si è pronunciato  in ordine ad una serie di ricorsi provenienti da vari ambiti dell’avvocatura (tra cui l’OUA), con cui erano state sollevate diverse censure nei confronti  della mediazione civile così come disciplinata dal D.lgs. 28/2010, allo scopo precipuo di provocarne l’ulteriore sindacato di costituzionalità.

Il TAR ribadisce, come di seguito si chiarirà, la piena legittimità costituzionale del modello di mediazione attualmente vigente.

Si tratta del ricorso originariamente proposto da una pluralità di ricorrenti – tra cui l’OUA (Organismo Unitario dell’Avvocatura) – poi integrato da motivi aggiunti a seguito delle sopravvenienze intervenute, allo scopo di sentir pronunciare l’annullamento:

in parte qua del decreto del Ministro della giustizia adottato di concerto con il Ministro per lo sviluppo economico n. 180 del 18 ottobre 2010, pubblicato nella G.U. n. 258 del 4 novembre 2010, avente ad oggetto “Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonchè l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’art. 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010″, (RICORSO);

della circolare del Ministero della Giustizia 4 aprile 2011 avente a oggetto “Regolamento di procedura e requisiti dei mediatori” (PRIMI MOTIVI AGGIUNTI);

e, inoltre,

per la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del d. lgs. n. 28 del 2010, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost (RICORSO);

per la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010, come modificato nelle more del giudizio dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 79, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost. (SECONDI MOTIVI AGGIUNTI).

Il processo è stato caratterizzato da numerosi interventi, sia ad adiuvandum sia ad  opponendum (tra cui quello di ADR Center s.p.a. e dell’Associazione Avvocati per la mediazione).

Nell’ambito della controversia sono state formulate innanzitutto varie questioni di carattere pregiudiziale.

Il TAR ha respinto l’eccezione di difetto di legittimazione attiva sollevata dai resistenti Ministero della giustizia e Ministero per lo sviluppo economico nei confronti del ricorrente Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana – O.U.A., ritenuto privo della rappresentanza istituzionale degli interessi della categoria degli avvocati nonché delle associazioni degli avvocati pure ricorrenti, sulla base “…del pacifico principio giurisprudenziale secondo cui un’associazione professionale, se e in quanto ne sia comprovato un apprezzabile grado di rappresentatività – la cui sussistenza nella fattispecie non è stato denegato dall’eccepente – è legittimata a impugnare provvedimenti lesivi, oltre che di interessi propri, di interessi collettivi della categoria (C. Stato, V, 22 ottobre 2007, n. 5498; Tar Lazio, Roma, I, 5 dicembre 2008, n. 11015)”.

In secondo luogo, le parti intervenienti ad opponendum affermano che il ricorso è inammissibile per mancanza di interesse ad agire, non concretando l’atto impugnato, avente natura regolamentare, una diretta ed immediata lesione in capo ai ricorrenti.

Ad avviso del TAR, invece, secondo consolidata giurisprudenza, la domanda risulta pienamente ammissibile i quanto se “… è vero che, secondo un principio consolidato in giurisprudenza amministrativa, le norme regolamentari, categoria cui è pacificamente ascrivibile l’impugnato decreto n. 180 del 2010, vanno impugnate unitamente all’atto applicativo, che rende concreta la lesione degli interessi di cui sono portatori i destinatari”, occorre però considerare che detta regola “…è diretta conseguenza della natura, solitamente generale ed astratta, delle previsioni di fonte regolamentare, sicchè trova eccezione per i provvedimenti che, sia pur di natura regolamentare, presentano un carattere specifico e concreto, e sono idonei ad incidere direttamente nella sfera giuridica degli interessati: in tal caso sorge l’onere di immediata impugnazione, a decorrere dalla pubblicazione nelle forme previste dalla legge (C. Stato, V, 19 novembre 2009; IV, 17 aprile 2002, n. 2032)”.

Tale ultima evenienza si verifica, in effetti, nel caso di specie, in cui il regolamento impugnato regola puntualmente e compiutamente l’iscrizione nel registro degli organismi di mediazione, con criteri che svelano un immediato e certo effetto precettivo.

Si passa poi all’esame del merito.

In sostanza, con l’atto introduttivo del giudizio, i ricorrenti lamentano che l’art. 4 del gravato regolamento 180/2010 subordini l’iscrizione degli organismi di mediazione al relativo registro alla verifica della sussistenza di parametri di tipo amministrativo-economico-finanziario (tra cui la capacità finanziaria e organizzativa, il possesso di polizza assicurativa, la trasparenza amministrativa e contabile), e di meri requisiti di qualificazione.

Il Collegio rileva immediatamente come dette censure “…più che evidenziare l’illegittimità del decreto 180/2010 per violazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs.180/2010, sono volte a contestare la stessa disciplina normativa recata dai predetti articoli, ritenuta antinomica rispetto alla direttiva comunitaria 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE, e alla legge delega, art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69”.

E, aggiunge il Giudice, tali rilievi di fondo furono – a suo tempo – ritenuti persuasivi, tanto che con l’ordinanza n. 3202/2011 il giudizio fu sospeso con contestuale rimessione alla Corte costituzionale, circostanza che condusse – come ben si sa – alla nota sentenza 272/2012.

Successivamente, tuttavia, la novella legislativa intervenuta a seguito del c.d. “decreto del fare” (estate 2013) ha apportato rilevanti modifiche all’istituto della mediazione.

Ne consegue la declaratoria di improcedibilità delle censure in parola, in quanto “…affidate a un impianto argomentativo complessivo non più coerente con l’attuale quadro normativo”.

Sempre con l’atto introduttivo, i ricorrenti sostengono che l’art. 4, co. 4, DM 180/2010 (disposizione non modificata dai DD.MM. 6 luglio 2011, n. 145 e 4 agosto 2014, n. 39), nel subordinare anche l’iscrizione degli organismi costituiti dai consigli dell’ordine degli avvocati nel registro degli organismi di mediazione alla presentazione di una polizza assicurativa di importo non inferiore a € 500.000,00, introdurrebbe una limitazione all’accesso all’attività di mediazione di tipo economico e finanziario che è illegittima, in quanto non prevista né dalla legge delega 69/09 né dal decreto delegato 28/10.  

Il gravame in questione, però, si rivela infondato, in quanto, secondo il TAR Lazio, “…la pretesa che gli organismi di mediazione presentino, ai fini dell’iscrizione al registro di cui trattasi, una polizza assicurativa, lungi dal costituire una limitazione all’accesso all’attività di mediazione, risponde a un chiaro criterio di opportunità, essendo evidentemente finalizzata a garantire la funzionalità dell’organismo, e, conseguentemente, a tutelare il soggetto privato, che, obbligatoriamente o volontariamente, allo stesso si affida. Né sussistono ragioni per ritenere che il decreto 180/2010 dovesse esentare da tale onere i consigli degli ordini degli avvocati, la cui peculiare posizione rispetto alla materia della mediazione non è stata obliata dalla legge”.

Con riferimento, infine, all’ultimo motivo di gravame ricompreso nel ricorso originario, i ricorrenti lamentano che l’art. 16 del regolamento, disattendendo l’art. 17 del D.lgs. 28/2010: a) non prevede la determinazione dell’importo minimo delle indennità spettanti agli organismi di mediazione in relazione al primo scaglione e non individua il criterio di calcolo e le modalità di ripartizione tra le parti; b) non appronta i criteri per l’approvazione delle tabelle delle indennità proposte dagli organismi costituiti dagli enti privati; c) non indica le maggiorazioni massime delle indennità dovute; d) non prevede la riduzione minima dell’indennità nell’ipotesi in cui la mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Dette doglianze, però, vanno ritenute improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse, dal momento che l’art. 16, DM 180/2010 è stato oggetto “…di rilevanti modifiche ad opera, prima, del d.m. 6 luglio 2011, n. 145, poi, del d.m. 4 agosto 2014, n. 39. Tra tali modifiche basti rammentare la prevista riduzione dell’indennità per le fattispecie di ricorso obbligatorio alla mediazione [comma 4, lett. d)]. Inoltre,  è ora prevista dalla legge la gratuità dell’opera prestata dall’organismo di mediazione, nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro (art. 17, comma 5-ter, d.lgs. 28/2010)”.

In sostanza, dunque, l’atto introduttivo del giudizio va dichiarato in parte improcedibile e per il restante respinto.

Vediamo ora le statuizioni del TAR in ordine ai motivi aggiunti.

Innanzitutto, i ricorrenti hanno domandato l’annullamento, sulla base di una pluralità di doglianze, della circolare del Ministero della Giustizia 4 aprile 2011, avente ad oggetto “Regolamento di procedura e requisiti dei mediatori”.

Tale domanda va dichiarata inammissibile per carenza di interesse ad agire, dal momento che “…come emerge dal titolo dell’atto gravato e come anche fatto palese dal contenuto dello stesso, i mezzi aggiunti in esame sono diretti avverso una vera e propria circolare amministrativa, ovvero avverso un atto privo di qualsiasi valenza provvedimentale (…) secondo la giurisprudenza amministrativa(…) è invero ormai pacifico che le circolari amministrative, in quanto atti di indirizzo interpretativo, non sono vincolanti per i soggetti estranei all’amministrazione, mentre per gli organi destinatari esse sono vincolanti solo se legittime, potendo essere disapplicate qualora contra legem (C. Stato, V, 15 ottobre 2010, n. 7521); le circolari amministrative sono atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all’amministrazione; una circolare amministrativa contra legem può essere disapplicata anche d’ufficio dal giudice investito dell’impugnazione dell’atto che ne fa applicazione (C. Stato, IV, 21 giugno 2010, n. 3877).

In forza del secondo atto di motivi aggiunti, parte ricorrente ha formulato anche avverso il novellato art. 5 D.lgs. 28/2010 censure di illegittimità costituzionale.

In sostanza, si vuole sostenere l’incompatibilità dell’introduzione a regime del nuovo sistema di accesso alla giustizia con lo strumento del decreto-legge, stante la carenza del carattere di straordinaria necessità e urgenza che ne legittima l’utilizzo, carenza che si ritiene testimoniata dalla previsione che la nuova disposizione si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto (art. 84 del “decreto del fare”).

Detta censura deve tuttavia, ad avviso del TAR, essere respinta. Infatti, se da un lato la Corte costituzionale, con giurisprudenza costante sin dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che la sussistenza dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità, dall’altro, con la sentenza n. 171/2007, il Giudice delle leggi ha chiarito, al riguardo, “…che il relativo giudizio non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento, in sede di conversione, dovendosi svolgere su un piano diverso, con la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela dei quali detto compito è predisposto, con l’effetto di riconoscere ai requisiti di necessità e urgenza cui l’art. 77 Cost. subordina il potere straordinario del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie comporta l’inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità”.

Nel caso di specie, rebus sic stantibus, il Giudice non ravvisa l’evidenza richiesta per sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale in ordine all’obbligatorietà della mediazione, come dedotta dai ricorrenti. D’altronde, ove si consideri l’impatto che la sentenza 272/2012 ebbe sulle finalità deflattive del contenzioso giudiziario perseguite dal legislatore delegato e ove si tenga conto, altresì, delle conseguenze della sentenza medesima sull’attività e sulle prospettive degli Organismi di mediazione, deve senz’altro riconoscersi la sussistenza di quella straordinarietà del caso, tale da legittimare, ai sensi dell’art. 77, come interpretato dalla Corte Costituzionale, la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito.

Infine, concludendo l’analisi delle censure proposte tramite motivi aggiunti, i ricorrenti hanno anche sostenuto l’illegittimità costituzionale in riferimento all’art. 24 Cost., sotto il profilo della lesione all’accesso alla giustizia e alla frapposizione di ostacoli al diritto di difesa in giudizio.

Posto che la Corte costituzionale, nella sentenza 272/2012, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010 per eccesso di delega, ha assorbito ogni questione relativa alla eventuale incostituzionalità della mediazione obbligatoria per violazione dell’art. 24 Cost., e posto altresì che la “nuova” mediazione obbligatoria introdotta dall’art. 5, co. 1-bis, D.lgs. 28/2010, per effetto delle complessive modifiche apportate alla disposizione e al decreto legislativo nel suo complesso, è profondamente difforme dalla precedente, tutto ciò posto anche tale questione deve essere respinta. Si tratta, secondo il Giudice, di questione “…aperta, e non può che essere affrontata alla luce delle novelle apportate in materia dal “decreto del fare”, il cui testo, certamente, presenta non poche criticità, che potranno “…essere risolte in sede di rivisitazione del testo del decreto delegato 28/2010, già programmato. L’art. 5, comma 1-bis, chiarisce, infatti, che “La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione”.

Quel che è certo, è che non sono in alcun modo riproducibili nei confronti della “nuova mediazione” quei rilievi cui aveva dato luogo il previgente sistema, data la portata degli interventi innovativi (due per tutti: presenza necessaria dell’avvocato e primo incontro ex art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010).

In conclusione, dunque, sulla base dell’articolata motivazione che precede, le doglianze di cui al ricorso e ai motivi aggiunti in esame vanno dichiarate in parte improcedibili, in parte inammissibili e per il restante respinte.

Per contattare il Centro Studi di ADR Intesa: formazione@adrintesa.it

 

Testo integrale sentenza: 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10937 del 2010, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana – Oua, Maurizio De Tilla, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, Francesco Caia, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata, Gennaro Torrese, Unione Regionale dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati della Campania, Franco Tortorano, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Larino, Marco d’Errico, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso, Demetrio Rivellino, Mario Pietrunti, AIAF – Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minori, Filippo Pucino, Paola Pucino, Angelo Pucino, Carmelo Maurizio Sergi, Federica Eminente, Sabrina Sifo, Pompeo Salvatore Walter, Eugenio Bisceglia, Vitangelo Mongelli, Vincenzo Papaleo, Salvatore Di Cristofalo, Giovanni Zambelli, Giuseppe Di Girolamo, Agostino Maione, Claudio Acampora, Luigi Ernesto Zanoni, rappresentati e difesi dagli avv.ti Giorgio Orsoni, Mariagrazia Romeo e Mario Sanino, con domicilio eletto presso lo studio dell’ultimo in Roma, v.le Parioli, n. 18 0

contro

Ministero della giustizia, Ministero dello sviluppo economico, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

e con l’intervento di

ad adiuvandum:

– Associazione degli Avvocati Romani e Associazione Agire e informare, rappresentate e difese dagli avv.ti Giampiero Amorelli e Dorodea Ciano, presso lo studio dei quali elettivamente domiciliano in Roma, via Guglielmo Pepe, n. 37;

– Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, rappresentato e difeso dagli avv.ti Nino Scripelliti e Gaetano Viciconte, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Alessandro Turco in Roma, l.go dei Lombardi, n. 4;

– Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno, rappresentato e difeso dagli avv.ti Gaetano Paolino e Valeria Brancaccio, con i quali elettivamente domicilia presso l’avv. Leopoldo Fiorentino, studio Carlini, in Roma, p.za Cola di Rienzo, n. 92;
ad opponendum:

– Associazione Avvocati per la mediazione, Lorenza Morello e Alberto Mascia, rappresentati e difesi prima dagli avv.ti Daniela Bauduin e Giorgio Prete, poi dagli avv.ti Giorgio Prete e Antonio Bertoldini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Alberto Mascia in Roma, Via Michele di Lando, n.41;

–ADR Center s.p.a., rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuseppe De Palo, Rodolfo Cicchetti e Donatella Mangani, con domicilio eletto presso lo studio del terzo in Roma, via Mesopotamia, n. 22;
– Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili e Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti, rappresentati e difesi dall’avv. Ernesto Sticchi Damiani, con domicilio eletto presso lo studio BDL in Roma, via Bocca di Leone, n. 78;

per l’annullamento:

in parte qua del decreto del Ministro della giustizia adottato di concerto con il Ministro per lo sviluppo economico n. 180 del 18 ottobre 2010, pubblicato nella G.U. n. 258 del 4 novembre 2010, avente ad oggetto “Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonchè l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’art. 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010″, nonché

per la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del d. lgs. n. 28 del 2010, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost (RICORSO);

– della circolare del Ministero della giustizia 4 aprile 2011 avente a oggetto “Regolamento di procedura e requisiti dei mediatori” (PRIMI MOTIVI AGGIUNTI);

– per la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010, come modificato nelle more del giudizio dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 79, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost. (SECONDI MOTIVI AGGIUNTI).

Visto il ricorso;

Visti gli atti di proposizione di motivi aggiunti;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della giustizia e del Ministero dello sviluppo economico;

Visti gli atti di intervento ad adiuvandum proposti da Associazione degli Avvocati Romani, Associazione Agire e informare, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze e Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno;

Visti gli atti di intervento ad opponendum proposti da Associazione Avvocati per la mediazione, Lorenza Morello, Alberto Mascia, ADR Center s.p.a., Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili e Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica dell’8 ottobre 2014 il cons. Anna Bottiglieri e uditi per le parti i difensori come da relativo verbale;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

FATTO

1. La direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea ha disciplinato alcuni aspetti della mediazione in materia civile e commerciale.

L’art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69, ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale, prescrivendo, tra altro, al legislatore delegato di disciplinare la mediazione nel rispetto ed in coerenza con la normativa comunitaria (comma 2; comma 3, lett. c).

La delega è stata esercitata con il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

Con l’atto introduttivo della controversia all’odierna trattazione i ricorrenti hanno interposto azione impugnatoria avverso alcune disposizioni del decreto18 ottobre 2010, n. 180, adottato dal Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, che, in forza della previsione di cui all’art. 16 del citato d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, ha regolamentato la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti ai suddetti organismi.

Queste le censure formulate avverso l’atto gravato.

1) Violazione di legge – Violazione dell’art. 16 del d.lgs. 28/2010 – Erronea interpretazione – Eccesso di potere – Difetto di presupposto – Illogicità – Arbitrarietà.

2) Violazione di legge – Violazione dell’art. 16 del d.lgs. 28/2010 – Erronea interpretazione – Eccesso di potere – Difetto di presupposto – Illogicità – Arbitrarietà – Illegittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del d.lgs. 28/2010 in riferimento agli artt. 77 e 24 Cost..

Mediante le predette censure, il cui contenuto può essere unitariamente illustrato, i ricorrenti lamentano che il decreto 180/2010 non reca alcun criterio volto a individuare e a selezionare gli organismi di mediazione in ragione dell’attività squisitamente giuridica che essi andranno ad effettuare, e che è richiesto sia dalla normativa comunitaria [laddove dispone che la mediazione “sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti” (art. 4 direttiva 2008/52/CE)], sia dalla legge delega [art. 60, lett. b), l. n. 69 del 2009: “prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione”].

A sostegno della censura, viene ulteriormente osservato che l’art. 4 del regolamento n. 180 del 2010, nel disciplinare l’iscrizione, a domanda, degli organismi di mediazione, che possono essere costituiti sia da enti pubblici che da enti privati, si limita a prevedere, al comma 2, una serie di parametri di tipo amministrativo-economico-finanziario (tra cui la capacità finanziaria e organizzativa, il possesso di polizza assicurativa, la trasparenza amministrativa e contabile), poi a prescrivere, al comma 3, una verificazione di tipo “aggiuntivo” sui requisiti di qualificazione dei mediatori, che viene demandata al responsabile del procedimento (“Il responsabile verifica altresì i requisiti di qualificazione dei mediatori”), senza essere in alcun modo correlata con le competenze giuridiche oggettivamente richieste dall’attività di mediazione.

A tale ultimo riguardo, i ricorrenti escludono che il criterio selettivo di cui lamentano la carenza possa essere costituito dalla previsione di cui all’art. 4, comma 3, del regolamento impugnato, che prevede, alla lett. a), che il mediatore deve essere in possesso di “un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale” ovvero, in alternativa, essere iscritto “ad un ordine o collegio professionale” e, alla lett. b), che il mediatore abbia “una specifica formazione e…uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione” regolati al successivo art. 18.

Ciò in quanto, secondo i ricorrenti, tutti tali elementi, essendo sprovvisti dell’indicazione di una specifica professionalità, delineano un’area generica, attinente al solo ambito della formazione culturale, e che risulta, pertanto, priva di quegli agganci a una precipua qualificazione e perizia nell’ambito giuridico e processuale – senza la quale l’attività formativa specifica prevista, peraltro esigua, non può raggiungere utili scopi – che essi ritengono invece necessaria in ragione della tipologia della prestazione che deve essere resa. E ciò soprattutto considerando che, alla luce dell’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010, per le materie ivi elencate, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ovvero si pone come alternativa al sistema giudiziale o quale funzione stragiudiziale di soddisfazione di pretese giuridiche.

L’assunto secondo il quale il procedimento di mediazione non può che essere gestito con l’ausilio dei soggetti svolgenti la professione legale viene dai ricorrenti affidato anche alla considerazione che:

– il procedimento di mediazione non positivamente concluso incide sulle spese del successivo giudizio [art. 13, d. lgs. 28/10; art. 60, lett. p), l. 69/09];

– il verbale dell’accordo conclusivo del procedimento di mediazione, non contrario all’ordine pubblico o a norme imperative, nonché sottoposto ad omologazione, ha efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12, d. lgs. 28/10);

– l’avvocato ha l’obbligo di informare il proprio assistito, all’atto del conferimento dell’incarico, della possibilità di avvalersi della mediazione [art. 4, comma 3, d. lgs. 28/10; art. 60, lett. n), l. 69/09], nonostante lo svolgimento della relativa attività sia, poi, demandato ad altre categorie professionali.

Proseguendo nel descritto ambito argomentativo, i ricorrenti pervengono, infine, alla conclusione che l’intero corpo sistematico delle fonti di disciplina del procedimento di mediazione faccia emergere evidenti profili di contraddittorietà, e, in particolare, che la mancata previsione di idonei criteri di valutazione della competenza degli organismi di mediazione ponga il regolamento impugnato in palese contrasto non tanto con l’art. 16 del d. lgs. 28/2010, ma piuttosto con i principi generali e l’insieme delle disposizioni dell’intero impianto legislativo considerato.

I ricorrenti espongono ulteriormente che gli artt. 5 e 16 del d. lgs. 28/2010 non sfuggirebbero a censure di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 77 e 24 della Costituzione.

In particolare:

a) l’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010, nel prevedere che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità, rilevabile anche d’ufficio, della domanda giudiziale in riferimento alle controversie nelle previste materie (condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, responsabilità medica e diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari), precluderebbe l’accesso diretto alla giustizia, disattendendo espressamente le previsioni della legge delega, art. 60 della l. n. 69 del 2009, e, segnatamente, il principio e criterio direttivo di cui alla lett. a), che lo tutela specificamente;

b) l’art. 16 del d. lgs. n. 28 del 2010, ponendo quali criteri di selezione degli organismi abilitati alla mediazione esclusivamente la “serietà ed efficienza”, liberalizzerebbe il settore, contravvenendo sia all’art. 4 della direttiva 2008/52/CE, sia alla citata legge di delega, lett. b), che fanno riferimento, rispettivamente, ai criteri della competenza e della professionalità.

3) Violazione di legge – Violazione dell’art. 16 del d.lgs. 28/10 – Violazione dell’art. 60 della l. 69/09 – Erronea interpretazione – Difetto di presupposto – Eccesso di potere – Arbitrarietà –Illogicità – Sviamento.

Il terzo motivo è diretto avverso l’art. 4, comma 4 del regolamento, che, nel subordinare l’iscrizione degli organismi costituiti dai consigli dell’ordine degli avvocati nel registro degli organismi di mediazione alla presentazione di una polizza assicurativa di importo non inferiore a € 500.000,00, introduce, secondo i ricorrenti, una limitazione all’accesso all’attività di mediazione di tipo economico e finanziario che è illegittima, in quanto non prevista né dalla legge delega 69/09 né dal decreto delegato 28/10.

Con lo stesso motivo i ricorrenti avversano anche la disposizione transitoria di cui all’art. 20 del regolamento, che consente l’iscrizione di diritto nel registro degli organismi di mediazione degli organismi già iscritti nel registro di cui al decreto del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222, rappresentando che tale previsione risulta del tutto arbitraria, tenendo conto sia dell’art. 16, comma 2, del d. lgs. n. 28 del 2010, che aveva previsto l’operatività di detti organismi solo fino al momento dell’entrata in vigore del regolamento, sia dell’art. 60, comma 3, lett. e) ed f) della l. n. 69 del 2009, che collega piuttosto l’immediata operatività dei procedimenti di mediazione all’iscrizione di diritto nel relativo registro dei soli organismi eventualmente costituiti dai consigli dell’ordine presso i tribunali.

4) Violazione di legge – Violazione dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 – Erronea interpretazione – Difetto di presupposto – Eccesso di potere – Sviamento.

Con il quarto motivo lamentano i ricorrenti che l’art. 16 del regolamento, disattendendo l’art. 17 del d. lgs. 28/2010: a) non prevede la determinazione dell’importo minimo delle indennità spettanti agli organismi di mediazione in relazione al primo scaglione e non individua il criterio di calcolo e le modalità di ripartizione tra le parti; b) non appronta i criteri per l’approvazione delle tabelle delle indennità proposte dagli organismi costituiti dagli enti privati; c) non indica le maggiorazioni massime delle indennità dovute; d) non prevede la riduzione minima dell’indennità nell’ipotesi in cui la mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Esaurita l’illustrazione delle illegittimità rilevate a carico dell’atto gravato, i ricorrenti hanno domandato l’annullamento del provvedimento e la dichiarazione di non manifesta infondatezza delle spiegate questioni di legittimità.

2. Si sono costituiti in resistenza il Ministero della giustizia e il Ministero dello sviluppo economico, che hanno eccepito il difetto di legittimazione attiva di alcuni ricorrenti, ovvero di O.U.A. e delle altre associazioni di avvocati, per carenza in capo agli stessi della rappresentanza istituzionale degli interessi della categoria degli avvocati, spettante solo al Consiglio Nazionale Forense e agli ordini esponenziali, oltre che ai singoli iscritti.

Le resistenti amministrazioni hanno poi confutato analiticamente le argomentazioni difensive di parte ricorrente, domandando il rigetto del gravame.

3. La controversia si è caratterizzata per la presenza di numerosi atti di intervento.

In particolare:

– hanno proposto atto di intervento ad adiuvandum l’Associazione degli Avvocati Romani, l’Associazione Agire e informare, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno;

– hanno proposto atti di intervento ad opponendum l’Associazione Avvocati per la mediazione, Lorenza Morello, Alberto Mascia, la ADR Center s.p.a., l’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili e l’Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti.

4. Con ordinanza 12 aprile 2011, n. 3202, questa Sezione, ritenendo alcune questioni di legittimità costituzionale proposte dai ricorrenti rilevanti ai fini del decidere e non manifestamente infondate, ha sospeso il processo e rimesso gli atti alla Corte Costituzionale per l’esame della questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, in parte, del d.lgs. n. 28 del 2010, disponenti, rispettivamente, l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie e i soli requisiti di serietà ed efficienza degli enti pubblici e privati abilitati a costituire gli organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione.

5. Nel prosieguo, i ricorrenti hanno interposto il primo atto di motivi aggiunti avverso la circolare del Ministero della giustizia 4 aprile 2011 avente a oggetto “Regolamento di procedura e requisiti dei mediatori”.

I mezzi aggiunti sono rivolti avverso le previsioni che:

a) hanno chiarito che, al fine di ritenersi esperita la condizione di procedibilità, l’unico soggetto legittimato a redigere il verbale di esito negativo della mediazione è il mediatore (e non la segreteria dell’organismo di mediazione);

b) hanno precisato alcuni elementi relativi ai requisiti dei mediatori.

Avverso tali previsioni i ricorrenti hanno formulato le seguenti doglianze.

1) Violazione di legge – Violazione dell’art. 60 della l. 69/09 – Erronea interpretazione – Eccesso di potere – Difetto di presupposto – Illogicità – Arbitrarietà – Contraddittorietà.

2) Violazione di legge – Violazione dell’art. 16 del d.lgs. 28/10 – Violazione dell’art. 60 della l. 69/09 – Erronea interpretazione – Eccesso di potere – Difetto di presupposto – Illogicità – Arbitrarietà – Contraddittorietà.

Secondo i ricorrenti, la previsione sub a) è affetta dai profili di illegittimità costituzionale già sollevati in relazione all’art. 5 del d.lgs. 28/10, mentre la previsione sub b), al pari di quelle contenute nel regolamento, non consente di individuare una specifica competenza dei mediatori in ordine alla funzione loro assegnata.

I ricorrenti hanno indi domandato anche l’annullamento della predetta circolare.

6. La Corte Costituzionale, con sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, nel pronunziare in ordine alla citata ordinanza della Sezione n. 3202 del 2011, nonché in relazione a successive ordinanze di rimessione di altre autorità giudiziarie, sempre vertenti sulla materia della mediazione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., e di una serie di disposizioni dello stesso decreto a esso strettamente correlate.

Parte ricorrente ha presentato indi istanza ex art. 80 c.p.a. per la prosecuzione del giudizio sospeso.

7. Pendente il giudizio dinnanzi al Giudice delle leggi, il legislatore, con l’art. 12 , comma 1, lett. a), del d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, aveva modificato in alcune parti la formulazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Tale modifica non veniva però confermata dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10.

Successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84, comma 1, lett. b), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che, mediante l’inserimento del comma 1-bis e altre modifiche apportate sia all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che ad altre disposizioni della legge, ha nuovamente regolamentato l’esperimento della conciliazione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie.

8. Parte ricorrente ha interposto il secondo atto di motivi aggiunti.

In particolare, parte ricorrente formula anche avverso il novellato art. 5 del d.lgs. 28/2010 censure di illegittimità costituzionale in riferimento all’art. 77 Cost., sostenendo l’incompatibilità dell’introduzione a regime del nuovo sistema di accesso alla giustizia con lo strumento del decreto-legge, stante la carenza del carattere di straordinaria necessità e urgenza che ne legittima l’utilizzo, carenza che ritiene testimoniata dalla previsione che la nuova disposizione si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto (art. 84 del “decreto del fare”).

Parte ricorrente spiega inoltre verso la stessa novella censure di illegittimità costituzionale in riferimento all’art. 24 Cost., sotto il profilo della lesione all’accesso alla giustizia e alla frapposizione di ostacoli al diritto di difesa in giudizio.

Parte ricorrente ha conclusivamente ribadito le domande demolitorie già introdotte avverso il decreto n. 180 del 2010 e ha domandato la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010, come modificato nelle more del giudizio dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 79, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost..

9. Con ordinanza 10 dicembre 2013, n. 4872, la Sezione ha respinto la domanda di sospensione interinale degli effetti dell’atto gravato, incidentalmente formulata nel secondo atto di motivi aggiunti.

10. Parte ricorrente ha affidato a memorie lo sviluppo delle proprie tesi difensive.

Le amministrazioni resistenti hanno depositato ulteriori memorie, sostenendo l’infondatezza delle doglianze e delle questioni di costituzionalità dedotte dalle ricorrenti.

Anche le parti intervenienti hanno depositato memorie.

11. Il ricorso è stato indi trattenuto in decisione alla pubblica udienza dell’8 ottobre 2014.

DIRITTO

1. Il Collegio non può esimersi dall’illustrazione del quadro normativo della controversia, per quanto di interesse.

2. In forza dell’invito formulato agli Stati membri dal Consiglio europeo nella riunione di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, delle conclusioni adottate dal Consiglio nel maggio 2000 sui metodi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale, nonché del Libro verde presentato dalla Commissione nell’aprile del 2002, relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie nelle predette materie, la direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea ha disciplinato alcuni aspetti della mediazione in materia civile e commerciale.

Come sempre in tema di diritto comunitario, i “considerando” della direttiva delineano la generale impostazione conferita all’oggetto della regolazione, sia quanto alle finalità, sia quanto alle caratteristiche.

La direttiva chiarisce innanzitutto che l’obiettivo di garantire un miglior accesso alla giustizia sia giudiziale che extragiudiziale, e, segnatamente, la disponibilità del servizio di mediazione, nel contesto della politica dell’Unione europea volta a istituire uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, è un importante contributo al corretto funzionamento del mercato interno (quinto considerando).

Alla luce del sesto considerando della direttiva, la mediazione è, infatti, ritenuta una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale, poiché le relative procedure sono concepite in base alle esigenze delle parti, e gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente, oltre a preservare più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti, benefici che diventano anche più evidenti nelle questioni di portata transfrontaliera.

La direttiva intende indi delinearne gli elementi chiave, per rendere certo il relativo contesto giuridico (settimo considerando).

Sotto il profilo sostanziale, in positivo, si afferma che la direttiva dovrebbe applicarsi alle controversie transfrontaliere, ma che nulla dovrebbe vietare agli Stati membri di estenderla ai “procedimenti di mediazione interni” (ottavo considerando).

In negativo, si afferma che la mediazione non dovrebbe applicarsi: “ai diritti e agli obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile. Tali diritti ed obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritti di famiglia e del lavoro” (decimo considerando); “alle trattative precontrattuali o ai procedimenti di natura arbitrale quali talune forme di conciliazione dinanzi ad un organo giurisdizionale, i reclami dei consumatori, l’arbitrato e la valutazione di periti o i procedimenti gestiti da persone od organismi che emettono una raccomandazione formale, sia essa legalmente vincolante o meno, per la risoluzione della controversia” (undicesimo considerando).

Quanto agli elementi chiave della mediazione, vengono in evidenza, sempre tra i considerando, la differenza tra mediatore e giudice (dodicesimo considerando), la possibilità di rendere il ricorso alla mediazione obbligatorio ovvero soggetto a incentivi o sanzioni, purchè non venga impedita alle parti “di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario” (quattordicesimo considerando) ovvero non si impedisca alle parti, nell’incoraggiare la mediazione, in relazione ai termini di prescrizione e di decadenza, “di adire un organo giurisdizionale o di ricorrere all’arbitrato in caso di infruttuoso tentativo di mediazione” (ventiquattresimo considerando), la fissazione di un termine al processo di mediazione (tredicesimo considerando), la riservatezza del relativo procedimento, anche in relazione all’eventuale successivo procedimento giudiziario od arbitrale (ventitreesimo considerando), l’esecutività dell’accordo scritto raggiunto, fatta salva l’ipotesi di contrasto tra lo stesso e il diritto nazionale ovvero quella che l’obbligo contemplato nell’accordo non possa essere per sua natura reso esecutivo (diciannovesimo considerando); ai fini erariali, la tendenziale neutralità finanziaria in relazione agli stati membri della mediazione, che può includere “il ricorso a soluzioni basate sul mercato”(diciassettesimo considerando).

Viene inoltre in rilievo l’assistenza del mediatore (decimo considerando), la sua formazione e l’introduzione di efficaci meccanismi di controllo della qualità della fornitura del servizio (sedicesimo considerando), la flessibilità del procedimento di mediazione e l’autonomia delle parti, nonché l’efficacia l’imparzialità e la competenza della mediazione (diciassettesimo considerando).

La direttiva 2008/52/CE regola indi la materia con 14 articoli.

In particolare:

– l’art. 1 enuncia l’obiettivo della regolazione (“…facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario”) e ne delinea il campo di applicazione [“…controversie transfrontaliere, in materia civile e commerciale tranne per i diritti e gli obblighi non riconosciuti alle parti dalla pertinente legge applicabile. Essa non si estende, in particolare, alla materia fiscale, doganale e amministrativa né alla responsabilità dello Stato per atti o omissioni nell’esercizio di pubblici poteri (acta iure imperii)];

– l’art. 3, dedicato alle definizioni, dispone che per mediazione, al di là della denominazione, si intende un procedimento strutturato ove “…due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore. Tale procedimento può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto di diritto da uno Stato membro”;

– lo stesso art. 3 esplicita che per mediatore si intende “…qualunque terzo cui è chiesto di condurre la mediazione in modo efficace, imparziale e competente, indipendentemente dalla denominazione o dalla professione di questo terzo nello Stato membro interessato…” (lett. b), che comunque incoraggia “…la formazione iniziale e successiva dei mediatori allo scopo di garantire che la mediazione sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti” (par. 2);

– l’art. 5, dedicato al ricorso alla mediazione, esplicitando l’intendimento già anticipato dal preambolo, prevede che “L’organo giurisdizionale investito di una causa può, se lo ritiene appropriato e tenuto conto di tutte le circostanze del caso, invitare le parti a ricorrere alla mediazione allo scopo di dirimere la controversia…” e che “La presente direttiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario”;

– l’art. 6 delinea la esecutività degli accordi risultanti dalla mediazione, che è, peraltro, esclusa laddove “…il contenuto dell’accordo è contrario alla legge dello Stato membro in cui viene presentata la richiesta o se la legge di detto Stato membro non ne prevede l’esecutività”;

– l’art. 8 dispone che “Gli Stati membri provvedono affinché alle parti che scelgono la mediazione nel tentativo di dirimere una controversia non sia successivamente impedito di avviare un procedimento giudiziario o di arbitrato in relazione a tale controversia per il fatto che durante il procedimento di mediazione siano scaduti i termini di prescrizione o decadenza”;

Con la legge 18 giugno 2009, n. 69, titolata “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, e, segnatamente, con l’art. 60, il legislatore nazionale ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale (comma 1), nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria e in conformità ai principi e criteri direttivi enunciati al comma 3 (comma 2).

Tra questi ultimi, sono attinenti alla materia dell’odierno contendere i principi e criteri direttivi dettati dalle lettere:

“a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia;

b) prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione;

c) disciplinare la mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria, anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e in ogni caso attraverso l’istituzione, presso il Ministero della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di un Registro degli organismi di conciliazione…;

d) prevedere che i requisiti per l’iscrizione nel Registro e per la sua conservazione siano stabiliti con decreto del Ministro della giustizia;

e) prevedere la possibilità, per i consigli degli ordini degli avvocati, di istituire, presso i tribunali, organismi di conciliazione che, per il loro funzionamento, si avvalgono del personale degli stessi consigli;

f) prevedere che gli organismi di conciliazione istituiti presso i tribunali siano iscritti di diritto nel Registro;

g) prevedere, per le controversie in particolari materie, la facoltà di istituire organismi di conciliazione presso i consigli degli ordini professionali;

h) prevedere che gli organismi di conciliazione di cui alla lettera g) siano iscritti di diritto nel Registro;

n) prevedere il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione;

p) prevedere, nei casi in cui il provvedimento che chiude il processo corrisponda interamente al contenuto dell’accordo proposto in sede di procedimento di conciliazione, che il giudice possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore che ha rifiutato l’accordo successivamente alla proposta dello stesso, condannandolo altresì, e nella stessa misura, al rimborso delle spese sostenute dal soccombente… e, inoltre, che possa condannare il vincitore al pagamento di un’ulteriore somma a titolo di contributo unificato…;

q) prevedere che il procedimento di conciliazione non possa avere una durata eccedente i quattro mesi;

r) prevedere, nel rispetto del codice deontologico, un regime di incompatibilità tale da garantire la neutralità, l’indipendenza e l’imparzialità del conciliatore nello svolgimento delle sue funzioni;

s) prevedere che il verbale di conciliazione abbia efficacia esecutiva per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e costituisca titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale”.

La delega in parola è stata esercitata con il d. lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

3. Nell’ambito dell’appena menzionato decreto legislativo 28/2010, viene in particolare rilievo l’art. 5.

Come riferito in narrativa, in seguito all’ordinanza di rimessione della Sezione 12 aprile 2011, n. 3202, che ha rilevato, tra altro, come l’obbligatorietà del ricorso alla mediazione in alcune materie non fosse prevista in alcun principio e criterio direttivo dettato dall’art. 60 delle l. 69/2009, e travalicasse, pertanto, i limiti della delega legislativa, la Corte Costituzionale, con sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 1 della disposizione, unitamente ad altre norme correlate della decretazione delegata, in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost..

Il Giudice delle leggi, in particolare, ha dichiarato:

– l’illegittimità costituzionale “dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali)”;

– “in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010, limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e»; d) dell’art. 5, comma 5 del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo «computano» anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o), dell’art. 24 del detto decreto legislativo”.

Come pure già precedentemente rilevato, pendente il giudizio dinnanzi al Giudice delle leggi, il legislatore, con l’art. 12 , comma 1, lett. a), del d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, aveva tentato di modificare in alcune parti la formulazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Tale modifica non veniva però confermata dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10.

Successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che, mediante l’inserimento del comma 1-bis e varie modifiche apportate sia all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che ad altre disposizioni della legge, ha nuovamente regolamentato l’esperimento della conciliazione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie.

E’ bene a questo punto illustrare il comma 1 (dichiarato costituzionalmente illegittimo con la pronunzia n. 272 del 2012 della Corte Costituzionale) e il comma 1-bis dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, allo stato vigente.

La disposizione dichiarata illegittima prevedeva che:

“1. Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”.

Il comma 1-bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 prevede ora che:

“1-bis. Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”.

Viene altresì in rilievo nell’ambito dell’odierno contenzioso l’art. 16 dello stesso d.lgs. 28/2010, in forza del quale è stato adottato il regolamento 18 ottobre 2010, n. 180, ovvero l’atto gravato in questa sede.

Anche l’art. 16 ha subito modifiche per effetto dell’art. 84 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla l. n. 98 del 2013.

La disposizione prevede al comma 1 che “Gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, sono abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione nelle materie di cui all’articolo 2 del presente decreto. Gli organismi devono essere iscritti nel registro”

Il comma 2 stabilisce che “La formazione del registro e la sua revisione, l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, l’istituzione di separate sezioni del registro per la trattazione degli affari che richiedono specifiche competenze anche in materia di consumo e internazionali, nonché la determinazione delle indennità spettanti agli organismi sono disciplinati con appositi decreti del Ministro della giustizia, di concerto, relativamente alla materia del consumo, con il Ministro dello sviluppo economico. Fino all’adozione di tali decreti si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dei decreti del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222 e 23 luglio 2004, n. 223. A tali disposizioni si conformano, sino alla medesima data, gli organismi di composizione extragiudiziale previsti dall’articolo 141 del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”.

Il comma 3 recita che “L’organismo, unitamente alla domanda di iscrizione nel registro, deposita presso il Ministero della giustizia il proprio regolamento di procedura e il codice etico, comunicando ogni successiva variazione. Nel regolamento devono essere previste, fermo quanto stabilito dal presente decreto, le procedure telematiche eventualmente utilizzate dall’organismo, in modo da garantire la sicurezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati. Al regolamento devono essere allegate le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati, proposte per l’approvazione a norma dell’articolo 17. Ai fini dell’iscrizione nel registro il Ministero della giustizia valuta l’idoneità del regolamento”.

Il comma 4 dispone che “La vigilanza sul registro è esercitata dal Ministero della giustizia e, con riferimento alla sezione per la trattazione degli affari in materia di consumo di cui al comma 2, anche dal Ministero dello sviluppo economico”.

Il comma 4-bis, novella – si sottolinea – inserita dall’art. 84 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla l. n. 98 del 2013, stabilisce che “Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori. Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense. Dall’attuazione della presente disposizione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Il comma 5 prevede che “Presso il Ministero della giustizia è istituito, con decreto ministeriale, l’elenco dei formatori per la mediazione. Il decreto stabilisce i criteri per l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, nonché per lo svolgimento dell’attività di formazione, in modo da garantire elevati livelli di formazione dei mediatori. Con lo stesso decreto, è stabilita la data a decorrere dalla quale la partecipazione all’attività di formazione di cui al presente comma costituisce per il mediatore requisito di qualificazione professionale”.

Il comma 6 detta infine una disposizione di carattere finanziario.

4. Può ora passarsi alla disamina delle questioni poste dal gravame all’odierna trattazione.

5. Nell’ambito della controversia sono state formulate varie questioni di carattere pregiudiziale, che, vanno, com’è d’uopo, prioritariamente esaminate.

Si rammenta che nel ricorso in esame hanno spiegato intervento volontario adesivo alle domande ricorsuali l’Associazione degli Avvocati Romani, l’Associazione Agire e informare, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno.

Hanno, invece, spiegato intervento volontario ad opponendum, oltre ad alcuni singoli avvocati, l’Associazione Avvocati per la mediazione, lOrganismo di mediazione ADR Center s.p.a., l’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, l’Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti.

Alcune questioni pregiudiziali sono state sollevate dalle parti intervenienti.

5.1. Nel delineato ambito, viene in immediata evidenza l’eccezione di difetto di legittimazione attiva sollevata dai resistenti Ministero della giustizia e Ministero per lo sviluppo economico nei confronti del ricorrente Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana – O.U.A., ritenuto privo della rappresentanza istituzionale degli interessi della categoria degli avvocati, che il ricorso assume lesi.

Si osserva, al riguardo, che il gravame in parola risulta proposto, oltre che da O.U.A., da ordini esponenziali della categoria forense e da singoli avvocati ad essi iscritti.

I primi sono pacificamente legittimati a difendere in sede giurisdizionale gli interessi della categoria nel suo complesso, di cui hanno la rappresentanza istituzionale, non solo quando si tratti di violazione di norme poste a tutela della professione, ma anche ogniqualvolta si tratti di perseguire comunque, come nella fattispecie, il conseguimento di vantaggi giuridicamente riferibili alla sfera della categoria stessa (tra altre, C. Stato, V, 10 novembre 2010, n. 8006; VI, 14 giugno 2004, n. 3874; V, 7 marzo 2001, n. 1339; Tar Lazio, Roma, I, 16 maggio 2005, n. 3770). I secondi sono legittimati a difendere i propri interessi legittimi.

Ne deriva che l’eccezione – come, del resto, sembrano essere ben consapevoli gli stessi eccepenti – non è comunque suscettibile di paralizzare l’esame di merito delle doglianze introdotte con il ricorso, in relazione alle quali è pacifico l’interesse ad agire degli altri ricorrenti.

Ciò posto, in punto di valutazione della legittimazione ad agire di O.U.A., il Collegio rileva che nelle proprie difese l’Organismo, pur non obliando che la Corte Costituzionale ha escluso la legittimazione di O.U.A. a rappresentare e tutelare gli interessi giuridici appartenenti alla classe forense nelle sue vesti istituzionalizzate (sentenza 21 novembre 2006, n. 390), ha invocato il suo ruolo di organo titolare della rappresentanza politica dell’intera Avvocatura italiana conferitogli dall’art. 6 dello Statuto, e si è appellato all’evoluzione interpretativa-ampliativa della nozione di legittimazione attiva nel processo amministrativo.

Si tratta di argomentazioni che, anche tenuto conto della materia investita dalla controversia, che, come rilevato dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 272/2012, attiene a giudizi (tra cui quello che occupa) nell’ambito dei quali “i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare interessi professionali della classe forense”, risultano persuasive.

L’eccezione in esame va pertanto respinta.

Parte resistente pubblica assume anche il difetto di legittimazione attiva delle associazioni degli avvocati pure ricorrenti.

Anche tale eccezione deve essere respinta, sia per quanto sopra detto in relazione a O.U.A., sia tenuto conto del pacifico principio giurisprudenziale secondo cui un’associazione professionale, se e in quanto ne sia comprovato un apprezzabile grado di rappresentatività – la cui sussistenza nella fattispecie non è stato denegato dall’eccepente – è legittimata a impugnare provvedimenti lesivi, oltre che di interessi propri, di interessi collettivi della categoria (C. Stato, V, 22 ottobre 2007, n. 5498; Tar Lazio, Roma, I, 5 dicembre 2008, n. 11015).

5.2. La parte interveniente ad opponendum costituita dall’Associazione Avvocati per la mediazione e singoli avvocati afferma che il ricorso è inammissibile per mancanza di interesse ad agire, non concretando l’atto impugnato, avente natura regolamentare, una diretta ed immediata lesione in capo ai ricorrenti.

Per lo stesso motivo, la stessa parte ritiene inammissibile gli interventi ad adiuvandum.

Analoga eccezione è stata formulata dall’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., pure intervenientead opponendum.

Al riguardo, si osserva che se, per un verso, può fondatamente dubitarsi che gli interventori in un giudizio amministrativo possano formulare autonomi mezzi di gravame, sia che intervengano ad adiuvandum sia che intervengano ad opponendum, traducendosi, in questo ultimo caso, gli stessi motivi in una sorta di ricorso “incidentale” per conto dell’autorità che ha emanato l’atto impugnato (Tar Campania, Napoli, 10 agosto 1987, n. 175), per altro verso, la questione proposta va esaminata in quanto afferisce alla verifica della sussistenza delle condizioni della interposta azione impugnatoria, rilevabili anche d’ufficio.

Si osserva, indi, nel merito della questione, che è vero che, secondo un principio consolidato in giurisprudenza amministrativa, le norme regolamentari, categoria cui è pacificamente ascrivibile l’impugnato decreto n. 180 del 2010, vanno impugnate unitamente all’atto applicativo, che rende concreta la lesione degli interessi di cui sono portatori i destinatari.

Ma la descritta regola è diretta conseguenza della natura, solitamente generale ed astratta, delle previsioni di fonte regolamentare, sicchè trova eccezione per i provvedimenti che, sia pur di natura regolamentare, presentano un carattere specifico e concreto, e sono idonei ad incidere direttamente nella sfera giuridica degli interessati: in tal caso sorge l’onere di immediata impugnazione, a decorrere dalla pubblicazione nelle forme previste dalla legge (C. Stato, V, 19 novembre 2009; IV, 17 aprile 2002, n. 2032).

Siffatta ultima evenienza si apprezza nella fattispecie, in cui il regolamento impugnato regola puntualmente e compiutamente l’iscrizione nel registro degli organismi di mediazione, con criteri che svelano un immediato e certo effetto precettivo ovvero conformativo in relazione alla posizione della platea dei soggetti interessati all’iscrizione.

Risulta, pertanto, pienamente ammissibile la domanda diretta ed autonoma di verifica giudiziale della conformità a legge dell’atto che li contiene, che risulta preordinata all’utilità consistente nell’evitarne l’efficacia cogente per ogni avente causa, in osservanza del termine decadenziale decorrente dalla sua pubblicazione, senza, cioè, che sia necessario rimandarne l’impugnazione al momento successivo dell’adozione dei conseguenti provvedimenti applicativi o esecutivi, che, del resto, non potrebbero che esplicare effetti meramente consequenziali rispetto all’atto stesso, che funge loro da indeclinabile presupposto.

Tutte le predette eccezioni sono, pertanto, da respingere.

5.3. I ricorrenti e le intervenienti ad adiuvandum Associazione degli Avvocati Romani e l’Associazione Agire e informare contestano la legittimazione a intervenire in giudizio, adopponendum, dell’Associazione Avvocati per la mediazione.

Si rammenta, sul punto, che condizione legittimante gli interventi volontari nel giudizio amministrativo è, per gli interventori ad opponendum, la titolarità di un interesse contrario a quello azionato dai deducenti, il quale potrebbe subire pregiudizio dall’annullamento dell’atto impugnato (Tar Lazio, Roma, I, 4 giugno 2007, n. 5149).

Alla luce di tale principio, nonché di quanto già rilevato al punto 5.1. in relazione alla legittimazione delle associazioni ricorrenti, l’eccezione va respinta.

5.4. Infine, ADR Center afferma che la presente controversia, nella parte in cui è diretta avverso il gravato d.m. 180/2010, risentirebbe degli effetti del successivo decreto 6 luglio 2011, n. 145, che, avendo apportato incisive modifiche al primo, avrebbe esaurito la materia del contendere.

Ulteriori modifiche al d.m. 180/2010 sono state poi apportate dal d.m. 4 agosto 2014, n. 39.

La eventuale fondatezza di tale eccezione può essere rinviata alla disamina delle singole censure svolte dalla parte ricorrente avverso il d.m. 180/2010.

6. Può indi passarsi all’esame del merito del ricorso.

7. Le due prime censure dell’atto introduttivo del giudizio possono essere così sinteticamente riassunte.

I ricorrenti lamentano che l’art. 4 del gravato regolamento 180/2010 subordini l’iscrizione degli organismi di mediazione al relativo registro alla verifica della sussistenza di parametri di tipo amministrativo-economico-finanziario (tra cui la capacità finanziaria e organizzativa, il possesso di polizza assicurativa, la trasparenza amministrativa e contabile), e di meri requisiti di qualificazione.

In particolare, parte ricorrente contesta la carenza di criteri volti a verificare i requisiti attinenti alla specifica professionalità giuridico-processuale del mediatore.

Ciò che parte ricorrente ritiene particolarmente grave, tenuto conto, per un verso, della configurazione dell’esperimento della mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle materie previste dal comma 1 (ora, dal comma 1-bis) dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010, ovvero come insopprimibile fase pre-processuale, cui altre norme del decreto assicurano effetti rinforzati, e, in quanto tale, suscettibile, in ogni suo possibile sviluppo, o di conformare definitivamente i diritti soggettivi da essa coinvolti, o di incidervi, comunque, pesantemente, anche laddove ne residui la giustiziabilità nelle sedi istituzionali e si intenda adire la tutela giudiziale, per altro verso, della mancata previsione nell’ambito del procedimento di mediazione delineato dallo stesso d.lgs. dell’obbligatorietà della difesa tecnica.

Osserva al riguardo il Collegio che le censure di cui si discute, più che evidenziare l’illegittimità del decreto 18072010 per violazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs.180/2010, sono volte a contestare la stessa disciplina normativa recata dai predetti articoli, ritenuta antinomica rispetto alla direttiva comunitaria 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE, e alla legge delega, art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69.

Come già ampiamente riferito, la Sezione ha ritenuto persuasive tali censure, rilevando anche come le stesse racchiudessero i tratti salienti dell’interesse azionato in giudizio dai ricorrenti, finalizzato sostanzialmente, per il tramite dell’impugnativa del d.m. 180/2010, allo scrutinio di costituzionalità degli artt. 5 e 16 del d.lgs. 28/10.

E infatti, con la più volte richiamata ordinanza 12 aprile 2011, n. 3202, la Sezione ha sospeso il processo e rimesso gli atti alla Corte Costituzionale per l’esame della questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, in parte, del d.lgs. n. 28 del 2010, disponenti, rispettivamente, l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie e i soli requisiti di serietà ed efficienza degli enti pubblici e privati abilitati a costituire gli organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione.

Come già detto, successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, che, accogliendo la prospettazione di cui alla predetta ordinanza, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 1 dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 e altre disposizioni a esso correlate, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, mediante l’inserimento del comma 1-bis nel corpo dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 e varie modifiche apportate sia allo stesso art. 5 che ad altre disposizioni del decreto.

La novella legislativa, rispetto all’angolo visuale in cui si è situato il ricorso, ha apportato rilevanti modifiche all’istituto della mediazione.

Basti osservare sul punto, come meglio si dirà in seguito, che se è vero che l’esperimento della mediazione è stato ancora una volta configurato quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie, comunque rivisitate rispetto alle precedenti, è altresì vero che il nuovo testo del d.lgs. 28/2010 ha prescritto l’assistenza dell’avvocato.

Inoltre, gli stessi ricorrenti, a seguito delle modifiche normative di cui sopra, hanno spiegato avverso l’art. 84 del d.l. n. 69/2013, convertito dalla l. 98/2013, le nuove doglianze di costituzionalità, di cui ai secondi motivi aggiunti.

Ne consegue che, allo stato, le censure in parola, affidate a un impianto argomentativo complessivo non più coerente con l’attuale quadro normativo, vanno dichiarate improcedibili.

8. Può quindi passarsi all’esame delle restanti doglianze dell’atto introduttivo del giudizio, ovvero a quelle rivolte direttamente avverso il d.m. 180/2010.

8.1. Con il terzo motivo (Violazione di legge – Violazione dell’art. 16 del d.lgs. 28/10 – Violazione dell’art. 60 della l. 69/09 – Erronea interpretazione – Difetto di presupposto – Eccesso di potere – Arbitrarietà – Illogicità – Sviamento) parte ricorrente afferma che l’art. 4, comma 4, del regolamento 180/2010, nel subordinare anche l’iscrizione degli organismi costituiti dai consigli dell’ordine degli avvocati nel registro degli organismi di mediazione alla presentazione di una polizza assicurativa di importo non inferiore a € 500.000,00, introduce una limitazione all’accesso all’attività di mediazione di tipo economico e finanziario che è illegittima, in quanto non prevista né dalla legge delega 69/09 né dal decreto delegato 28/10.

La previsione non è stata modificata dai decreti ministeriali 6 luglio 2011, n. 145 e 4 agosto 2014, n. 39.

Permane pertanto l’interesse dei ricorrenti all’esame della censura, che però si rivela infondata.

L’art. 16 del d.lgs. 20/2010, stabilito che “Gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, sono abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione nelle materie di cui all’articolo 2 del presente decreto. Gli organismi devono essere iscritti nel registro” (comma 1), ha demandato “La formazione del registro e la sua revisione, l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, l’istituzione di separate sezioni del registro per la trattazione degli affari che richiedono specifiche competenze anche in materia di consumo e internazionali, nonché la determinazione delle indennità spettanti agli organismi” ad appositi decreti del Ministro della giustizia, di concerto, relativamente alla materia del consumo, con il Ministro dello sviluppo economico (comma 2), amministrazioni incaricate anche della vigilanza sui registro (comma 4).

Sul tema, l’art. 16 del d.lgs. 28/2010 si è limitato a disporre al comma 3 alcune regole minime: il deposito da parte dell’organismo richiedente l’iscrizione nel registro del proprio regolamento di procedura e codice etico, di cui comunicare ogni successiva eventuale variazione; la necessaria previsione nel regolamento delle procedure telematiche eventualmente utilizzate dall’organismo, finalizzate a garantire la sicurezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati; l’obbligo del regolamento di allegare le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati, proposte per l’approvazione a norma dell’articolo 17; la valutazione da parte del Ministero della giustizia dell’idoneità del regolamento.

La legge, in punto di iscrizione nel registro degli organismi di mediazione, ha indi rimesso un evidente margine di discrezionalità alla regolazione attuativa, che, vieppiù, coerentemente con il detto presupposto, è stata affidata alle amministrazioni vigilanti sul registro.

Sotto il profilo formale, e in via generale, è pertanto poco significativo l’elemento rimarcato dai ricorrenti, ovvero che né l’art. 16 del d.lgs. 28/2010 né l’art. 60 della l. 69/09 prevedono per l’accesso al registro un parametro di tipo economico-finanziario.

Indi la sua introduzione da parte del gravato d.m. 180/2010 non è in alcun modo suscettibile di porsi in contrasto con le norme primarie che regolano la materia.

Del resto, la pretesa che gli organismi di mediazione presentino, ai fini dell’iscrizione al registro di cui trattasi, una polizza assicurativa, lungi dal costituire una limitazione all’accesso all’attività di mediazione, risponde a un chiaro criterio di opportunità, essendo evidentemente finalizzata a garantire la funzionalità dell’organismo, e, conseguentemente, a tutelare il soggetto privato, che, obbligatoriamente o volontariamente, allo stesso si affida.

Né sussistono ragioni per ritenere che il decreto 180/2010 dovesse esentare da tale onere i consigli degli ordini degli avvocati, la cui peculiare posizione rispetto alla materia della mediazione non è stata obliata dalla legge.

L’art.18 del d.lgs. 28/2010, composto da un unico comma, prevede infatti che “I consigli degli ordini degli avvocati possono istituire organismi presso ciascun tribunale, avvalendosi di proprio personale e utilizzando i locali loro messi a disposizione dal presidente del tribunale. Gli organismi presso i tribunali sono iscritti al registro a semplice domanda, nel rispetto dei criteri stabiliti dai decreti di cui all’articolo 16”.

Con la conseguenza di esentarli, ai fini dell’accesso al registro, dalle verifiche previste in via generale per gli altri organismi, ma non anche dal rispetto dei criteri stabiliti dai decreti attuativi, ivi compreso quello finanziario di cui si discute, posto a tutela dell’interesse generale di cui sopra.

8.2. Con lo stesso motivo di ricorso i ricorrenti avversano anche la disposizione transitoria di cui al comma 1 dell’art. 20 del regolamento 180/2010.

I ricorrenti lamentano che la disposizione consente l’iscrizione di diritto nel registro degli organismi di mediazione degli organismi già iscritti nel registro di cui al decreto del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222, rilevando l’arbitrarietà della previsione alla luce del d. lgs. n. 28 del 2010, che prevede l’iscrizione di diritto nel registro in parola dei soli organismi eventualmente costituiti dai consigli dell’ordine presso i tribunali.

Nelle more del giudizio, il comma 1 dell’art. 20 del regolamento 180/2010 è stato modificato dal d.m. 6 luglio 2011, n. 145.

Permane nondimeno l’interesse dei ricorrenti all’esame della censura.

Invero, l’iscrizione di diritto al registro degli organismi già iscritti nel registro previsto dal decreto del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222 è stata confermata.

Tuttavia, per effetto delle modifiche apportate alla previsione, è ora stabilito che, subito dopo l’iscrizione (e non genericamente, come prevedeva l’originaria formulazione della norma), si provvede alla verifica del possesso in capo a tali organismi dei requisiti previsti dall’articolo 4 e a comunicare agli stessi le eventuali integrazioni o modifiche necessarie. Se l’organismo ottempera alle richieste del responsabile entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, l’iscrizione si intende confermata; in difetto di tale ottemperanza, l’iscrizione si intende decaduta.

La disposizione, anche per effetto della sua rimodulazione, che ha rimarcato la natura meramente transitoria attribuita all’iscrizione di diritto di cui si discute, ulteriormente differenziandola da quella riservata ai consigli dell’ordine, non presta il fianco ai rilievi ricorsuali.

E’, invero, lo stesso art. 16, comma 2, del d.lgs. 28/2010 ad aver stabilito l’applicazione, fino all’adozione del regolamento disciplinante l’iscrizione al registro degli organismi di mediazione, poi adottato con il gravato d.m. 180/2010, delle disposizioni dei decreti del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222 e 23 luglio 2004, n. 223.

Di tali ultime previsioni è stata indi stabilita espressamente la sopravvivenza temporanea.

E, al fine di rispettare la ratio di continuità e di salvaguardia della norma primaria, tale sopravvivenza non può che perdurare sino all’effettiva messa a regime del nuovo sistema di cui al regolamento attuativo dell’art. 16 del d.lgs. 28/10, come ora previsto dalla novella.

9. Con il quarto e ultimo motivo dell’atto introduttivo del giudizio (Violazione di legge – Violazione dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 – Erronea interpretazione – Difetto di presupposto – Eccesso di potere – Sviamento) lamentano i ricorrenti che l’art. 16 del regolamento, disattendendo l’art. 17 del d. lgs. 28/2010: a) non prevede la determinazione dell’importo minimo delle indennità spettanti agli organismi di mediazione in relazione al primo scaglione e non individua il criterio di calcolo e le modalità di ripartizione tra le parti; b) non appronta i criteri per l’approvazione delle tabelle delle indennità proposte dagli organismi costituiti dagli enti privati; c) non indica le maggiorazioni massime delle indennità dovute; d) non prevede la riduzione minima dell’indennità nell’ipotesi in cui la mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

L’art. 16 del regolamento n. 180/2010 ha formato oggetto di rilevanti modifiche ad opera, prima, del d.m. 6 luglio 2011, n. 145, poi, del d.m. 4 agosto 2014, n. 39.

Tra tali modifiche basti rammentare la prevista riduzione dell’indennità per le fattispecie di ricorso obbligatorio alla mediazione [comma 4, lett. d)].

Inoltre, è ora prevista dalla legge la gratuità dell’opera prestata dall’organismo di mediazione, nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro (art. 17, comma 5-ter, d.lgs. 2872010).

Successivamente alle novelle di cui sopra, parte ricorrente non ha formulato sul punto nuove censure, né ha ribadito o rimodulato le doglianze già dedotte.

Queste ultime, per l’effetto, vanno quindi ritenute improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse.

10. Conclusivamente, l’atto introduttivo del giudizio va dichiarato in parte improcedibile e per il restante respinto.

11. Con il primo atto di motivi aggiunti i ricorrenti hanno contestato la circolare del Ministero della giustizia 4 aprile 2011, avente a oggetto “Regolamento di procedura e requisiti dei mediatori”, nella parte in cui: chiarisce che, al fine di ritenersi esperita la condizione di procedibilità, l’unico soggetto legittimato a redigere il verbale di esito negativo della mediazione è il mediatore (e non la segreteria dell’organismo di mediazione); precisa alcuni elementi relativi ai requisiti dei mediatori.

Avverso tali previsioni i ricorrenti hanno formulato le seguenti doglianze.

1) Violazione di legge – Violazione dell’art. 60 della l. 69/09 – Erronea interpretazione – Eccesso di potere – Difetto di presupposto – Illogicità – Arbitrarietà – Contraddittorietà.

2) Violazione di legge – Violazione dell’art. 16 del d.lgs. 28/10 – Violazione dell’art. 60 della l. 69/09 – Erronea interpretazione – Eccesso di potere – Difetto di presupposto – Illogicità – Arbitrarietà – Contraddittorietà.

Secondo i ricorrenti, la previsione sub a) è affetta dai profili di illegittimità costituzionale già sollevati in relazione all’art. 5 del d.lgs. 28/10, mentre la previsione sub b), al pari di quelle contenute nel regolamento, non consente di individuare una specifica competenza dei mediatori in ordine alla funzione loro assegnata.

I ricorrenti hanno indi domandato anche l’annullamento della predetta circolare.

11.1. Con l’atto gravato il Ministero della giustizia ha ritenuto necessario, in sede di concreta attuazione dell’attività di tenuta del registro degli organismi di mediazione, dare specifica indicazione su alcuni profili problematici inerenti la corretta applicazione delle previsioni contenute nel d.lgs. 28/2010 e nel d.m. 180/2010.

Tra tali chiarimenti si collocano quelli avversati dalla parte ricorrente con l’odierno gravame.

Al riguardo, il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi dal precedente della Sezione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da altro ricorrente avverso la stessa circolare (Tar Lazio, I, 7 febbraio 2014, n. 1507).

Deve quindi anche qui essere rilevato che, come emerge dal titolo dell’atto gravato e come anche fatto palese dal contenuto dello stesso, i mezzi aggiunti in esame sono diretti avverso una vera e propria circolare amministrativa, ovvero avverso un atto privo di qualsiasi valenza provvedimentale.

Tant’è che la circolare, nell’invitare gli organismi di mediazione ad adeguarsi a quanto in essa contenuto, definisce le prescrizioni recate “linee guida”, che l’organo intende seguire al fine del compiuto esercizio della propria attività di vigilanza, preventiva e successiva.

Tanto chiarito, si osserva che, secondo la giurisprudenza amministrativa, che inizialmente ha riflettuto soprattutto sulle circolari riguardanti la materia del diritto tributario, così pervenendo all’elaborazione di principi di carattere generale, poi traslati in tutti i campi del diritto amministrativo, le disposizioni contenute in una circolare non possono condizionare il giudice nell’interpretazione delle norme che disciplinano una fattispecie.

È invero ormai pacifico che le circolari amministrative, in quanto atti di indirizzo interpretativo, non sono vincolanti per i soggetti estranei all’amministrazione, mentre per gli organi destinatari esse sono vincolanti solo se legittime, potendo essere disapplicate qualora contra legem (C. Stato, V, 15 ottobre 2010, n. 7521); le circolari amministrative sono atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all’amministrazione; una circolare amministrativa contra legem può essere disapplicata anche d’ufficio dal giudice investito dell’impugnazione dell’atto che ne fa applicazione (C. Stato, IV, 21 giugno 2010, n. 3877).

Consegue a tali conclusioni l’inammissibilità del ricorso.

Invero, alla luce delle predette coordinate ermeneutiche, parte ricorrente non risulta avere alcun interesse concreto e attuale all’impugnazione, e all’auspicata eliminazione dal mondo giuridico, della circolare in parola.

Del resto, gli stessi ricorrenti, affermato che l’atto non ha natura provvedimentale (pag. 5 dei mezzi aggiunti), si limitano a ribadire che la circolare partecipa delle stesse illegittimità già dedotte avverso l’art. 5 del d.lgs. 28/10 e il regolamento 180/2010, con ciò evidenziando che la stessa, ex se considerata, è insuscettibile di arrecare all’organismo una qualche lesione giuridicamente rilevante, ovvero connotata dai caratteri della concretezza e dell’attualità.

I primi mezzi aggiunti in esame vanno, pertanto, dichiarati inammissibili per carenza di interesse ad agire.

12. Come ampiamente sopra riferito, con pronunzia n. 272 del 2012 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., e di una serie di disposizioni dello stesso decreto a esso strettamente correlate.

In particolare, il Giudice delle leggi, al fine di verificare il rispetto dei principi posti in sede di emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010, ha rilevato come né la direttiva comunitaria 2008/52/CE sopra illustrata, né gli altri atti comunitari presi in considerazione dalla pronunzia, né, infine, la legge delega pure illustrata (art. 60 della legge n. 69 del 2009), esplicitassero in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione assunto dal menzionato art. 5, comma 1, della legge delegata.

Successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84, comma 1, lett. b), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che, mediante l’inserimento del comma 1-bis e altre modifiche apportate sia all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che ad altre disposizioni della legge, ha nuovamente regolamentato l’esperimento della conciliazione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie.

Mediante il secondo atto di motivi aggiunti parte ricorrente ha formulato anche avverso il novellato art. 5 del d.lgs. 28/2010 censure di illegittimità costituzionale, che si passa indi a esaminare.

13. Parte ricorrente assume che la ridetta novella violi l’art. 77 Cost..

In particolare, i ricorrenti sostengono l’incompatibilità dell’introduzione a regime del nuovo sistema di accesso alla giustizia con lo strumento del decreto-legge, stante la carenza del carattere di straordinaria necessità e urgenza che ne legittima l’utilizzo, carenza che ritiene testimoniata dalla previsione che la nuova disposizione si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto (art. 84 del “decreto del fare”).

La censura non persuade.

13.1. Va, al riguardo, considerato primariamente come la Sezione, nell’ordinanza di remissione 3202/2011 più volte citata, non abbia mai dubitato della possibilità, insita nella già illustrata direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE [espressamente finalizzata a facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e a promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario (art. 1, comma 1)], concessa agli Stati membri:

– di estendere, o meno, il campo di applicazione delle disposizioni comunitarie sulla mediazione in materia civile e commerciale da quello privilegiato, costituito dalle controversie transfrontaliere ai “procedimenti di mediazione interni” (ottavo considerando e art. 1);

– di renderlo, o meno, obbligatorio (art. 5, comma 2: “La presente direttiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario”).

La Sezione ha, piuttosto, rilevato che il grado di valorizzazione della mediazione, quale strumento tendenzialmente generale di risoluzione delle controversie, mediante l’esercizio delle predette opzioni discrezionali estensive dell’istituto – comportante, la prima, la scelta di renderla applicabile a rapporti che ricadono interamente nell’ambito degli ordinamenti interni degli Stati membri, la seconda, la scelta di renderla obbligatoria e in quale misura – inerisse, attenendo ai massimi livelli del sistema nazionale del settore “giustizia” in materia civile, secondo le attribuzioni proprie dell’ordinamento nazionale vigente, alla fonte normativa primaria [art. 111 Cost.; art. 117, lett. l) e m) Cost.].

La Sezione ha negato, quindi, e a ragione (come attestato dalla sentenza costituzionale n. 272/2012) che la seconda di tali scelte potesse essere legittimante esercitata dal Governo in sede di legge delegata (d.lgs. 28/2010), in assenza nella legge delega (art. 60, l. n. 69 del 2009) di uno specifico principio e criterio direttivo.

Nel tema ora in discussione si versa in una fattispecie completamente diversa.

Non vi è dubbio, invero, che la scelta di rendere obbligatoria la mediazione nelle materie delineate dal nuovo comma 1-bisdell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 sia stata ora compiuta in esercizio di funzione legislativa, e ciò sia in sede di adozione del decreto-legge n. 69 del 2013, sia in sede di conversione del decreto con la l. n. 989 del 2013.

Tanto premesso, e passando alla questione, posta dai ricorrenti, se lo strumento della decretazione d’urgenza sia idoneo a normare la materia, deve rammentarsi che la Corte Costituzionale, con giurisprudenza costante sin dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità.

Tuttavia, la Corte Costituzionale (sentenza n. 171 del 2007) ha al riguardo chiarito che il relativo giudizio non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento, in sede di conversione, dovendosi svolgere su un piano diverso, con la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela dei quali detto compito è predisposto, con l’effetto di riconoscere ai requisiti di necessità e urgenza cui l’art. 77 Cost. subordina il potere straordinario del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie comporta l’inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità.

In tal modo il Giudice delle leggi ha ritenuto, per un verso, che la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi, per altro verso, che l’eventuale difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, debba risultare evidente.

Nella specie, la Sezione non ravvisa nella fattispecie in esame l’evidenza richiesta per sollevare nuovamente la questione di costituzionalità della mediazione obbligatoria, dedotta dai ricorrenti.

Invero, non può essere fondatamente posto in dubbio come il riconoscimento, da parte della sentenza della Corte Costituzionale n. 272/2012, dell’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., ovvero per l’accertata carenza nella legge delega di cui all’art. 60 della l. 69/09 di criteri e principi direttivi legittimanti tale scelta da parte del legislatore delegato, abbia frustrato le chiare finalità deflattive del contenzioso giudiziario che il legislatore delegato ha riconnesso all’intero sistema delineato dallo stesso d.lgs. 28/2010.

E ciò in un contesto di nota evidenza della necessità di riforme in materia di giustizia civile, sottolineato anche dalla “Raccomandazione del Consiglio [Europeo, n.d.r.] sul programma nazionale di riforma 2013 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul programma di stabilità dell’Italia 2012-2017” del 29 maggio 2013.

Tale raccomandazione, invero:

– all’undicesimo considerando, ha rilevato come “Per migliorare il contesto in cui operano le imprese occorre completare la riforma della giustizia civile dando rapidamente attuazione alla riorganizzazione dei tribunali, abbreviando la durata eccessiva dei procedimenti e riducendo il volume dell’arretrato e il livello di contenzioso”, ritenendo specificamente che “A seguito della sentenza della Corte costituzionale dell’ottobre 2012 sulla mediazione, è necessario intervenire per promuovere il ricorso a meccanismi extragiudiziali di risoluzione delle controversie”;

– al punto 2, ha raccomandato all’Italia di “abbreviare la durata dei procedimenti civili e ridurre l’alto livello di contenzioso civile, anche promuovendo il ricorso a procedure extragiudiziali di risoluzione delle controversie.

E’ parimenti indubitabile che gli organismi di mediazione venuti a esistenza e iscrittisi nel registro degli organismi di mediazione nel non breve periodo decorrente tra l’entrata in vigore del d.lgs. 28/10, e segnatamente dell’art. 5 vecchia formulazione, e la pronunzia del Giudice delle leggi n. 272 del 2012, si siano necessariamente strutturati sulla base di tutte le previsioni originarie del decreto, ivi comprese quelle relative all’obbligatorietà della mediazione in determinate materie, risultando, in tal modo, interamente portata a compimento l’organizzazione cui il legislatore delegato intendeva far ricorso, anche coattivo, per introdurre la detta modalità di risoluzione delle controversie alternativa al sistema giudiziario.

Applicando a tale contesto le predette coordinate ermeneutiche, deve riconoscersi la sussistenza di quella straordinarietà del caso, tale da legittimare, ai sensi dell’art. 77, come interpretato dalla Corte Costituzionale, la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito.

Nulla muta, al riguardo, considerando che previsione che l’art. 84 del “decreto del fare” ha previsto che la novella si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto.

Si tratta, infatti, per un verso, di una opportuna disposizione di cautela, che rimanda alla conversione del decreto-legge l’operatività del sistema introdotto.

Non va invero dimenticato che, come già precedentemente riferito, pendente il giudizio conclusosi con la sentenza 272/2012 dinnanzi al Giudice delle leggi, con d.l. 22 dicembre 2011, n. 212 (art. 12, comma 1, lett. a), il Governo aveva tentato di modificare in alcune parti la formulazione originaria dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, ma tale modifica non è stata confermata dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10.

Per altro verso, poi, la disposizione è inidonea a confermare l’assunto dei ricorrenti in ordine alla insussistenza dell’urgenza, atteso che, in ogni caso, il “decreto del fare”, approvato il 21 giugno 2013, non avrebbe comunque potuto determinare l’immediata ripresa della mediazione, stante la sospensione feriale dei termini giudiziari e l’eventualità che gli organismi di mediazione necessitassero, successivamente alla ridetta sentenza n. 272/2012, di una ripartenza organizzativa.

14. Parte ricorrente ha formulato verso la stessa novella anche censure di illegittimità costituzionale in riferimento all’art. 24 Cost., sotto il profilo della lesione all’accesso alla giustizia e alla frapposizione di ostacoli al diritto di difesa in giudizio.

14.1. Anche tali doglianze non persuadono.

Si rammenta che la Corte Costituzionale, nella ridetta sentenza 272/2002, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010, per contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., ha assorbito ogni questione relativa alla eventuale incostituzionalità della mediazione obbligatoria per violazione dell’art. 24 Cost..

La questione, quindi, è aperta, e non può che essere affrontata alla luce delle novelle apportate in materia dal “decreto del fare”.

Si è già infatti anticipato che la nuova mediazione obbligatoria introdotta dall’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. 28/2010, per effetto delle complessive modifiche apportate alla disposizione e al decreto legislativo nel suo complesso, è profondamente difforme dalla precedente.

E’ peraltro anche vero che la stessa si caratterizza per la presenza di numerose discrepanze.

Ne costituiscono esempio le contraddizioni ravvisabili nel testo di legge in punto di assistenza dell’avvocato nella procedura di mediazione.

Essa va ritenuta senz’altro obbligatoria ai sensi del comma 1 dell’art. 8, stante l’inequivocabile formulazione letterale della norma e la circostanza che l’art. 8 è precipuamente dedicato al procedimento di mediazione, con la conseguente centralità sul punto della disposizione, che, però, non coincide perfettamente né con l’art. 5, comma 1-bis, che riferisce l’assistenza dell’avvocato al mero atto di impulso della conciliazione obbligatoria, né con l’art. 12, comma 1, che prevede che solo ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

Tali contraddizioni, peraltro, potranno essere risolte in sede di rivisitazione del testo del decreto delegato 28/2010, già programmato. L’art. 5, comma 1-bis, chiarisce, infatti, che “La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione”.

Ma, anche tenuto conto di quanto appena sopra, è certo che non sono riproducibili nei confronti della “nuova” conciliazione obbligatoria quei rilievi critici cui aveva dato luogo il previgente sistema, poggianti sul combinato disposto di alcune previsioni, poi modificate, che hanno fatto fondatamente dubitare della suscettibilità della “vecchia” mediazione obbligatoria di consentire l’esercizio effettivo del diritto di difesa in giudizio e la possibilità di condurre a una composizione delle controversie in conformità all’alto rango dei principi che caratterizzano la materia nell’ordinamento nazionale vigente.

Basti, infatti, osservare che:

– le materie per cui la mediazione è obbligatoria e costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale sono state rivisitate in senso diminutivo, non essendovi più tra le stesse il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti (art. 5, comma 1-bis);

– la condizione di procedibilità è ora assolta senza che sia necessario esperire un vero e proprio tentativo di conciliazione, ovvero con la mera partecipazione a un primo incontro (art. 5, comma 2-bis);

– nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, da svolgersi non oltre trenta giorni dalla domanda di mediazione (art. 8, comma 1), nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione (art. 17, comma 5-ter);

– si prevede l’assistenza dell’avvocato per promuovere la conciliazione obbligatoria (art. 5, comma 1-bis);

– si prevede l’assistenza dell’avvocato fino al termine della procedura (art. 8, comma 1);

– la proposta del mediatore interviene soltanto all’avverarsi delle relative condizioni, dopo il primo incontro, nell’ambito del quale il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione e invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione, procedendo nel caso positivo (art. 8, comma 1);

– solo ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12, comma 1);

– al fine di sottrarsi alle conseguenze pregiudizievoli, in tema di argomenti di prova e di sanzioni, derivanti nel successivo giudizio dalla mancata partecipazione al procedimento di mediazione laddove obbligatorio, possono essere addotti giustificati motivi (art. 8, comma 4-bis);

– gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori (art. 16, comma 4-bis).

A ciò si aggiunga che le modifiche medio tempore apportate al d.m. 180/2010 hanno rafforzato la qualità del servizio di mediazione.

Basti richiamare, al riguardo, le nuove disposizioni ora vigenti in tema di formazione, aggiornamento e tirocinio dei mediatori (art. 4), nonché la prescrizione che il regolamento dell’organismo di mediazione contenga criteri inderogabili per l’assegnazione degli affari di mediazione predeterminati e rispettosi della specifica competenza professionale del mediatore designato, desunta anche dalla tipologia di laurea universitaria posseduta [art. 7, comma 5, lett. e)].

Considerazioni tutte, queste appena elencate, che fanno escludere che il sistema in esame, allo stato vigente, possa sostanziare il pericolo di una indebita restrizione dell’accesso alla giustizia, ravvisabile (e ravvisato dalla Sezione con l’ordinanza 3202/11) in occasione dell’esame delle originarie formulazioni del d.lgs. 29/2010 e del d.m. 180/2010 .

15. Le questioni di legittimità costituzionale spiegate dai ricorrenti avverso l’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010, come modificato nelle more del giudizio dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 79, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost. risultano, per quanto sopra, infondate.

I secondi motivi aggiunti devono, pertanto, essere respinti.

16. In definitiva, le doglianze di cui al ricorso e ai motivi aggiunti in esame vanno dichiarate in parte improcedibili, in parte inammissibili e per il restante respinte.

L’andamento della controversia, la complessità e la novità delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione tra le parti costituite delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe, lo dichiara in parte improcedibile, in parte inammissibile e per il restante lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dell’8 ottobre e del 17 dicembre 2014, con l’intervento dei magistrati:

Luigi Tosti, Presidente

Anna Bottiglieri, Consigliere, Estensore

Ivo Correale, Consigliere

Depositata il 26/01/2015

adr intesa ente di formazione per mediatori civili riconosciuto dal ministero della giustizia

ADR Intesa sottoscrive la lettera a Renzi e Orlando dopo la sentenza del TAR

A seguito della sentenza del TAR del 23 gennaio, mediatori e Organismi di mediazione, probabilmente al culmine della pazienza dopo aver vissuto sulla propria pelle le incredibili resistenze che l’istituto della mediazione ha subito e sta subendo nella sua affermazione in Italia (quando in Europa è considerato un istituto fondamentale, di successo e di civiltà), si sono spontaneamente uniti in un Comitato attraverso il quale hanno diffuso una lettera rivolta al Presidente del Consiglio Matteo Renzi e al Ministro della Giustizia Andrea Orlando. ADR Intesa aderisce al Comitato e pubblica di seguito la lettera:

Ecc.mo Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri

Dott. Matteo Renzi

Ecc.mo Sig. Ministro della Giustizia

Dott. Andrea Orlando

Il Coordinamento Unione Organismi e Mediatori è un comitato spontaneo di rappresentanti di organismi di mediazione, mediatori e formatori, nato a seguito della pronuncia del T.A.R. Lazio – Prima Sezione – N. 11235/2010 REG.RIC., con la quale è stato abolito l’obbligo a carico delle parti di corrispondere agli Organismi di Mediazione le spese di avvio della procedura (pari ad € 40,00/80,00 oltre I.V.A.) all’atto di presentazione di un’istanza di mediazione.

Con lo stesso provvedimento è stato abolito l’obbligo di formazione continua dei mediatori e di svolgere i tirocini assistiti.

L’abolizione delle spese di avvio comporta un notevole nocumento agli Organismi di Mediazione pubblici e privati, in quanto la già esigua somma che le parti coinvolte nel procedimento erano tenute a versare, costituiva il minimo corrispettivo dovuto per la fornitura di un servizio di pubblica utilità richiesto dallo Stato e dalla Unione Europea. Gli Organismi italiani non hanno alcuna altra entrata, visto che dallo Stato non ricevono aiuto economico. Ma la Mediazione non è solo un adempimento che gli Organismi si sono assunti a seguito del recepimento di una direttiva europea: è uno strumento di civiltà che, oltre a sortire notevoli effetti sulle relazioni sociali e sul deflazionamento del carico dei tribunali, genera anche un notevole risparmio economico per l’Amministrazione della giustizia, creando contestualmente notevoli entrate a favore del bilancio dello stato, in termini di I.V.A., di IRPEF a carico dei professionisti coinvolti e di IRES gravante delle società che la gestiscono, il tutto in in un settore che sta fornendo un notevole contributo alla deflazione del carico degli uffici giudiziari e che rappresenta un ambito di civiltà giuridica e sociale.

Infatti, molto spesso, le parti in conflitto trovano nella Mediazione un modo per definire controversie che, da un lato avrebbero intasato i tribunali e dall’altro avrebbero ingenerato notevoli problematiche personali e relazionali.

Per tutti questi motivi, riteniamo che urga che il governo emani, in tempi assolutamente brevi, un decreto legge di modifica dell’art. 17, comma 5-ter, del d.lgs. 28/2010, il quale prescrive che:

“Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.

Si ricorda alle SS.VV. che la gratuità della mediazione presenta profili di incostituzionalità per palese violazione dell’art. 36 della Costituzione, in quanto per potersi svolgere la procedura, occorre la nomina di un Mediatore che, per effetto di tale nefasta norma, dovrebbe essere costretto a lavorare senza percepire retribuzione alcuna.

Da ciò si evince che, alla luce della citata Sentenza, si è andata a determinare una situazione di estrema gravità che va immediatamente sanata.

Stanti tali premesse, il Coordinamento chiede formalmente e fermamente che venga introdotta la seguente modifica all’art. 17 comma 5-ter del novellato decreto 28/2010:

Dopo la parola mediazione, che chiude il comma 5-ter, aggiungere il seguente periodo: “Restano salve e dovute le spese vive sostenute dall’Organismo al fine di consentirgli di svolgere efficacemente il servizio di Mediazione. Tali spese , quantificate forfettariamente, sono dovute, a titolo di rimborso, da ciascuna parte per lo svolgimento del primo incontro per un importo pari ad euro 40,00 per le liti di valore fino a 250.000,00 e pari ad euro 80,00 per quelle di valore superiore, oltre alle spese vive documentate che sono versate dall’istante al momento del deposito della domanda di mediazione e dalla parte chiamata alla mediazione al momento della sua adesione al procedimento”.

In ogni caso, in seguito e per effetto della Sentenza de quo, gli organismi di Mediazione sono inibiti a svolgere le procedure e si troveranno costrette a rifiutare depositi effettuati a titolo gratuito.

Per evitare ciò il Ministero della Giustizia, in alternativa alle modifiche legislative su esposte, deve rendersi garante dello svolgimento delle procedure, rimborsando agli Organismi le spese sostenute o attribuendo tutti i costi a parte attivatrice, la quale potrà decurtarli dalle spese per il Contributo Unificato dell’eventuale futuro giudizio.

Invitiamo, pertanto, le SS.VV. ad un incontro “de visu”, da realizzarsi nel più breve tempo possibile al fine di poter spiegare meglio le nostre ragioni e migliorare insieme un istituto giuridico che ha il pregio di sortire esclusivamente vantaggi a favore di tutti i soggetti coinvolti.

Si resta, pertanto, a disposizione per concertare qualsivoglia miglioramento dell’istituto che codesto Governo volesse apportare, ma si rimarca fortemente che in assenza delle spese di avvio della mediazione e delle spese vive sostenute dagli Organismi, non potrà a breve essere garantito più alcun servizio ai cittadini.

Il Comitato Unione Organismi e Mediatori

 

mediazione obbligatoria conciliazione

Tribunale di Firenze, II sezione civile, sentenza 13 gennaio 2015

Commento

Il Tribunale di Firenze, con la pronuncia in esame, statuisce che il patrocinio a spese dello Stato è esteso, a favore degli avvocati, anche all’assistenza prestata in sede di mediazione civile.

Si tratta di una sentenza di particolare interesse, non solo perchè risolve in via interpretativa una obiettiva lacuna presente nella legislazione vigente, ma anche e soprattutto per l’ampiezza ed il respiro delle argomentazioni contenute nell’apparato motivazionale.

Nel caso di specie, l’avvocato G. aveva proposto istanza volta ad ottenere la liquidazione dei compensi inerenti all’attività professionale svolta a favore della parte S.C., ammessa al gratuito patrocinio con delibera 10.09.2014 del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze.

Da rilevare che l’istante, che intendeva iniziare una causa in materia di usucapione – quindi in materia soggetta all’obbligatorietà del tentativo di mediazione – aveva precisato che la propria richiesta riguardava anche detta (necessaria) fase, con riferimento alle relative competenze legali.

La mediazione si concluse con esito positivo: pertanto, l’avvocato G. chiede la liquidazione dei compensi maturati in virtù dell’attività di assistenza svolta, per l’appunto, nel procedimento di mediazione ante causam.

La questione che si pone è chiara: se il compenso professionale dell’avvocato che ha assistito in mediazione, prevista come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, una parte ammessa al gratuito patrocinio possa essere posto a carico dello Stato.

La questione non è espressamente disciplinata dalla normativa vigente. Infatti, l’art. 17, co. 5 – bis, D.lgs 28/2010, prevede che “Quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del presente decreto, all’organismo non è dovuta alcuna indennità dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ai sensi dell’articolo 76 (L) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni. A tale fine la parte è tenuta a depositare presso l’organismo apposita dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la cui sottoscrizione può essere autenticata dal medesimo mediatore, nonché a produrre, a pena di inammissibilità, se l’organismo lo richiede, la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato”.

Come si vede, l’unica disposizione inerente alla questione in esame riguarda l’indennità che sarebbe dovuta all’Organismo di mediazione; per quanto concerne il compenso dell’avvocato, che ai sensi degli artt. 5 e 8 D.lgs 28/2010 deve assistere le parti nel procedimento, non si può che rilevare una lacuna, che deve quindi essere colmata in via interpretativa.

Il quadro normativo da prendere in considerazione, muovendo ovviamente dall’art. 24, co. 2 e 3 Cost., è costituito innanzitutto dagli artt. 74 e 75 D.p.r. 115/2002. Il primo prevede l’istituzione del gratuito patrocinio per il non abbiente con riguardo ad ogni forma di giudizio, il secondo, nel secondo comma, stabilisce che  “L’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse”.

Ciò premesso, il Tribunale rileva che secondo l’orientamento tradizionale, “…poiché le norme fanno riferimento al processo, si ritiene impossibile far rientrare nel gratuito patrocinio l’attività stragiudiziale: se anche vi fosse l’ammissione da parte del Consiglio dell’ordine, non sarebbe comunque possibile la liquidazione a spese dello Stato.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24723 del 23.11.2011, ha riaffermato che il patrocinio a spese dello Stato riguarda esclusivamente la difesa in giudizio non potendo coprire l’attività stragiudiziale. Con la pronuncia, tuttavia, la Corte, richiamando un proprio precedente, fa salva una nozione estesa di attività giudiziale perché afferma che devono considerarsi giudiziali anche quelle attività stragiudiziali che, essendo strettamente dipendenti dal mandato alla difesa, vanno considerate strumentali o complementari alle prestazioni giudiziali, cioè di quelle attività che siano svolte in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentanza e la difesa in giudizio (sulla base di tale presupposto, nella precedente decisione, era stato riconosciuto dovuto il compenso per l’assistenza e l’attività svolta dal difensore per la transazione della controversia instaurata dal medesimo).

Anche di recente, la pronuncia della S.C. del 19 aprile 2013, n. 9529 riconferma l’orientamento ricordato: l’attività professionale di natura stragiudiziale che l’avvocato si trovi a svolgere nell’interesse del proprio assistito, non è ammessa, di regola, al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell’art. 85 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in quanto esplicantesi fuori del processo, per cui il relativo compenso si pone a carico del cliente. Tuttavia, se tale attività venga espletata in vista di una successiva azione giudiziaria, essa è ricompresa nell’azione stessa ai fini della liquidazione a carico dello Stato ed il professionista non può chiederne il compenso al cliente ammesso al patrocinio gratuito, incorrendo altrimenti in responsabilità disciplinare”.

Quest’ultima cauta apertura può ovviamente coordinarsi con le previsioni di cui al D.lgs 28/2020, in quanto laddove il giudizio, rispetto al quale la mediazione si ponga quale condizione di procedibilità, inizi o prosegua, l’attività dell’avvocato ben potrà essere ricompresa nella nozione di attività giudiziale in senso lato accolta dalla Suprema Corte, ossia di “attività strumentale alla prestazione giudiziale e svolta in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentazione e difesa in giudizio”.

Più arduo appare, invece, il caso in cui la mediazione abbia portato alla conciliazione delle parti: in detta ipotesi, infatti, secondo alcuni non si svolgerebbe alcuna “fase processuale” nell’ambito della quale liquidare il compenso e non sarebbe quindi possibile considerare il compenso per il difensore che ha assistito la parte in mediazione a carico dello Stato.

Sul punto, da un lato si giungerebbe ad un paradosso, dal momento che “…la liquidazione a spese dello Stato non troverebbe applicazione proprio quando il difensore meglio le sue prestazioni professionali, favorendo il raggiungimento dell’accordo in mediazione. E ciò la liquidazione a spese dello Stato non troverebbe applicazione proprio quando il difensore ha svolto al anche se la mediazione è obbligatoria, come obbligatoria è l’assistenza dell’avvocato”. Dall’altro, però, “…liquidare a carico dello Stato un compenso non previsto da alcuna norma esporrebbe il giudice al rischio della responsabilità contabile”.

In sostanza, quindi: certamente si pone l’esigenza di riconoscimento e di remunerazione dell’attività di assistenza svolta dall’avvocato; certamente, stante il vincolo della solidarietà, si potrebbe in teoria onerare del debito del non abbiente l’altra parte del procedimento o l’avvocato che la assiste, giusta l’art. 13, co. 8, L. 247/2012; tuttavia, così opinando, si finirebbe pur sempre con il riversare su un privato una spesa  che dovrebbe essere sostenuta dallo Stato. Proprio perchè l’ordinamento mostra sempre più favore per le forme di ADR, anche la disciplina dell’aiuto ai non abbienti non dovrebbe più essere limitata all’aiuto nella sede giudiziaria.

Secondo il Giudice, quindi, in un quadro come quello sopra delineato, l’unica strada è quella di una valutazione del “…movimento europeo di vasto respiro in cui si inscrivono gli interventi ricordati (al di là della loro concreta disciplina) e approfondire l’esegesi delle norme che vengono in campo per verificare la possibilità, già in base alla legislazione esistente, che la parte non abbiente possa usufruire dell’aiuto statale anche quando alla mediazione, dato l’esito positivo, non faccia seguito il processo”.

Detta ricostruzione induce il Giudice a “…ritenere che l’art. 75 sopra citato comprenda sempre la fase della mediazione obbligatoria pre-processuale”.

Ciò in base ad una pluralità di considerazioni.

Innanzitutto, secondo il Tribunale, “…la conclusione accolta trova elementi di sostegno nell’ambito del diritto eurounitario (a partire dall’art. 47 della c.d. Carta di Nizza, secondo cui <<a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia>>) e della disciplina con cui l’Italia ha recepito la direttiva europea sul Legal aid, volta a migliorare l’accesso alla giustizia nelle controversie frontaliere civili (Direttiva 2002/8/CE del Consiglio del 27/1/2003). L’art. 3 di tale direttiva recita: Art. 3. Diritto al patrocinio a spese dello Stato. 1. La persona fisica, che sia parte in una controversia ai sensi della presente direttiva, ha diritto a un patrocinio adeguato a spese dello Stato che le garantisca un accesso effettivo alla giustizia in conformità delle condizioni stabilite dalla presente direttiva. 2. Il patrocinio a spese dello Stato è considerato adeguato se garantisce: a) la consulenza legale nella fase precontenziosa al fine di giungere a una soluzione prima di intentare un’azione legale; b) l’assistenza legale e la rappresentanza in sede di giudizio, nonché l’esonero totale o parziale dalle spese processuali, comprese le spese previste all’articolo 7 e gli onorari delle persone incaricate dal giudice di compiere atti durante il procedimento. La direttiva estende il legal aid alle procedure stragiudiziali (art. 10).

Il d.lgs. 27.5.2005, n. 116, che ha recepito la direttiva, prevede all’art. 10 che <<Il patrocinio è, altresì, esteso ai procedimenti stragiudiziali, alle condizioni previste dal presente decreto, qualora l’uso di tali mezzi sia previsto come obbligatorio dalla legge ovvero qualora il giudice vi abbia rinviato le parti in causa>>.

Si tratta di disposizioni che concernono le controversie transfrontaliere, ma che offrono elementi ulteriori per avvalorare l’interpretazione qui accolta che estende l’aiuto legale alla fase pre-processuale, apparendo del tutto irrazionale e non conforme all’art. 3 della costituzione che il cittadino possa usufruire dell’aiuto statale per la lite transfrontaliera e non per quella domestica”.

Inoltre, va osservato che il “condizionamento della giurisdizione” può ritenersi ammissibile laddove “…non comprometta l’esperimento dell’azione giudiziaria che può essere ragionevolmente limitato, quanto all’immediatezza, se vengano imposti oneri finalizzati a salvaguardare <<interessi generali>>: la sentenza della Corte Cost. n. 276/2000 in tema di tentativo obbligatorio di conciliazione per le cause di lavoro[4], ha affermato che il tentativo in questione soddisfaceva l’interesse generale sotto due profili: da un lato, perché evitava il sovraccarico dell’apparato giudiziario, dall’altro, perché favoriva la composizione preventiva della lite che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito attraverso il processo. In sintonia con la nostra Corte costituzionale, anche l’importante decisione della Corte Giustizia eu 18.3.2010, Alassini c. Telecom (che indica le condizioni per ritenere conforme al diritto comunitario il tentativo obbligatorio di conciliazione, nella specie in tema di telecomunicazioni), afferma, tra l’altro, che <<i diritti fondamentali non si configurano come prerogative assolute, ma possono soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti>> (cfr. par. 63 della sentenza).

Sulla base di queste considerazioni, deve reputarsi che la connessione tra fase mediativa e processo, talmente forte da configurare una condizione di procedibilità, vada riconosciuta già in astratto. Non appare rilevante dunque che poi, in concreto, in base cioè al concreto risultato della mediazione, il processo non abbia più luogo perché divenuto inutile alla luce dell’accordo raggiunto”.

Infine, non va sottaciuto il fatto che una parte della dottrina abbia riconosciuto natura “paragiurisdizionale” alla mediazione, rilevando come l’obbligatorietà della stessa comporti il suo inserimento in un unico “macro-procedimento” finalizzato alla tutela dei diritti (disponibili). Ed è interessante richiamare un’affermazione della Corte costituzionale (sent. 178/2010), sia pure in un obiter dictum, nell’ambito di una pronuncia relativa a diversa materia: la Corte ha avuto modo di affermare che il procedimento di mediazione obbligatoria previsto dal d.lgs. n. 28/2010, “…rientra nell’esercizio della funzione giudiziaria e nella sfera del diritto civile, giacché, con riferimento al caso di specie, condiziona l’esercizio del diritto di azione finalizzato al risarcimento dei danni da responsabilità civile e prevede ricadute negative per chi irragionevolmente abbia voluto instaurare un contenzioso davanti al giudice, nonostante fosse stata formulata una proposta conciliativa rivelatasi successivamente satisfattiva delle proprie ragioni”.

Pur ritenendo il Giudice “…improprio qualificare tout court la mediazione come attività para-giurisdizionale o giudiziaria, è tuttavia corretto porre in risalto – anche – la sua stretta relazione con il processo, quando sia prevista come obbligatoria”.

In definitiva, pertanto, il Tribunale fiorentino, sulla base di un’interpretazione sistematica e teleologica, afferma che l’art. 75 D.p.r. 115/2002, “…secondo cui l’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse, comprenda la fase della mediazione obbligatoria pre-processuale anche quando la mediazione, per il suo esito positivo, non sia seguita dal processo. Si tratta infatti di una procedura strettamente connessa al processo, dal momento che condiziona la possibilità avviarlo (o proseguirlo, per la mediazione demandata dal giudice); d’altronde nel caso di successo della mediazione, si realizza il risultato migliore non solo per le parti, ma anche per lo stato che non deve sostenere anche le spese del giudizio.

Tale conclusione inoltre è conforme alla direttiva europea sul Legal Aid ed è costituzionalmente orientata (art. 3 Cost.), perché sarebbe irragionevole prevedere il sostegno dello stato per i casi di mediazione non conclusa con accordo e seguita da processo e negarla per i casi di mediazione, condizione di procedibilità, non seguita dal processo per l’esito positivo raggiunto”.

In sintesi, dunque, ancorare il gratuito patrocinio al solo concetto di giudizio stricto sensu inteso, appare il risultato di una visione superata nella quale unicamente la giurisdizione dello Stato era fonte di giustizia. A tale proposito, in una prospettiva de jure condendo, il Giudice osserva che il legislatore dovrebbe ripensare il sistema del gratuito patrocinio, alla luce delle norme comunitarie, in relazione alle ipotesi di mediazione facoltativa e di negoziazione assistita; ma, con riferimento alla mediazione obbligatoria, tematica che investe il caso di specie, “…esistono comunque spazi di interpretazione da sfruttare: il giurista ha il potere/dovere di conformare l’interpretazione delle norme esistenti alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento per sopperire lacune o adeguare le norme alle nuove condizioni storico-sociali”.

In conseguenza di tutto quanto precede, pertanto, la domanda dell’avvocato G.  deve essere accolta.

Come si vede, un’interpretazione costituzionalmente orientata, che si riconnette, d’altra parte, ed il Tribunale di Firenze non manca di rimarcarlo, all’esigenza che “…la mediazione sia effettiva e offra alle parti una reale chance di soluzione del loro conflitto” [come del resto affermato dalla giurisprudenza in una sempre più cospicua gamma di pronunce; cfr., ex multis, con riferimento all’orientamento dei giudici di merito relativo alla mediazione (obbligatoria) iussu iudicis, secondo cui il tentativo deve essere effettivo: Trib. Firenze, ord. 19.3.2010; Trib. Firenze, sez. imprese, ord. 17.3.2014 e ord. 18.3.2014; Trib. Roma, ord. 30.6.2014; Trib. Bologna, ord. 5.7.2014; Trib. Rimini, ord. 16.7.2014; Trib. Palermo, ord. 16.7.2014. Con riferimento alla mediazione obbligatoria ante causam, cfr., da ultimo, Trib. Firenze, ord. 26.11.2014].

Pertanto, “…l’esclusione del riconoscimento delle spese per il compenso di avvocato solo per i casi di mediazione non conclusa da accordo si presterebbe invece a concepire la fase mediativa come una fase da attraversare necessariamente, ma solo formalmente, per approdare al più presto al processo, nell’ambito del quale anche le spese stragiudiziali potranno essere riconosciute. Sarebbe una conclusione che sminuirebbe la funzione della mediazione, ma anche della giurisdizione, che, invece, proprio per la sua natura sussidiaria, deve potersi esplicare pienamente ed efficacemente quando è richiesto lo ius dicere, anziché essere strumentalizzata per altri obiettivi. L’interpretazione adottata è inoltre l’unica che riconosce la delicata funzione di assistenza dell’avvocato della parte in mediazione, funzione che comporta un mutamento culturale epocale per l’avvocatura rispetto ai ruoli tradizionali confinati al campo giudiziario e che deve essere adeguatamente valorizzata”.

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Testo integrale sentenza:

TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE

II SEZIONE CIVILE

Il Presidente,

vista l’istanza dell’avv. G., quale difensore di S. C., per la liquidazione del compenso professionale a carico dello Stato;

Osserva

  1. L’avv. G. ha presentato istanza volta ad ottenere la liquidazione del compenso per l’attività professionale svolta a favore della parte sig. S. C., ammessa al gratuito patrocinio con delibera del Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Firenze del 10.9.14. Nella domanda per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’istante aveva premesso di voler iniziare una causa di usucapione avanti al Tribunale di Firenze, specificando che la richiesta riguardava anche la procedura di mediazione obbligatoria, con riferimento allecompetenze legali del procedimento di mediazione. Nella richiesta di liquidazione, l’istante specifica che la mediazione ha avuto esito positivo e si è conclusa con accordo; chiede pertanto che siano liquidate le spese con riferimento alle attività svolte con riferimento alla fase di mediazione obbligatoria pre-processuale, prodromica alla domanda di usucapione.
  2. La questione che si pone è se il compenso professionale dell’avvocato che ha assistito una parte nella procedura di mediazione, prevista quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale[1], possa essere posto a carico dello Stato. Va premesso che la questione non è espressamente affrontata nella disciplina in materia di mediazione. L’art. 17 dl Dlg. 28/2010, al comma 5-bis, infatti, prevede che quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’art. 5, comma 1 bis ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’art. 5 comma 2, all’organismo non sia dovuta nessuna indennità dalla parte che si trovi nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello stato ai sensi dell’art. 76 del t.u. sulle spese di giustizia (D.p.r. n. 115/2002). A tal fine la parte è tenuta a depositare presso l’organismo una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, nonché a produrre la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato. L’unica previsione riguarda dunque l’indennità che sarebbe dovuta all’Organismo; per quanto concerne il compenso all’avvocato, che deve obbligatoriamente assistere le parti nelle fasi di mediazione (art. 5 e 8 d.lgs. n. 28/2010), si rileva invece una lacuna che deve essere colmata in via interpretativa.
  3.  Il quadro normativo da esaminare non può che partire dall’art. 24 Cost.: dopo aver previsto, al primo comma, il diritto di agire a difesa dei propri diritti e interessi legittimi, si afferma, al secondo comma, che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Il terzo comma prevede inoltre che “sono assicurati ai non abbienti con appositi istituiti, i mezzi per agire e difendersi avanti ad ogni giurisdizione.” Sul piano della legge ordinaria, l’art. 74 del D.p.r. 115/2002 prevede l’istituzione del patrocinio per il non abbiente, assicurato per il processo penale, nonché per il processo civile, amministrativo, contabile, tributario e per gli affari di volontaria giurisdizione quando le sue ragioni non risultino manifestamente infondate. L’articolo 75 del DPR. n.115/2002 (Ambito di applicabilità) prevede al primo comma: <<1. L’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse>>. Secondo l’orientamento tradizionale, poiché le norme fanno riferimento al processo, si ritiene impossibile far rientrare nel gratuito patrocinio l’attività stragiudiziale: se anche vi fosse l’ammissione da parte del Consiglio dell’ordine, non sarebbe comunque possibile la liquidazione a spese dello Stato. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24723 del 23.11.2011, ha riaffermato che il patrocinio a spese dello Stato riguarda esclusivamente la difesa in giudizio non potendo coprire l’attività stragiudiziale[2]. Con la pronuncia, tuttavia, la Corte, richiamando un proprio precedente, fa salva una nozione estesa di attività giudiziale perché afferma che “devono considerarsi giudiziali anche quelle attività stragiudiziali che, essendo strettamente dipendenti dal mandato alla difesa, vanno considerate strumentali o complementari alle prestazioni giudiziali, cioè di quelle attività che siano svolte in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentanza e la difesa in giudizio”(sulla base di tale presupposto, nella precedente decisione, era stato riconosciuto dovuto il compenso per l’assistenza e l’attività svolta dal difensore per la transazione della controversia instaurata dal medesimo). Anche di recente, la pronuncia della S.C. del 19 aprile 2013, n. 9529 riconferma l’orientamento ricordato: l’attività professionale di natura stragiudiziale che l’avvocato si trovi a svolgere nell’interesse del proprio assistito, non è ammessa, di regola, al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell’art. 85 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in quanto esplicantesi fuori del processo, per cui il relativo compenso si pone a carico del cliente. Tuttavia, se tale attività venga espletata in vista di una successiva azione giudiziaria, essa è ricompresa nell’azione stessa ai fini della liquidazione a carico dello Stato ed il professionista non può chiederne il compenso al cliente ammesso al patrocinio gratuito, incorrendo altrimenti in responsabilità disciplinare. Dal principio affermato dalla S.C., si desume dunque che l’avvocato, il quale non può chiedere il compenso al cliente pena la sanzione disciplinare, deve poterlo chiedere allo Stato.
  1. La cauta apertura della S.C. può agevolmente essere valorizzata e coordinata con la disciplina della mediazione obbligatoria introdotta dal d.lgs. n. 28/2010 perché, nei casi in cui il procedimento giudiziario (rispetto al quale la mediazione costituisce condizione di procedibilità) inizi o prosegua, l’attività dell’avvocato ben integra la nozione lata di attività giudiziale accolta dalla Corte, ossia di attività strumentale alla prestazione giudiziale e svolta in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentazione e difesa in giudizio.
  2. Più problematico sembra il caso in cui la mediazione abbia avuto esito positivo: in tal caso, secondo alcuni, non avrebbe svolgimento nessuna ‘fase processuale’ nell’ambito della quale liquidare il compenso e non sarebbe possibile considerare il compenso per il difensore che ha assistito la parte in mediazione a carico dello Stato. Un tale risultato pare paradossale dal momento che la liquidazione a spese dello Stato non troverebbe applicazione proprio quando il difensore ha svolto al meglio le sue prestazioni professionali, favorendo il raggiungimento dell’accordo in mediazione. E ciò anche se la mediazione è obbligatoria, come obbligatoria è l’assistenza dell’avvocato (art. 5, comma 1 bis e art. 8 d.lgs. n.28/2010). Ne deriverebbe un risultato irragionevole e “di fatto” una sorta di disincentivo rispetto ad un istituto che invece il legislatore sta cercando di promuovere in vario modo (in tale ottica si colloca anche la stessa previsione dell’obbligatorietà rispetto all’inizio del processo per un periodo limitato: art. 5, comma 1 bis, d.lgs 28/2010).
  1. Il tema è certo delicato, anche perché liquidare a carico dello Stato un compenso non previsto da alcuna norma esporrebbe il giudice al rischio della responsabilità contabile. Si è rilevato anche che nel verbale di conciliazione le parti e rispettivi difensori possono disciplinare l’aspetto del compenso per i legali e inoltre questi potranno avvalersi della regola della solidarietà, ribadita dall’art. 13, comma 8 della nuova legge forense (n. 247/2012). Il problema tuttavia è duplice: sicuramente vi è l’esigenza di riconoscimento e remunerazione dell’attività difensiva: coloro che accennano alla solidarietà intendono rassicurare sulla esigibilità del credito professionale, se non dalla parte non abbiente, almeno dall’altra parte grazie al vincolo della solidarietà. Tuttavia, in tal modo si finisce pur sempre di riversare sui privati (il difensore o la parte abbiente) un onere che dovrebbe essere sostenuto dallo Stato. Se infatti quest’ultimo mostra, con una serie di interventi, un chiaro favore verso forme non giurisdizionali di tutela nell’intento di offrire più vie di soluzione dei conflitti (dalla disciplina della mediazione a quella su arbitrato e negoziazione assistita di cui al recente d.l. n. 132/2014), anche la disciplina dell’aiuto ai non abbienti non dovrebbe più essere limitata all’aiuto nella sede giudiziaria.
  2. Occorre allora valutare il movimento europeo di vasto respiro in cui si inscrivono gli interventi ricordati (al di là della loro concreta disciplina) e approfondire l’esegesi delle norme che vengono in campo per verificare la possibilità, già in base alla legislazione esistente, che la parte non abbiente possa usufruire dell’aiuto statale anche quando alla mediazione, dato l’esito positivo, non faccia seguito il processo. Occorre dunque tentare di ricostruire il sistema alla luce della normativa in tema di mediazione, della Costituzione e delle fonti europee. Un’interpretazione sistematica e teleologica delle norme richiamate induce il Giudice a ritenere che l’art. 75 sopra citato comprenda sempre la fase della mediazione obbligatoria pre-processuale. Tale conclusione (che vale anche per la mediazione demandata dal giudice ex art. 5, comma 2 d.lgs. n. 28/2010) è sostenuta dalle seguenti considerazioni.
  3. Innanzitutto la conclusione accolta trova elementi di sostegno nell’ambito del diritto eurounitario (a partire dall’art. 47 della c.d. Carta di Nizza, secondo cui <<a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia>>) e della disciplina con cui l’Italia ha recepito la direttiva europea sul Legal aid, volta a migliorare l’accesso alla giustizia nelle controversie frontaliere civili (Direttiva 2002/8/CE del Consiglio del 27/1/2003). L’art. 3 di tale direttiva recita: Art. 3. “Diritto al patrocinio a spese dello Stato. 1. La persona fisica, che sia parte in una controversia ai sensi della presente direttiva, ha diritto a un patrocinio adeguato a spese dello Stato che le garantisca un accesso effettivo alla giustizia in conformità delle condizioni stabilite dalla presente direttiva. 2. Il patrocinio a spese dello Stato è considerato adeguato se garantisce: a) la consulenza legale nella fase precontenziosa al fine di giungere a una soluzione prima di intentare un’azione legale; b) l’assistenza legale e la rappresentanza in sede di giudizio, nonché l’esonero totale o parziale dalle spese processuali, comprese le spese previste all’articolo 7 e gli onorari delle persone incaricate dal giudice di compiere atti durante il procedimento.” La direttiva estende il “legal aid” alle procedure stragiudiziali (art. 10)[3]. Il d.lgs. 27.5.2005, n. 116, che ha recepito la direttiva, prevede all’art. 10 che <<Il patrocinio è, altresì, esteso ai procedimenti stragiudiziali, alle condizioni previste dal presente decreto, qualora l’uso di tali mezzi sia previsto come obbligatorio dalla legge ovvero qualora il giudice vi abbia rinviato le parti in causa>>. Si tratta di disposizioni che concernono le controversie transfrontaliere, ma che offrono elementi ulteriori per avvalorare l’interpretazione qui accolta che estende l’aiuto legale alla fase pre-processuale, apparendo del tutto irrazionale e non conforme all’art. 3 della costituzione che il cittadino possa usufruire dell’aiuto statale per la lite transfrontaliera e non per quella domestica. E’ significativo che il Consiglio Nazionale Forense, nella circo<lare n. 25 del 6.12.2013, abbia espressamente richiamato la direttiva sul “Legal Aid” che ammette al beneficio anche le spese legali sostenute nel corso delle procedure stragiudiziali per sostenere che l’assistenza dei legali, obbligatoria per la mediazione preprocessuale e quella demandata dal giudice, debba rientrare nel patrocinio a spese dello stato.
  1. Un ulteriore elemento, rispetto a quanto osservato, può essere tratto dalla riflessione sulla c. d.giurisdizione condizionata, che ricorre quando il legislatore impone alle parti di compiere una data attività prima di rivolgersi ai giudici, come appunto avviene con l’imposizione del tentativo preventivo di mediazione ex art. 5, comma 1 bis cit.. Il condizionamento della giurisdizione può ritenersi ammissibile in quanto non comprometta l’esperimento dell’azione giudiziaria che può essere ragionevolmente limitato, quanto all’immediatezza, se vengano imposti oneri finalizzati a salvaguardare <<interessi generali>>: la sentenza della Corte Cost. n. 276/2000 in tema di tentativo obbligatorio di conciliazione per le cause di lavoro[4], ha affermato che il tentativo in questione soddisfaceva l’interesse generale sotto due profili: da un lato, perché evitava il sovraccarico dell’apparato giudiziario, dall’altro, perché favoriva la composizione preventiva della lite che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito attraverso il processo. In sintonia con la nostra Corte costituzionale, anche l’importante decisione della Corte Giustizia eu 18.3.2010, Alassini c. Telecom (che indica le condizioni per ritenere conforme al diritto comunitario il tentativo obbligatorio di conciliazione, nella specie in tema di telecomunicazioni), afferma, tra l’altro, che <<i diritti fondamentali non si configurano come prerogative assolute, ma possono soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti>> (cfr. par. 63 della sentenza). Sulla base di queste considerazioni, deve reputarsi che la connessione tra fase mediativa e processo, talmente forte da configurare una condizione di procedibilità, vada riconosciuta già in astratto. Non appare rilevante dunque che poi, in concreto, in base cioè al concreto risultato della mediazione, il processo non abbia più luogo perché divenuto inutile alla luce dell’accordo raggiunto. Questo è proprio lo scopo della connessione voluta dal legislatore, connessione che non è eliminata ma anzi esaltata proprio nel momento in cui il raggiungimento dell’accordo in mediazione rende inutile il successivo processo, assicurando quell’ interesse generale di cui parla Corte cost. n. 276/2000 citata. Il senso della connessione non sta nel fatto che la mediazione sia un antecedente cronologico delle fasi processuali, ma nella funzione della mediazione: questo sistema offre alle parti di ricercare una soluzione più adeguata al loro conflitto rispetto alla rigidità della decisione giurisdizionale; inoltre, gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti.[5] Molteplici sono gli interessi che possono essere soddisfatti, se le parti riescono a riprendere le fila del proprio conflitto: in tutti i casi in cui questo avvenga e si concluda un accordo, la mediazione – obbligatoria – esaurisce la sua funzione rispetto al processo, che è quella di renderlo superfluo. Si tratta del massimo della connessione perché lo scopo della previsione della condizione di procedibilità non può che essere quello di un richiamo alle potenzialità dell’autonomia privata, rimesse in gioco nella sede mediativa, per evitare il procedimento giudiziario quando non sia davvero necessario. In definitiva, la mediazione (obbligatoria) è sempre connessa e funzionale alla fase processuale anche se poi questa in concreto non abbia luogo. Del resto, una parte della dottrina era giunta addirittura a ravvisare la natura paragiurisdizionale della fase di mediazione, rilevando come l’obbligatorietà della mediazione comportasse il suo inserimento in un unico macro-procedimento finalizzato alla tutela dei diritti (disponibili). Ed è interessante richiamare un’affermazione della Corte costituzionale, sia pure in un obiter dictum, nell’ambito di una pronuncia relativa all’impugnazione di una legge regionale veneta: la Corte ha avuto modo di affermare che il procedimento di mediazione obbligatoria previsto dal d.lgs. n. 28/2010, ”rientra nell’esercizio della funzione giudiziaria e nella sfera del diritto civile, giacché, con riferimento al caso di specie, condiziona l’esercizio del diritto di azione finalizzato al risarcimento dei danni da responsabilità civile e prevede ricadute negative per chi irragionevolmente abbia voluto instaurare un contenzioso davanti al giudice, nonostante fosse stata formulata una proposta conciliativa rivelatasi successivamente satisfattiva delle proprie ragioni”.[6] Pur ritenendo improprio qualificare tout court la mediazione come attività para-giurisdizionale o giudiziaria, è tuttavia corretto porre in risalto – anche – la sua stretta relazione con il processo, quando sia prevista come obbligatoria.
  1. In definitiva, un’interpretazione sistematica teleologica delle norme richiamate induce il Giudice a ritenere che l’art. 75 cit., secondo cui l’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse, comprenda la fase della mediazione obbligatoria pre-processuale anche quando la mediazione, per il suo esito positivo, non sia seguita dal processo. Si tratta infatti di una procedura strettamente connessa al processo, dal momento che condiziona la possibilità avviarlo (o proseguirlo, per la mediazione demandata dal giudice); d’altronde nel caso di successo della mediazione, si realizza il risultato migliore non solo per le parti, ma anche per lo stato che non deve sostenere anche le spese del giudizio. Tale conclusione inoltre è conforme alla direttiva europea sul “Legal Aid” ed è costituzionalmente orientata (art. 3 Cost.), perché sarebbe irragionevole prevedere il sostegno dello stato per i casi di mediazione non conclusa con accordo e seguita da processo e negarla per i casi di mediazione, condizione di procedibilità, non seguita dal processo per l’esito positivo raggiunto. Così come sarebbe illogico riconoscere il gratuito patrocinio per le procedure “derivative e accidentali” e non per quelle non accidentali ma strutturalmente collegate al processo. Da ultimo, può essere utile ricordare il tentativo della dottrina di rileggere la condizione di procedibilità (preventiva o successiva) non solo nell’ambito della giurisdizione condizionata, ma anche in una prospettiva di maggiore equilibrio tra giurisdizione e mediazione (art. 1, Dir. 2008/52). In tale prospettiva, la mediazione viene considerata strumento per favorire lo sviluppo della personalità del singolo nella comunità cui appartiene, consentendogli di confrontarsi in un contesto relazionale propiziatorio per una soluzione amichevole. Accanto al diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost., diritto inviolabile della persona (ex art. 2 Cost.), andrebbe riconosciuto il diritto alla mediazione, non solo nell’ambito, tradizionalmente indicato, dell’accesso alla giustizia, ma anche quale espressione diretta dell’esigenza di sviluppo della persona nelle relazioni interpersonali e comunitarie, nell’attuazione del complementare principio di solidarietà. Una tale visione, che ha il pregio di porre in luce l’importanza della mediazione come strumento di pacificazione sociale condivisa e non imposta, fonda il diritto alla mediazione sull’art. 2 cost.: anche tale richiamo può corroborare l’interpretazione qui accolta.
  1. La conclusione raggiunta appare dunque l’unica conforme ai parametri costituzionali (artt. 2, 3 e 24 cost.) e adeguata al mutamento in corso dei sistemi di soluzioni delle liti: ancorare l’aiuto dello Stato solo al patrocinio in giudizio è frutto di una visione superata nella quale esclusivamente la giurisdizione statale era fonte di giustizia. Da molti anni le fonti europee ribadiscono che l’accesso alla giustizia non si riduce al “diritto a un tribunale’’ ma include l’accesso a procedimenti non giurisdizionali di risoluzione delle controversie che, in una prospettiva di ‘’giustizia plurale”, si pongono in rapporto di complementarietà rispetto alla giustizia giurisdizionale[7]. Se oggi la tutela dei diritti non è affidata solo alle procedure giudiziarie, perché il legislatore introduce differenti metodi (da ultimo si veda il d.l. n. 132/2014 a proposito di negoziazione assistita e arbitrato), diviene un intervento indispensabile, sul piano della coerenza, ampliare l’aiuto da parte dello Stato dall’aiuto giudiziario all’aiuto giuridico, per chi ha bisogno di avere informazioni o consulenza legale o assistenza, in margine e al di fuori del processo (come nella maggior parte dei paesi europei). Il sistema del “gratuito patrocinio” dovrà essere ripensato da chi detiene il potere legislativo alla luce della disciplina di origine comunitaria e dovranno essere riconsiderati i casi di mediazione facoltativa o di negoziazione assistita[8]; per i casi di mediazione obbligatoria, quale quello in esame, esistono comunque spazi di interpretazione da sfruttare: il giurista ha il potere/dovere di conformare l’interpretazione delle norme esistenti alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento per sopperire lacune o adeguare le norme alle nuove condizioni storico-sociali. In tale prospettiva, la garanzia costituzionale del diritto di difesa inviolabile “in ogni stato e grado” (art. 24 cost.), per essere effettiva, deve contemplare anche la fase che, pur concernendo di per sé attività non giurisdizionale per la soluzione dei conflitti, è così innestata nella giurisdizione da condizionarne le vicende: “in ogni stato’’ è dunque espressione che ricomprende lo stato pre-processuale o endo-processuale che in modo obbligatorio deve essere attraversato dalle parti perché la giurisdizione possa regolarmente svolgersi. Per assicurare “ai non abbienti …. i mezzi per agire e difendersi avanti ad ogni giurisdizione”, è indispensabile riconoscere a carico dello stato anche il compenso del legale nella fase mediativa che condiziona necessariamente l’avvio del processo o la sua prosecuzione. Tale interpretazione, che si ritiene costituzionalmente orientata, si riconnette anche all’esigenza che la mediazione sia effettiva e offra alle parti una reale chance di soluzione del loro conflitto[9]: l’esclusione del riconoscimento delle spese per il compenso di avvocato solo per i casi di mediazione non conclusa da accordo si presterebbe invece a concepire la fase mediativa come una fase da attraversare necessariamente, ma solo formalmente, per approdare al più presto al processo, nell’ambito del quale anche le spese stragiudiziali potranno essere riconosciute. Sarebbe una conclusione che sminuirebbe la funzione della mediazione, ma anche della giurisdizione, che, invece, proprio per la sua natura sussidiaria, deve potersi esplicare pienamente ed efficacemente quando è richiesto lo ius dicere, anziché essere strumentalizzata per altri obiettivi. L’interpretazione adottata è inoltre l’unica che riconosce la delicata funzione di assistenza dell’avvocato della parte in mediazione, funzione che comporta un mutamento culturale epocale per l’avvocatura rispetto ai ruoli tradizionali confinati al campo giudiziario e che deve essere adeguatamente valorizzata. A questo riguardo, va ricordato che proprio dal ceto forense a livello europeo proviene l’importante raccomandazione sul Legal Aid, adottata dal CCBE (Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa) nel novembre 2010, al fine di promuovere il diritto all’accesso alla giustizia anche per le persone prive di mezzi. Tra le azioni raccomandate si specifica quella di <<garantire il legal aid per tutte le aree legali-giurisdizionali, risoluzione alternativa delle controversie, compresa l’assistenza di un avvocato in tutte le fasi del procedimento>>[10].
  1. Non è fuor di luogo rilevare che, se dalle novità introdotte dal d.l. n. 69/2013 (tra cui l’assistenza obbligatoria del difensore e la re-introduzione della mediazione obbligatoria) non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (c.d. clausola di invarianza finanziaria: art. 85, comma 4, d. l. n.69/2013), l’interpretazione qui proposta appare del tutto rispondente a tale scopo: si tratta infatti di riconoscere il compenso del legale che ha assistito la parte in mediazione con esito positivo e dunque con risparmio per lo Stato rispetto alla fase processuale.
  1. Nel caso in esame la domanda è stata presentata al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Firenze ex art. 124 tu. n.115/2002 (art. 124, comma 2: Il consiglio dell’ordine competente è quello del luogo in cui ha sede il magistrato davanti al quale pende il processo, ovvero, se il processo non pende, quello del luogo in cui ha sede il magistrato competente a conoscere del merito), mentre l’autorità competente per la liquidazione è agevolmente individuabile nel Tribunale – che sarebbe stato – competente per il giudizio a cui l’istanza era stata preordinata (art. 83, comma 2 DPR. n.115/2002). Il Consiglio con delibera del 10.9.2014 ha ammesso l’istante al gratuito patrocinio e non risultano comunicate variazioni dei limiti di reddito. L’avv. G. ha chiesto il compenso per l’assistenza dinanzi al mediatore, nonché per l’attività propedeutica e cioè lo studio della pratica con l’esame della documentazione consegnata al cliente, sessioni con il tecnico dello stesso e con il cliente e la predisposizione della domanda di gratuito patrocinio (attività che possono essere riconosciute: si veda al riguardo Corte Cass. 23.11.2011, n. 24729, secondo cui “il condizionare gli effetti della delibera dalla data della sua emissione porterebbe a pregiudicare illogicamente i diritti dell’istante”). La liquidazione deve avvenire sulla base dei parametri indicati degli artt. 18, 19, 20 e 21 del D.M. 55/2014 (attività stragiudiziale), considerando il valore medio con riduzione alla metà ai sensi dell’art. 130 D.P.R. n. 115/02. Considerando la natura dell’impegno professionale profuso da quanto emerge dalla documentazione allegata, appare congruo liquidare all’Avv. G. in relazione all’attività espletata la somma di euro 4.320,00 per compensi (scaglione da euro 52.000,01 a 260.000,00 in base al valore desumibile dall’accordo di mediazione), ridotti ad euro 2.160,00 ex art. 130 cit., oltre alle spese generali pari al 7%, oltre IVA e CAP.

P.Q.M.

CONFERMA in via definitiva l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato di S. C. nel procedimento suindicato;

LIQUIDA in favore dell’Avv. G. per l’attività espletata in favore di S. C. nella procedura sopra indicata, euro 2.160,00 per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 7%, oltre IVA e CAP;

MANDA alla Cancelleria per le comunicazioni.

Firenze, 13 gennaio 2015.

Il Presidente

Luciana Breggia

[1] Si ritiene che la domanda di usucapione rientri nell’ambito dell’art. 5, comma 1 bis d.lgs. n.28/2010, specie dopo il d.l. n. 69/2013 che ha aggiunto il comma 12 bis all’art. 2643 cc (in giurisprudenza. già in precedenza, v. Trib. Palermo, ord. sez. distaccata Bagheria, 30.12.2011; Trib. Como, sez. distaccata Cantù, ord. 2.2.2012).

[2] Il caso riguardava il ricorso contro una decisione della Corte di appello di Torino che, con provvedimento del 13 luglio 2006, aveva respinto il reclamo proposto dall’avv. E.C. F. contro il decreto con cui il Tribunale di Torino aveva dichiarato inammissibile la domanda di liquidazione delle competenze per l’attività stragiudiziale dal medesimo svolta quale difensore di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato. L’istanza era stata respinta sul rilievo che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, il patrocinio a spese dello Stato è previsto per l’attività giudiziale e non pure per quella stragiudiziale.

[3] Secondo l’art. 10, <<Il patrocinio a spese dello stato è altresì esteso ai procedimenti stragiudiziali, alle condizioni previste dalla presente direttiva, qualora l’uso di tali mezzi sia richiesto dalla legge ovvero quando il giudice vi abbia rinviato le parti in causa>>.

[4] Tentativo previsto dall’art. 410 c.p.c., poi abrogato e, infine, in parte nuovamente istituito.

[5] Dir. 2008/52, considerando 6.

[6] Corte cost. .n. 178 del 2010.

[7] Già prima della Direttiva n. 52/2008 in tema di mediazione civile e commerciale, il Consiglio europeo aveva invitato gli Stati membri a istituire procedure extragiudiziali e alternative al fine di agevolare un miglior accesso alla giustizia: nei “considerando” della dir. 2008/52, si ricordano le varie tappe del percorso, dalla riunione di Tampère dell’ottobre 1999 al Libro verde del 2000.

[8] Secondo lart. 6, comma 2, del d.lgs. n. 116/2005 il patrocinio a spese dello Stato garantisce anche <<la consulenza legale nella fase conciliativa pre-contenziosa al fine di giungere a una soluzione prima di intentare un’azione legale>>: in tale previsione sembra rientrare la mediazione facoltativa e anche la negoziazione assistita. Per quest’ultima, tuttavia, l’art. 3 d.l. 132/2014 si limita a stabilire che <<quando il procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda, all’avvocato non è dovuto compenso dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello stato>>: la norma appare tuttavia di dubbia costituzionalità, tenuto conto del carattere obbligatorio della procedura.

[9] Si fa riferimento all’orientamento dei giudici di merito secondo cui per la mediazione obbligatoria iussu iudicis il tentativo deve essere effettivo: si veda, di questo giudice, l’ordinanza 19.3.20104, in www.mediamo.it; sempre del Tribunale di Firenze, sez. imprese, ord. 17.3.2014 e ord. 18.3.2014, in www.ilcaso.it; Trib. Roma, ord. 30.6.2014, in www.101mediatori.it; Trib. Bologna, ord. 5.6.2014, in www.adrmaremma.it; Trib. Rimini, ord. 16.7.2014, in www.mondoadr.it; Trib. Palermo, ord. 16.7.2014, in www.osservatoriomediazione.it. Per la mediazione obbligatoria ex lege, da ultimo, si veda, di questo giudice, l’ordinanza 26.11.2014, rg. 6277/2014.

[10] Il CCBE raccomanda inoltre di <<impostare una linea di bilancio specifica>> per garantire lo sviluppo degli aiuti europei. Il testo della raccomandazione è reperibile nel sito www.ccbe.eu.

La responsabilità del mediatore durante il primo incontro – Salvatore Primiceri

La giurisprudenza più recente ha più volte ricordato come il primo incontro di mediazione debba essere effettivo. Un equivoco di interpretazione a prima lettura delle norme, aveva fatto ritenere che le parti potessero manifestare una sorta di “volontà di adesione” preliminarmente al procedimento di mediazione, evitando così non solo di entrare in mediazione ma anche di pagare le indennità previste in base al valore della controversia.

Tale interpretazione era stata avallata da buona parte degli avvocati di parte, i quali vedevano nel cosiddetto “incontro programmatico” la possibilità di ridurre a mera formalità procedurale il passaggio in mediazione prima di avviare la causa giudiziaria.

Anche numerosi operatori del mondo della mediazione avevano inizialmente accetato tale “linea morbida” in quanto “scottati” dalla sentenza della Consulta del 2012 che aveva bocciato per eccesso di delega la vecchia formulazione del d.lgs 28/2010 sulla mediazione obbligatoria.

I giudici di più tribunali hanno, però, ormai univocamente determinato che il primo incontro deve avere tutte le caratteristiche di una mediazione vera e propria, quindi devono essere presenti le parti e i loro avvocati. Non solo. I giudici indicano che già in sede di primo incontro debba essere svolta ampia discussione sulla controversia e che sia il mediatore, a valutare, al termine della discussione, se sia possibile procedere col tentativo di mediazione. Le parti e i rispettivi avvocati, quindi, non devono manifestare alcuna volontà in merito.

Sulla questione rimando alle ottime analisi giuridiche di Luigi Majoli. Ciò che invece mi preme valutare in questa sede è il ruolo del mediatore nell’indagare la possibilità di procedere con la mediazione, in relazione da un lato alla questione delle indennità, dall’altro alla sua responsabilità morale verso le parti.

La giurisprudenza, infatti, nello specificare le modalità di svolgimento del primo incontro, parla di effettività ma nulla dice intorno alle indennità. In sostanza la scelta di far pagare le indennità alle parti sin dal primo incontro oppure solo nel momento in cui, dopo ampia discussione, il mediatore e le parti abbiano condiviso l’effettiva possibilità che valga la pena proseguire nel tentativo, è lasciata alla discrezionalità e alla valutazione di opportunità degli organismi e dei mediatori stessi.

L’inserimento di una regola in questo senso nei regolamenti degli organismi può non risolvere del tutto la questione. Se è legittimo, quindi, ritenere che “il primo incontro di fatto non esista”, non è detto che non sia opportuno suddividere la mediazione in due momenti.

Infatti il problema attiene maggiormente alla valutazione soggettiva del mediatore più che alla scelta imprenditoriale di un organismo.

Mi spiego meglio. Capita spesso che l’elemento economico (pagare o meno l’indennità) risulti la discriminante che blocca sul nascere una procedura di mediazione. Mi è capitato spesso, infatti, di aver convinto le parti a sedersi al tavolo e discutere del loro problema utilizzando la formula rassicurante “facciamo che proviamo a parlare della questione con serenità ma non vi faccio pagare nulla finché non capiremo insieme tutti i problemi e la loro effettiva possibilità di risoluzione attraverso la mediazione”. A questo aggiungo la rassicurazione sul mio dovere di riservatezza.

Prima di avviarmi su un percorso di questo tipo dovrò aver già svolto una serie di valutazioni tra le quali:

  • Una delle parti, o entrambe, hanno paura solo dell’aspetto economico e di perdere così soldi preziosi in quanto i rapporti sono molto deteriorati o stagnanti da lungo tempo da non far prevedere soluzioni né facili né positive.
  • Le parti possono recuperare una comunicabilità tra loro se poste di fronte e aiutate dal mediatore, ma hanno paura soprattutto perché non hanno disponibilità economiche.
  • Le parti sono persone fisiche lacerate da problemi personali ma lasciano intravedere buona fede. Non si tratta quindi di questioni meramente tecniche che coinvolgono persone giuridiche.
  • La parte invitata non si presenta al primo incontro ma la parte istante (o il mediatore stesso) crede che non si sia presentata per via di una mancata conoscenza della mediazione e dell’eventuale costo, ma che con un po’ di informazione possa cambiare idea.

In casi come questi è opportuno che il mediatore prenda contatti, anche anticipatamente al primo incontro, con la parte che giudica più reticente, solitamente la parte invitata.

Il mediatore spiega o incontra le parti anche singolarmente nei giorni che precedono la mediazione e spiega loro come funziona l’istituto. Fornisce ampie rassicurazioni e ragguagli su tutti i vantaggi della mediazione. Egli rassicura che questi incontri informali sono coperti dal dovere di riservatezza e che nulla gli è dovuto.

Tale procedimento potrà essere recuperato anche in una fase successiva al primo incontro, qualora una parte non si sia presentata. A quel punto è opportuno un rinvio per far sì che il mediatore raccolga tutte le informazioni per capire se la parte abbia avuto impedimenti di tipo formale, quale la paura di pagare subito l’indennità.

Il mediatore esplora e si mette in gioco ma, soprattutto, mette al primo posto la sua “mission” ovvero fare di tutto affinché le parti si incontrino, parlino e, possibilmente, spianino la strada verso un insperato accordo.

La responsabilità del mediatore, nel fare questo è etico-morale. Si tratta di dare massima dignità alla professione. Il mediatore affronta e risolve tali situazioni con spiccate doti di pazienza e capacità comunicativa, le quali si convertiranno in fiducia delle parti nei suoi confronti.

Una volta che le parti confidano il conflitto nelle autorevoli e sapienti mani del mediatore, la soluzione è ormai vicina. A quel punto tutte saranno concordi che la mediazione possa proseguire e che possano scattare anche le indennità.

Il mediatore quindi investe il suo tempo (un primo incontro può durare anche ore) per guadagnarsi fiducia e portare le parti ad un livello di comunicabilità reciproca tale da non riuscirsi più a sottrarre al circolo virtuoso messo in atto dalla mediazione.

Qualcuno potrebbe obiettare che se il primo incontro non andasse a buon fine, il mediatore avrebbe perso così un sacco di tempo e anche soldi. Il mediatore etico-morale, però, non avrà problemi ad accettare la sconfitta, ha adempiuto al meglio il suo dovere, ma guai ad aver lasciato indietro qualcosa di intentato.

La valutazione se far prevalere il criterio di utilità personale (il guadagno nel più breve tempo possibile=chiedo subito indennità) o il criterio etico morale (investo tempo col rischio che tutto si risolva in nulla=faccio pagare solo in un secondo momento quando la mediazione prosegue ormai in modo pacifico) attiene alla valutazione soggettiva del singolo caso che il mediatore si trova di fronte.

Il vero mediatore, quando intravede anche una minima e lontana possibilità che le parti possano provare a risolvere il loro problema con la mediazione, allora non deve tirarsi indietro. Egli deve utilizzare tutte le tecniche di comunicazione apprese nei corsi professionali e attraverso l’esperienza. Egli ha quindi una forte responsabilità.

Il filosofo Jeremy Bentham diceva che bisogna fare ciò che è più utile a noi stessi se questo ci porta alla felicità. Sta a noi, quindi, scegliere se ci rende più felici un guadagno facile ed un accordo non raggiunto piuttosto che un guadagno “posticipato” ma rassicurato dalla piena volontà delle parti e dalla consapevolezza di aver davvero svolto al meglio il proprio lavoro. Il bene delle persone non ha prezzo.

Salvatore Primiceri

Per contattare il Centro Studi di ADR Intesa: formazione@adrintesa.it 

Mediazione-obbligatoria

Tribunale di Firenze, ordinanza 26 novembre 2014

Effettività del tentativo e partecipazione personale delle parti in tutti i casi di mediazione obbligatoria.

Commento:

Il Tribunale di Firenze, con una ordinanza del 26 novembre scorso, ribadisce che la mediazione obbligatoria deve essere “effettiva” e caratterizzata dalla partecipazione personale delle parti.

Ciò conformemente alla giurisprudenza propria di quell’ufficio giudiziario, sviluppatasi a partire dalle ben note ordd. 17 e 19 marzo 2014, ed in seguito costantemente perseguita, orientamento che, peraltro, ha incontrato sempre più ampi spazi di condivisione presso innumerevoli altri Giudici.

La pronuncia in commento appare di particolare interesse in quanto i ricordati principi vengono ribaditi con riferimento alla mediazione ante causam e non alla “delegata”  ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, come invece avvenuto in (quasi) tutti i casi precedentemente riscontrabili.

Nel caso di specie si trattava, infatti, di una controversia in materia di usucapione – quindi assoggettata al regime dell’obbligatorietà della mediazione – approdata alla sede giudiziale, nella quale l’attore aveva allegato il verbale di mancata conciliazione – evidentemente al solo fine della soddisfazione della condizione di procedibilità della domanda – dal quale, però, emergeva che dinanzi al mediatore, in sede di primo incontro, era presente solo un avvocato (con delega da parte del collega che avrebbe poi effettivamente svolto le difese della parte in giudizio).

Si tratta di modalità inconciliabili, secondo l’orientamento “fiorentino” con la logica e con le finalità della mediazione civile.

La giurisprudenza richiamata, come è noto, prese le mosse, nel marzo scorso, da tutta una serie di riflessioni circa la mediazione disposta dal giudice, da intendersi come tentativo effettivamente avviato, nel quale, cioè, le parti, anziché limitarsi ad incontrarsi ed informarsi, per poi non aderire alla proposta del mediatore di procedere, adempiano effettivamente all’ordine del giudice, partecipando alla vera e propria procedura (auspicabilmente) conciliativa, salvo, naturalmente, l’emergere di questioni pregiudiziali (di natura – pertanto – oggettiva) ostative al suo svolgimento.

L’ordinanza 19 marzo 2014 del Giudice fiorentino, in particolare, pur muovendo dalla premessa di una difficile individuazione del confine tra la fase preliminare e la mediazione vera e propria, osservava, con riferimento alla mediazione delegata ex art. 5, co. 2, come “…ritenere che l’ordine del giudice sia osservato quando i difensori si rechino dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione, (…) possano dichiarare il rifiuto di procedere oltre, appare una conclusione irrazionale e inaccettabile”.

D’altra parte, non può esservi dubbio che la natura della mediazione richiede che all’incontro siano presenti (anche e soprattutto le parti): l’istituto, infatti, mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che risulti possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore.

Pertanto, l’ipotesi in cui all’incontro davanti al mediatore compaiono i soli difensori, anche in rappresentanza delle parti, non può considerarsi in alcun modo mediazione, come può desumersi dalla lettura coordinata dell’art. 5, comma 1 – bis, e dell’art. 8, D.lgs 28/2010, che prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento di mediazione con l’assistenza degli avvocati, il che, chiaramente, implica la presenza degli assistiti (personale o a mezzo di delegato, cioè di soggetto comunque diverso dal difensore).

Peraltro, i giudici fiorentini non avevano mancato di rilevare come il fatto che la condizione di procedibilità si consideri avverata con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore appaia poi “…particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione” (cfr. ord. 19 marzo 2014, cit.).

Ora, detti principi (effettività del tentativo e partecipazione personale delle parti alla procedura) possono estendersi sic et simpliciter alle ipotesi di cui all’art. 5. co. 1 – bis, vale a dire ai casi, ben più frequenti nella pratica, di mediazione instaurata dalla parte interessata in quanto ex lege condizione di procedibilità della domanda giudiziale?

Secondo i giudici del capoluogo toscano a tale quesito va data risposta affermativa.

Nella ordinanza 26 novembre 2014 si evidenzia, a tale proposito, che certamente nelle ipotesi di mediazione delegata è il giudice a valutare nel caso concreto i margini di “mediabilità” della controversia, mentre nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, detta valutazione risulta già operata in astratto dal legislatore, sulla base della tipologia delle controversie. Tale differenza, però, “…non incide minimamente sulla natura della mediazione e quindi non appare rilevante per ritenere che la condizione di procedibilità possa ritenersi assolta con un mero incontro ‘preliminare’ in cui le parti dichiarano la mancanza di volontà di svolgere la mediazione”.

D’altronde, giova ricordare che su cosa debba intendersi per “mediazione” non possono sussistere dubbi, in ragione della definizione fornitaci dall’art. 1, co. 1, lett. a) del medesimo D.lgs 28/2010, secondo cui si tratta della “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”.

Secondo il Giudice fiorentino, pertanto, non si vede perchè le stesse considerazioni in ordine alla partecipazione personale delle parti al procedimento e soprattutto alla effettività del tentativo non debbano valere anche (ed a maggior ragione) laddove l’esperimento della mediazione condiziona la procedibilità della domanda giudiziale ab initio.

L’assimilazione in parola, peraltro, era stata già prospettata da tempo, anche se non con diretto riferimento ad un caso di mediazione ante causam, dal medesimo ufficio giudiziario che, nell’ordinanza 17 marzo 2014, già aveva avuto modo di osservare come debba ritenersi che “…le procedure di mediazione ex art. 5, comma 1-bis (ex lege) e comma 2 (su disposizione del giudice) del d.lgs. 28/10 (e succ. mod.), sono da ritenersi ambedue di esperimento obbligatorio, essendo addirittura previsti a pena di improcedibilità dell’azione; che difatti, per espressa volontà del legislatore, il mediatore nel primo incontro chiede alle parti di esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, vale a dire sulla eventuale sussistenza di impedimenti all’effettivo esperimento della medesima e non sulla volontà delle parti, dal momento che in tale ultimo caso si tratterebbe, nella sostanza, non di mediazione obbligatoria bensì facoltativa e rimessa alla mera volontà delle parti medesime con evidente, conseguente e sostanziale interpretatio abrogans del complessivo dettato normativo e assoluta dispersione della sua finalità esplicitamente deflattiva”.

In sostanza, dunque, il Tribunale di Firenze individua le ragioni della “impossibilità di iniziare la procedura”, di cui all’art. 8, co. 1, nelle sole questioni preliminari o pregiudiziali di natura oggettiva, chiarendo come non sia previsto in alcun modo che le parti manifestino una sorta di volontà di partecipazione al tentativo di mediazione effettivamente inteso.

Nel caso di specie, dunque, alla luce delle considerazioni che precedono, si ordina alle parti di espletare nuovamente la mediazione, dal momento che il Giudice non ritiene possibile un’applicazione in via analogica delle “…norme che nel processo consentono alla parte di farsi rappresentare dal difensore o le norme sulla rappresentanza negli atti negoziali”, dovendosi tenere in debito conto la natura personalissima, e pertanto non delegabile, delle attività proprie del procedimento di mediazione.

Una conferma, dunque, ma anche un cospicuo passo avanti, ove si consideri che effettivamente i principi di effettività della mediazione e di partecipazione personale delle parti (salvo beninteso ipotesi eccezionali, valutate caso per caso dal giudice, in cui la mancata presenza personale della parte possa ritenersi giustificata) appaiono estensibili a tutte le ipotesi di mediazione “obbligatoria”, dato che il legislatore non ha inteso configurare modelli procedimentali differenti in funzione del fatto che la mediazione consegua alla (necessaria) iniziativa della parte che intenda proporre una domanda nelle materie di cui all’art. 5. co 1 – bis, ovvero che sia demandata, in primo grado o in appello, dal giudice ex art. 5, co. 2.

Peraltro, va infine ricordato come il principio dell’effettività del tentativo di mediazione fosse comunque già stato affermato in giurisprudenza con riferimento ad una ipotesi di mediazione ex lege, depositata, cioè, ai sensi dell’art. 5, co. 1- bis, D.lgs 28/2010, precisamente dal Tribunale di Rimini con ordinanza 16 luglio 2014.

Nel caso di specie, il Giudice, rilevata la mera formalità del tentativo di mediazione avviato ante causam dalla parte attrice del giudizio, esauritosi nella semplice presenza delle parti in sede di primo incontro all’unico scopo di manifestare una asserita “non volontà” di intraprendere il tentativo conciliativo, aveva disposto, esattamente come nel caso oggi in commento, lo svolgimento di un tentativo effettivo pena l’improcedibilità della domanda giudiziale.

Il Tribunale romagnolo, dunque, aveva anch’esso inteso sottolineare come il carattere dell’”effettività” debba necessariamente contraddistinguere la mediazione tout court, indipendentemente dal fatto che il tentativo sia disposto dal giudice.

Sviluppi forse discutibili sotto molteplici aspetti, ma certamente molto interessanti, non c’è che dire.

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Testo integrale 

R.G. 6277/2014 T
TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE
Seconda sezione CIVILE

VERBALE DELLA CAUSA n. r.g. 6277/2014

tra

M.C.

ATTORE

e P.A.P, A. P. e G. P.

CONVENUTI

Oggi 26 novembre 2014, innanzi al dott. Luciana Breggia, sono comparsi:
Per M. C. l’avv. R.C. in sostituzione dell’avv. F. P. e l’avv. D. M. ;
Per P. A. P, A. P e G P., l’avv. F. R. in sostituzione dell’avv. L. L.,
E’ altresì presente ai fini della pratica forense il dott. T. M. I difensori si riportano agli scritti difensivi. Chiedono termini per le memorie ex art. 183 cpc.
Il giudice discute con le parti la questione relativa alla procedibilità della domanda dal momento che la mediazione, obbligatoria in questo caso, non risulta correttamente svolta, essendo presente non la parte di persona, ma un sostituto del difensore di quest’ultima.
All’esito della discussione con i difensori e alla luce della natura della causa, osserva quanto segue.
1. La causa in esame rientra tra quelle per cui è prevista la condizione di procedibilità del preventivo esperimento della mediazione ai sensi dell’art. 5, comma 1 bis, del D.lgs 28/2010, trattandosi di domanda di usucapione (diritti reali).
Nel caso di specie, la parte attrice ha prodotto un verbale del 12/02/2013 relativo all’incontro con il mediatore da cui risulta la presenza di un difensore in sostituzione dell’avvocato Di Rocco, che difende l’attore in giudizio, e non la presenza della parte di persona. Per la parte invitata nessuno è comparso.
2. Il Giudice ritiene che, per ritenere avverata la condizione di procedibilità, anche nei casi di cui all’art.5, co. 1 bis, cit., devono essere osservati due importanti profili:
I. la mediazione deve svolgersi con la presenza personale delle parti;
II. Deve essere esperita effettivamente la mediazione.
3. A tale conclusione si giunge in base ad un’interpretazione teleologica delle norme che vengono in campo, già affermata in precedenti ordinanze del Giudice, e in particolare, nell’ordinanza del 19/3/2014, r.g. 5210/2010 . In tale provvedimento, si argomentava nel modo seguente, con riferimento alla mediazione demandata dal Giudice:
<< L’art. 5, comma 5 bis d.lgs. n. 28/2010, dispone: ”Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.
L’art. 8 , in tema di ‘ procedimento’, dispone :”1. All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.
Come si vede le due norme sono formulate in modo ambiguo: nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal mediatore e a verificare la volontà di iniziare la mediazione. Tuttavia, nell’art. 5, comma 5 bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo”. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria: non avrebbe molto senso parlare di ‘mancato accordo’ se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria.
A parte le difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase cd preliminare e la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a chi ha pratica della mediazione), data la non felice formulazione della norma, appare necessario ricostruire la regola avendo presente lo scopo della disciplina, anche alla luce del contesto europeo in cui si inserisce (direttiva 2008/52/CE)
In tale prospettiva, ritenere che l’ordine del giudice sia osservato quando i difensori si rechino dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione (chiarimenti per i quali i regolamenti degli organismi prevedono tutti un tempo molto limitato), possano dichiarare il rifiuto di procedere oltre, appare una conclusione irrazionale e inaccettabile.
Si specificano di seguito i motivi:
A. i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’ informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa.
B. la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1-bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’ ‘assistenza degli avvocati’, e questo implica la presenza degli assistiti.
C. ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, vuol dire in realtà ridurre ad un’ inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori.
Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata data un’effettiva chance di raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione.
D. L’informazione sulle finalità della mediazione e le modalità di svolgimento ben possono in realtà essere rapidamente assicurate in altro modo: 1. dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornire ex art. 4 cit., come si è detto; 2. dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati (v. direttiva europea) e, per quanto concerne il Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11 del protocollo Progetto Nausicaa2 ) e da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio Unaltromodo dell’Università di Firenze al piano V, stanza 9 del Palazzo di Giustizia;
E. L’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto.
F. Da ultimo, può ricordarsi che l’art. 5 della direttiva europea citata distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in mediazione rispetto all’invio per una semplice sessione informativa: un ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione disposta dal giudice, viene chiesto alle parti (e ai difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione data dall’art. 1 del d.lgs. n. 28/2010) e non di acquisire una mera informazione e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla volontà o meno di iniziare la procedura mediativa>>.
4. Per la mediazione demandata dal giudice è particolarmente evidente la necessità che la mediazione sia effettivamente esperita (per i motivi indicati alla lettera E del provvedimento riportato); tuttavia, anche per quella che precede il giudizio, è necessario giungere alla medesima conclusione.
E’ vero che nella mediazione demandata il giudice ha già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ in concreto del conflitto, mentre la mediazione che precede il giudizio è imposta dal legislatore sulla base di una valutazione di mediabilità in astratto, in base alla tipologia delle controversie.
Tale differenza, però, non incide minimamente sulla natura della mediazione e quindi non appare rilevante per ritenere che la condizione di procedibilità possa ritenersi svolta con un mero incontro “preliminare” in cui le parti dichiarano la mancanza di volontà di svolgere la mediazione. Anche per la mediazione preprocessuale vale quanto già rilevato circa l’esistenza di informazioni che precedono l’incontro in mediazione già fornite alla parte dal difensore o tramite il difensore; inoltre anche per la mediazione preprocessuale, ciò che l’art.5, co. 1 bis, impone è la mediazione e non una sessione informativa.
Va sottolineato che l’art.8, quando prevede che “Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”, fa riferimento alla possibilità di iniziare il procedimento (con riferimento a eventuali situazioni preliminari che possano ostacolare l’esperimento di mediazione) e non alla volontà delle parti di proseguire, (in tal senso, si sono espressi anche numerosi giudici di merito: Trib. Firenze, sez. specializzata imprese, ord. 17/3/2014 e ord. 18/3/2014, in www.ilcaso.it; Trib. Roma, ord., 30.06.2014, in www.101mediatori.it; Trib. Bologna, ord., 5.6.2014 in www.adrmaeremma.it; Trib. Rimini, ord. 16 luglio 2014).
In particolare il tribunale di Palermo (ord. 16.7.2014) ha approfondito il nodo interpretativo posto dall’art. 5, c. 2 bis del d. lgs. 28/2010, che sembra richiamare espressamente <<il primo incontro >> di cui all’art. 8 c. 1 cit.. Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che la mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro. Il tribunale sottolinea, tuttavia, che ben potrebbe il giudice richiedere che in questo primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettivo. La disposizione normativa in questione, secondo il giudice, se diversamente interpretata, rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa, perché ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla chiusura del procedimento. Secondo tale giudice, pertanto, il mediatore deve verificare la possibilità di iniziare la procedura con riferimento a impedimenti particolari (autorizzazioni e simili) e non alla volontà delle parti.
Le argomentazioni riportate valgono anche per la mediazione obbligatoria che precede il giudizio e non solo per la mediazione demandata dal giudice.
5. Se dunque, il legislatore impone lo svolgimento di una mediazione effettiva anche per la mediazione di cui all’art. 5, co. 1 bis, è necessario che le parti siano presenti di persona (v. sopra punto B).
Nella mediazione è fondamentale, infatti, la percezione delle emozioni nei conflitti e lo sviluppo di rapporti empatici ed è pertanto indispensabile un contatto diretto tra il mediatore e le persone parti del conflitto. Il mediatore deve comprendere quali siano i bisogni, gli interessi, i sentimenti dei soggetti coinvolti, e questi sono profili che le parti possono e debbono mostrare con immediatezza, senza il filtro dei difensori (che comunque assistono la parte).
D’altronde, il principale significato della mediazione è proprio il riconoscimento della capacità delle persone di diventare autrici del percorso di soluzione dei conflitti che le attraversano e la restituzione della parola alle parti per una nuova centratura della giustizia, rispetto ad una cultura che le considera ‘poco capaci’ e, magari a fini protettivi, le pone ai margini.
Il giudice ritiene, per questi motivi, che non sia possibile applicare analogicamente le norme che, ‘nel processo’, consentono alla parte di farsi rappresentare dal difensore o le norme sulla rappresentanza negli atti negoziali. La mediazione può dar luogo ad un negozio o ad una transazione, ma l’attività che porta all’accordo ha natura personalissima e non è delegabile (il giudice, naturalmente, valuterà caso per caso se la mancata presenza personale sia giustificata).
6. Alla luce delle considerazioni che precedono, il giudice ritiene che anche per la mediazione obbligatoria da svolgersi prima del giudizio ex art. 5, co. 1 bis d.lgs.n. 28/2010, è necessario che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.
7. Nel caso in esame, nel procedimento di mediazione non è comparsa la parte attrice, ma un sostituto del difensore di quest’ultima.
Pertanto, occorre rilevare d’ufficio il mancato avveramento della condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5 c.1 bis cit. e assegnare alle parti il termine di 15 giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Oltretutto può rilevarsi che nel caso in esame appare particolarmente adeguato il ricorso a soluzioni amichevoli della medesima in quanto l’interresse della parte attrice potrebbe contemperarsi con quello della parte convenuta, come emerso anche dalla discussione orale, se si considera la vicenda relativa al preliminare di vendita del 2000, con cui la figlia dell’attore si impegnava ad acquistare i terreni di cui si tratta.
La causa va, quindi, rinviata all’udienza sotto indicata ex art 183 cpc.

P.Q.M.

Rilevata l’improcedibilità della domanda ex art. 5, comma 1 bis, d.lgs 28/2010;
dispone
l’esperimento della mediazione ex art.5, co.1 bis, D. lgs. 28/2010 e assegna termine alle parti di quindici giorni per depositare la domanda di mediazione dinanzi a un organismo scelto dalle parti, avuto riguardo ai criteri dell’art. 4, I comma del d.lgs. 28/2010, salva la facoltà delle parti di scegliere concordemente un organismo avente sede in luogo diverso da quello indicato nell’art. 4 citato;
fissa
nuova udienza ex art. 183 cpc per il giorno 29/4/2015 ore 9.30 all’esito della procedura di mediazione;
precisa
che per “mediazione” si intende che il tentativo di mediazione sia effettivamente avviato e che le parti – anziché limitarsi ad incontrarsi e informarsi, non aderendo poi alla proposta del mediatore di procedere – adempiano effettivamente partecipando alla vera e propria procedura di mediazione,
precisa
che le parti dovranno essere presenti dinanzi al mediatore personalmente e munite di assistenza legale di un avvocato iscritto all’Albo.
Invita
Le parti a comunicare preventivamente al Giudice l’eventuale esito positivo della mediazione per favorire l’organizzazione del ruolo.
Il Giudice
Luciana Breggia

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