adr intesa ente di formazione per mediatori civili riconosciuto dal ministero della giustizia

Responsabilità ex art. 96, co. 3, c.p.c. e mancato esperimento del tentativo di conciliazione

Come è noto, il terzo comma dell’art. 96 c.p.c., introdotto dall’art. 45 della legge n. 69/2009, prevede che il giudice, in sede di pronuncia sulle spese di giudizio secondo i principi generali di cui all’art. 91 c.p.c., possa comunque condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento, in favore di controparte, di una somma quantificata in via equitativa.

Si tratta, evidentemente, di una norma concepita per introdurre nell’ordinamento una forma di “danno punitivo”, finalizzata a fungere da deterrente nei confronti di forme  di abuso del processo, e come tale volta a preservare la funzionalità del sistema giustizia, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte, pur se la condanna è prevista a favore di quest’ultima e non dello Stato. La pronuncia ex art. 96 comma 3 c.p.c. presuppone solo il requisito soggettivo della malafede o della colpa grave, elementi che concretizzano, per l’appunto, la temerarietà della lite. In sostanza, dunque, la riforma ha introdotto una vera e propria pena pecuniaria, indipendente tanto dalla istanza della parte interessata quanto dalla allegazione e dalla prova del danno che sia diretta conseguenza della condotta processuale altrui (in tal senso Corte Cassaz., sez. I civ., 30 luglio 2010, n. 17902).

Ora, pur non rappresentando le presenti note sede idonea per un’analisi del vivacissimo dibattito dottrinale che l’introduzione del nuovo comma ha immediatamente suscitato, in particolare circa la natura dell’istituto, va comunque rilevato come palesi appaiano i tratti differenziali della disposizione in parola rispetto al primo comma del medesimo art. 96, il quale dispone che “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”.

Infatti, va in primis rilevato come, ai sensi dell’art. 96, co. 3, la condanna possa essere  pronunciata anche d’ufficio, anche in assenza, dunque, di istanza della parte vittoriosa, che invece rappresenta l’ineludibile presupposto di quanto previsto nel primo comma, dal momento che in quest’ultima disposizione il risarcimento del danno consegue non solo al fatto oggettivo della soccombenza, ma anche all’elemento soggettivo della mala fede (o colpa grave) del soccombente, risultando, quindi, la parte vittoriosa onerata della relativa prova.

Inoltre, l’ipotesi di condanna di cui al terzo comma dell’art. 96 si differenzia nettamente da quella di cui al primo in virtù del suo carattere prettamente “sanzionatorio”, dal momento che il suo ammontare non è direttamente collegato al danno subito dalla parte a favore della quale è pronunciata, ma è rimesso alla valutazione equitativa da parte del giudice (per cui il medesimo non potrà che avere riguardo a tutte le circostanze del caso concreto al fine di calibrare in modo adeguato la somma da attribuirsi alla parte vittoriosa).

Infine, e questo è il punto che in questa sede riveste indubbiamente l’importanza principale, nell’art. 96, co. 3, non risultano individuate in alcun modo le condotte sanzionabili. Non potendosi ritenere che il legislatore abbia inteso accordare al giudicante la facoltà di irrogare la sanzione in parola sulla base del mero fatto della soccombenza, senza cioè una plausibile e circostanziata giustificazione, si è ritenuto, da parte di non pochi interpreti, che la condanna possa essere pronunciata soltanto ove ricorrano i presupposti di cui al primo comma del medesimo art. 96 (vale a dire qualora il soccombente abbia agito o resistito spinto da mala fede o colpa grave). D’altra parte, ad una soluzione siffatta conduce il rilevo che, a suo tempo, il comma di nuovo conio sia stato inserito in una disposizione rubricata “Responsabilità aggravata”.

Sulla base delle sintetiche premesse che precedono, sembra opportuno interrogarsi – nella presente sede – sul fatto se, ed eventualmente fino a che punto, possa ravvisarsi l’elemento soggettivo della mala fede nella circostanza per cui una delle parti, anziché recepire l’invito dell’altra all’utilizzo di uno strumento come la mediazione, che avrebbe potuto consentire l’approdo ad una soluzione alternativa della controversia, abbia preferito adire il giudice ovvero costringere, con il proprio contegno passivo, l’altra a percorrere le ordinarie vie giudiziali.

Sul piano concettuale, non sembrano sussistere dubbi insuperabili.

In fondo un atteggiamento doloso o gravemente colposo in capo a chi abbia agito o resistito temerariamente può ravvisarsi in un comportamento o in valutazioni attinenti non soltanto alla fase prettamente processuale ma anche alle fasi che precedono il giudizio medesimo, tra le quali un particolare rilievo deve essere attribuito al tentativo di mediazione, specialmente (ma non solo) nelle ipotesi in cui quest’ultimo è  di necessario esperimento ex lege.

Sotto il profilo attinente al piano testuale, però, l’utilizzo da parte del legislatore della locuzione “in ogni caso” sembrerebbe implicare che la condanna ai sensi del terzo comma art. 96 possa essere irrogata sia nelle ipotesi di cui ai primi due commi della medesima disposizione sia in ogni altro caso, vale a dire in tutti le circostanze in cui detta condanna appaia ragionevole.

Interpretazione estrema? Probabile. Ma – come tra breve si mostrerà – non manca in giurisprudenza chi abbia effettivamente opinato in tal senso.

La prima pronuncia rilevante in materia, Tribunale di S. Maria Capua Vetere, sent. 23 dicembre 2013, ha rilevato come, in sostanza, l’ambito concettuale entro il quale il legislatore ha mostrato ormai di muoversi è quello che tende ad individuare nel ricorso alle vie giudiziarie una sorta di extrema ratio per la risoluzione di una sempre più vasta gamma di controversie civili, con la conseguenza che la  diserzione, senza giustificato motivo, del procedimento di mediazione può senz’altro configurarsi quale comportamento omissivo passibile di condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.

In altri termini, il giudice ha ritenuto ravvisabile l’elemento soggettivo della mala fede in capo ad una delle parti la quale “…anziché recepire l’invito della controparte che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, abbia preferito adire il Tribunale”.

Secondo la pronuncia in esame, infatti, detto comportamento andrebbe ad evidenziare un’ottica conflittuale antitetica alla nuova prospettiva alla quale sembra decisamente orientato il legislatore nell’attuale fase storica, come dimostrato peraltro, dalle reintroduzione dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione a seguito del c.d. “decreto del fare” e relativa conversione.

Nel caso di specie, i ricorrenti avevano proposto ricorso per accertamento tecnico preventivo ai sensi dell’art. 696 c.p.c. al fine di accertare le cause di macchie ed infiltrazioni presenti nell’unità abitativa da essi condotta in locazione. La parte resistente, tuttavia, eccepiva la mancanza dei presupposti per disporre il medesimo accertamento propedeutico al giudizio, avendo essa stessa manifestato piena disponibilità ad accertare le cause delle asserite infiltrazioni al fine di eventualmente eliminarle, incontrando, però, un comportamento poco collaborativo ed ostruzionistico da parte dei ricorrenti.

Ritenuti condivisibili i rilievi della convenuta e rigettata perciò la domanda dei ricorrenti, il giudice condanna gli stessi ex art. 96, co. 3, c.p.c., in quanto “…si sarebbe potuto agevolmente risolvere il problema emerso nel corso del rapporto locatizio senza ricorrere all’autorità giudiziaria, semplicemente raccogliendo l’invito della resistente a far visionare l’immobile locato. Emblematica del comportamento posto in essere dai ricorrenti, contrario ai doveri di buona fede contrattuale, è la circostanza che il ricorso per accertamento tecnico preventivo è stato depositato il 23.10.2013, ovvero il giorno immediatamente successivo alla trasmissione del fax (del 22.10.2013) con il quale la resistente specificamente diffidava i ricorrenti, a mezzo del proprio legale, a prendere contatti al fine di poter risolvere il problema dell’accesso all’immobile, stante la persistente irreperibilità degli stessi. Infatti, anziché recepire l’invito della locatrice, che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, si è preferito adire il Tribunale, in un’ottica conflittuale decisamente lontana dalla nuova prospettiva nella quale, anche alla luce della recente reintroduzione con il c.d. decreto del fare della mediazione obbligatoria, appare muoversi il legislatore negli ultimi tempi, prospettiva che attribuisce al difensore un ruolo centrale, prima ancora che nel giudizio, nell’attività di mediazione delle controversie – al punto da prevedere, con le modifiche operate dal D.L. n. 69/2013 che gli avvocati siano di diritto mediatori e debbano assistere la parte nel procedimento di mediazione – prospettiva che tende sempre di più ad individuare nel ricorso al Tribunale l’extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili”.

Successivamente, il Tribunale di Roma (Sez. XII civ., sent. 4140/2014) ha condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. un’assicurazione in considerazione dei comportamenti da questa tenuti, tanto nella fase della mediazione quanto in quella del giudizio.

Osserva infatti il giudice che detta parte “da un lato, non si era presentata, e senza giustificarsi, nella fase mediatoria”; dall’altro, aveva resistito alla domanda attorea “…pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle tesi sostenute e nel difetto della normale diligenza con cui era stata istruita la pratica assicurativa”.

Il medesimo Tribunale di Roma, sez. XIII civ., con la sentenza 29 maggio 2014 ha affermato che la parte (nel caso di specie ancora una compagnia di assicurazione) che non partecipa al procedimento di mediazione adducendo quale giustificazione la fondatezza delle proprie ragioni, ostacola il corretto esplicarsi degli strumenti conciliativi e può essere condanna al pagamento di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio e al doppio delle spese processuali per responsabilità aggravata ex art. 96, co. 3, c.p.c.

Secondo il Tribunale di Roma, la parte non può limitarsi ad opporre quale giustificato motivo della mancata partecipazione alla mediazione, l’asserzione aprioristica che la propria posizione sia fondata rispetto alle tesi della controparte, poiché ammettendo ciò sussisterebbe sempre e comunque in capo a chiunque un giustificato motivo per non comparire.

Poiché, invece, la mediazione nasce da un contrasto tra le parti che il mediatore tenta di dirimere riallacciando canali di dialogo, non può esserci alcuna presa di posizione preconcetta fondata su ragioni proprie occorrendo, invece, una partecipazione effettiva.

In ordine alla condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c., l’apparato motivazionale della pronuncia in esame rileva come “…in primo luogo non è più necessario allegare e dimostrare  l’esistenza di un danno che abbia tutti i connotati giuridici per essere ammesso a risarcimento essendo semplicemente previsto che il giudice condanna la parte soccombente al pagamento di un somma di denaro;

non si tratta di  un risarcimento ma di un indennizzo (se si pensa alla parte a cui favore viene concesso) e di una punizione (per aver appesantito inutilmente il corso della giustizia, se si ha riguardo allo Stato), di cui viene gravata la parte che ha agito con imprudenza, colpa o dolo;

l’ammontare della somma è lasciata alla discrezionalità del giudice che ha come parametro di legge l’equità per il che non si potrà che avere riguardo, da parte del giudice, a tutte le circostanze del caso per tarare in modo adeguato la somma attribuita alla parte vittoriosa;

a differenza delle ipotesi classiche (primo e secondo comma) il giudice provvede ad applicare quella che si presenta né più né meno che come una sanzione d’ufficio a carico della parte soccombente e non (necessariamente) su richiesta di parte;

infine, la possibilità di attivazione della norma non è necessariamente correlata alla sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma. Come rivela in modo inequivoco la locuzione in ogni caso la condanna di cui al terzo comma può essere emessa sia nelle situazioni di cui ai primi due commi dell’art. 96 e sia in ogni altro caso. E quindi in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole .

Sulla base dei presupposti che precedono, il giudice, in sede di concretizzazione del precetto, osserva che “…vengono in mente i casi in cui la condotta della parte soccombente sia caratterizzata da colpa semplice (ovvero non grave, che è l’unica fattispecie di colpa presa in esame dal primo comma), ovvero laddove una parte abbia agito o resistito senza la normale prudenza (fattispecie diversa da quelle previste dal primo e secondo comma).

Poiché non è pensabile che possa essere sanzionata la semplice soccombenza, che è un fatto fisiologico della contesa processuale, è necessario che esista qualcosa di più rispetto ad essa, tale che la condotta soggettiva risulti caratterizzata, come in questo caso, da imprudenza e colpa (la sussistenza dei quali potrà essere ravvisata anche applicando i ben noti parametri della prevedibilità ed evitabilità dell’inevitabile rigetto della posizione, domanda o eccezioni, della parte soccombente).

Come detto, invece, non è necessario che vi sia stato a carico della parte vittoriosa un danno.

O meglio non si tratta di una condizione necessaria come nei casi del primo e del secondo comma dell’articolo in commento.

Naturalmente laddove risulti un danno (patrimoniale o non patrimoniale) questo contribuirà insieme a tutte le altre circostanze alla formazione della valutazione del giudice sul punto della responsabilità della parte condannata, specialmente per quanto riguarda il quantum della somma da porle a carico.

Quanto all’elemento soggettivo, ritiene il giudice che non sia richiesto né il dolo (mala fede) né la colpa grave, poiché tali situazioni sono previste per fattispecie diversa (il primo comma dell’art. 96 c.p.c.) ma che tuttavia un qualche stato soggettivo censurabile, dolo, colpa (di qualsivoglia intensità) o imprudenza debba comunque sussistere”.

Come può chiaramente evincersi da una interpretazione come quella appena riportata, dalla locuzione “in ogni caso”, forse utilizzata dal legislatore con eccessiva disinvoltura, dipende l’interpretazione dell’intervento legislativo e, soprattutto, il suo ambito di applicazione, vale a dire se le ipotesi di riferimento coincidano con i primi due commi del medesimo  art. 96, dai cui presupposti dipenderebbe la propria incidenza, o se, al contrario, si intenda generalizzare lo spettro della condanna a tutti i casi in cui il giudice, definendo il processo, abbia a pronunciare sulle spese di lite, prescindendo, in particolare, dalla sussistenza di un illecito caratterizzato sul piano soggettivo da dolo o colpa grave.

In ogni caso, peraltro, la condanna ex art. 96, co. 3, c.p.c. non sembra possa considerarsi se non in stretta correlazione con gli altri strumenti progressivamente introdotti al fine di deflazionare i carichi della giustizia civile, dal momento che mira ad un maggior contrasto di iniziative giudiziarie non supportate da un reale ed adeguato interesse in capo alla parte che le propone (o che senza alcun costrutto ragionevolmente ipotizzabile resiste).

Sembra dunque possano condividersi le coordinate fondamentali evidenziate dalla giurisprudenza di merito e di legittimità secondo cui, in linea generale:

l’aver subito un’azione manifestamente infondata per mala fede o colpa grave, ovvero per inosservanza della normale prudenza nei casi previsti dall’art. 96, co. 2, c.p.c. può configurare di per sé e secondo le circostanze del caso un danno risarcibile. Si è in sostanza inserita nel sistema una fattispecie di responsabilità da abuso del diritto d’azione ex se causativa di danno non patrimoniale, consistente nell’aver subito una iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario, alla stessa stregua del danno oggettivo per la durata irragionevole del processo contemplato dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto) (Cfr. Tribunale di Salerno 27 maggio 2010).

Inoltre, ogni forma di abuso del processo anche se limitata comporta la sottrazione di tempo e risorse alla trattazione di altri giudizi e determina sprechi ingiustificati ed insostenibili di una risorsa sempre più scarsa come è quella del giudizio civile (Cfr. Tribunale di Verona 12 gennaio 2012).

Si può quindi affermare che la pronuncia ex art. 96, co. 3, c.p.c., introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia deflazionando il contenzioso ingiustificato, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte pur se la condanna è prevista a favore della parte e non dello Stato (Cfr. Tribunale di Reggio Emilia 18 aprile 2012).

In merito alla liquidazione del danno, si impone al giudice di osservare un criterio equitativo in applicazione del quale la responsabilità patrimoniale della parte in mala fede ben può essere (anche) calibrata sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, sempre con il limite della ragionevolezza (Cfr. Corte Cassaz., sez. VI civile, 30 novembre 2012).

Può quindi affermarsi, in conclusione, ferme restando le problematiche interpretative derivanti da una disposizione concepita nei termini del terzo comma dell’art. 96 c.p.c., che ben potrà trovare applicazione il meccanismo sanzionatorio in questione nelle ipotesi in cui sia rintracciabile l’elemento soggettivo della mala fede in capo alla parte che anziché aderire al procedimento di mediazione, con concrete prospettive di risoluzione stragiudiziale della controversia, abbia preferito adire comunque il Tribunale con evidenti finalità dilatorie, certamente poco conciliabili, ferma l’intangibilità del diritto all’azione, con l’attuale trend legislativo, chiaramente ispirato ad una immanente – ancorchè a volte discutibile – logica deflattiva.

dott. Luigi Majoli

 

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mediazione obbligatoria conciliazione

Tribunale di Palermo – sez. I civile: Ordinanza 16 luglio 2014

Il Tribunale di Palermo conferma l’orientamento favorevole all’effettività della mediazione

Commento

Con l’ordinanza in commento, il Tribunale di Palermo oltre a riproporre l’ormai consueto schema fondato sull’utilizzo combinato degli strumenti che il legislatore ha ritenuto di fornire ai giudici per favorire al massimo la fuoriuscita dai processi pendenti, torna con forza sull’esigenza di effettività del tentativo di mediazione delegata (e, per estensione, di qualsiasi tentativo di mediazione…) originariamente affermata dalla c.d. giurisprudenza fiorentina (cfr. ordd. 17 e 19 marzo 2014).

Sotto il primo profilo, il Giudice, premesso che sussistono nel caso di specie tutti i presupposti per la formulazione di una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. (e con gli effetti, aspetto quest’ultimo di particolare rilevanza, di cui all’art. 91 c.p.c.), anticipa che “…comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrà la mediazione ex officio iudicis”, strumento quest’ultimo che deveritenersi espressione del potere attribuito dalla legge al giudice di “…imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili”.

Per quanto concerne poi gli aspetti relativi alle modalità del tentativo di mediazione, premesso che occorre domandarsi che cosa occorra in realtà che risulti espletato dalle parti affinchè l’ordine del giudice possa considerarsi adempiuto, il Tribunale mostra di aderire all’impostazione esaustivamente esplicata dai giudici fiorentini nelle ben note ordinanze 17 e 19 marzo, in base alla quale il tentativo deve essere effettivo.

Il Tribunale, dunque, ribadisce che non avrebbe alcuna ragion d’essere una dilazione del processo civile per un mero adempimento burocratico, non potendosi in altro modo definire un tentativo che si risolva esclusivamente nella comparizione delle parti (o, peggio, dei soli avvocati delle stesse) dinanzi al mediatore per esprimere il proprio “no” aprioristico ad aprire un tavolo di discussione.

Ciò, evidentemente, finirebbe con lo svilire il concetto stesso di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Pertanto, occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione, ponendosi, altrimenti, un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione.

In sostanza, dunque, come da ormai consolidata giurisprudenza, si individuano le ragioni della “impossibilità di iniziare la procedura”, di cui all’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010, nelle sole questioni preliminari o pregiudiziali di natura oggettiva, avendo cura di ribadire come non sia previsto in alcun modo che le parti manifestino una sorta di volontà di partecipazione al tentativo di mediazione effettivamente inteso.

Infatti, il Tribunale rileva come sussista “…un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avveratase il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.”. Pertanto, “…il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro. Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di  mediazione sia stato effettivo”.

Naturalmente, una lettura frettolosa ed approssimativa dell’art. 8 D.lgs 28/2010  sembrerebbe giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non  intendessero effettuare un vero tentativo di conciliazione (verosimilmente al solo scopo di non versare l’indennità di mediazione prevista per il rispettivo scaglione di riferimento) ben potrebbero esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione, con conseguente chiusura del procedimento. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe però a dir poco assai discutibile, in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa.

Ragion per cui, il giudice siciliano ritiene, come anticipato poc’anzi, che “…Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilitàdi iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo)”.

 

Testo integrale

TRIBUNALE DI PALERMO  –  Sezione prima civile

Il Giudice

sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 23.7.2014;

OSSERVA

Parte attrice ha avanzato domanda di risarcimento danni (per € 30.000) nei confronti dell’Università degli Studi di …… lamentando una negligenza ed un’imperizia professionale di personale sanitario dell’Università in questione, personale che, nel rimuovere un catetere venoso precedentemente applicato nella mano destra, avrebbe compiuto un’errata manovra causando la rottura dell’agocannula all’interno della vena, con conseguente necessità di intervento chirurgico di asportazione del tratto venoso trombizzato.

Costituendosi, l’Università convenuta ha dedotto l’inesistenza di alcun comportamento colposo del suo personale sanitario e parasanitario, che si sarebbe scrupolosamente attenuto, nel praticare la terapia infusionale oggetto del giudizio, a quella che è la tecnica generalmente seguita in casi analoghi.

In fase istruttoria è stata disposta CTU. Nell’elaborato depositato dal consulente d’ufficio si legge che “è da censurare il mancato riconoscimento della rottura dell’agocannula, da cui è derivato il realizzarsi di una tromboflebite che ha costretto l’attrice, dopo circa un mese, a far rientro presso il pronto soccorso ed essere sottoposta alla rimozione chirurgica del corpo estraneo. Sulla base di quanto riferito è evidente la sussistenza del nesso di causalità materiale tra l’evento dannoso occorso in occasione del trattamento sanitario presso il Policlinico universitario di ….. (frammento di catetere venoso erroneamente lasciato in vena) in data 12.09.1998 e le lesioni accertate nei giorni seguenti (algia e gonfiore a causa dell’infiammazione instauratasi)… La condotta del sanitario che ha rimosso A.V.P.(accertamento venoso periferico) appare censurabile per non avere appurato la integrità dell’AVP all’atto della rimozione. Il tempestivo riconoscimento della rottura del catetere avrebbe infatti permesso di attivare la procedura di rimozione chirurgica nell’immediatezza, impedendo di fatto l’oltremodo perdurare della sintomatologia algico disfunzionale a carico dell’arto destro sino al 29.10.2008, in occasione del secondo accesso al Pronto soccorso allorquando venne rimosso chirurgicamente il corpo estraneo”.

Il CTU ha poi accertato la sussistenza di un’inabilità temporanea assoluta di giorni 20 e di un’inabilità temporanea assoluta di altri giorni 20, nonché (in considerazione di un esito cicatriziale chirurgico in prossimità del polso destro di circa 3 cm di lunghezza e di una sintomatologia algica) di un danno biologico del 2%.

Ed a conclusioni sostanzialmente identiche era già arrivato altro consulente d’ufficio nel giudizio in passato instaurato dall’attrice per gli stessi fatti nei confronti di altro ente convenuto e conclusosi con sentenza di questa Sezione del 27.4.2007 dichiarativa del difetto di legittimazione passiva di tale convenuto.

Orbene, ciò premesso, si ritiene adesso opportuno formulare alle parti, ex art. 185 bisc.p.c. e con effetti ex art. 91 c.p.c., la seguente proposta conciliativa:

art. 1) pagamento ad opera di parte attrice in favore di parte convenuta della somma di € 7.032,60 (somma calcolata tenendo conto di quanto accertato dal CTU, dei valori risultanti dalle tabelle del Tribunale di Milano sulla liquidazione del danno non patrimoniale, nonché della rivalutazione monetaria e degli interessi);

art. 2) rinunzia ad opera delle parti a tutte le domande, eccezioni e difese di cui al presente giudizio;

art. 3) pagamento ad opera di parte convenuta in favore di parte attrice della somma di € 1.620,43 a titolo di spese di lite.

L’accettazione della detta proposta conciliativa comporterebbe per parte attrice il vantaggio di conseguire integralmente quanto riconosciuto dal CTU (sebbene ciò non corrisponda a quanto dalla stessa parte attrice richiesto) e di ottenere il rimborso delle spese di lite fino ad oggi sostenute e comporterebbe, altresì, per parte convenuta, il vantaggio di non corrispondere somme ulteriori rispetto a quelle oggetto dell’accertamento del CTU e di bloccare ad oggi (escludendo quindi le spese per la fase decisoria del presente processo e le spese per eventuali gradi successivi del giudizio) le spese di lite da pagare in favore di parte attrice.

Va quindi fissata apposita udienza al fine di verificare la posizione delle parti sulla detta proposta conciliativa.

Comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrà la mediazione ex officio iudicis.

Sul punto è bene ricordare che, al di là dei casi di mediazione obbligatoria ex lege, la legge 98/13 ha pure stabilito che il giudice può – anche in grado di appello e valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti – disporre l’esperimento del procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda. La legge 98/13 attribuisce quindi al giudice il potere di imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili;

Peraltro, la mediazione ex officio iudicis può essere disposta anche per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge 98/13 (e ciò in forza del principio per cui tempus regit actum ed in quanto il nuovo comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 attribuisce un nuovo potere discrezionale al magistrato che va considerato come una nuova facoltà processuale e quindi applicabile dal momento dell’entrata in vigore della norma a tutti i procedimenti, compresi quelli pendenti) nonché pure per le materie diverse da quelle assoggettare a mediazione obbligatoria ex lege in base al comma 1 bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 (il che sembra del tutto evidente se si considera che per le materie di cui al citato comma 1 bis è già prevista una forma di mediazione obbligatoria ed a nulla varrebbe la mediazione ex officio iudicis).

Con particolare riferimento ai giudizi pendenti, va poi osservato che nelle materie già selezionate dal Legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege (come la responsabilità medico-sanitaria rivendicata nel presente giudizio) può ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità, avendo già la normativa formulato ex ante una prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione.

A ciò si aggiunga che la mediazione ex officio iudicis può poi essere disposta anche se una delle parti del processo è una Amministrazione Pubblica. Nelle fonti normative non si rinvengono, infatti, disposizioni che escludono le pubbliche amministrazioni dall’ambito di applicazione della disciplina introdotta. Pertanto, la normativa in materia di mediazione in ambito civile e commerciale trova applicazione anche in riferimento al settore pubblico, come pure si legge nella circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 9/2012.

È bene adesso svolgere qualche considerazione in relazione alle conseguenze derivanti dalla mancata attivazione ad opera delle parti della mediazione prescritta dal giudice. La soluzione preferibile è quella che ritiene necessaria l’emissione di una sentenza di improcedibilità della domanda, restando però da chiarire se tale tipo di decisione sia da ritenere non adottabile ogniqualvolta venga instaurato il procedimento di mediazione disposto dal giudice o se occorra qualcosa di più per ritenere adempiuto l’ordine giudiziale.

Secondo Trib. Firenze, sez. II civile, 19.3.2014 le condizioni verificatesi le quali può ritenersi correttamente eseguito l’ordine del giudice e può quindi considerarsi formata la condizione di procedibilità sono: 1) che vi sia stata la presenza personale delle parti; 2) che le parti abbiano effettuato un tentativo di mediazione vero e proprio (ed anche per Trib. Firenze, sez. spec. impresa, 17.3.2014 occorre la comparizione personale delle parti).

Nel suo articolato e ben strutturato ragionamento il giudice fiorentino (ord. 19.3.2014) parte dalla considerazione per cui l’art. 5 e l’art. 8 del d.lgs. 28/10 sono formulati in modo ambiguo, posto che nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal mediatore ed a verificare la volontà di iniziare la mediazione (l’art. 8 prevede, infatti, che “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”). Tuttavia, nell’art. 5, comma 5 bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo”. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria. Non avrebbe molto senso, secondo il Tribunale di Firenze, parlare di ‘mancato accordo’ se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria. Ciò a prescindere dalle difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase c.d. preliminare e la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a chi ha pratica della mediazione), data la non felice formulazione della norma.

Pertanto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario, al fine di spiegare la detta ambiguità interpretativa, ricostruire la regola avendo presente lo scopo della disciplina, anche alla luce del contesto europeo in cui si inserisce (direttiva 2008/52/CE).

Sei sono gli argomenti che hanno portato il Tribunale di Firenze a ritenere necessaria, per la formazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale dopo la mediazione ex officio iudicis, la presenza effettiva delle parti nel procedimento di mediazione e l’effettivo avvio di un sostanziale tentativo di mediazione:

1) i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa;

2) la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1 bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la presenza degli assistiti;

3) ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata un’effettiva chancedi raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione;

4) l’informazione sulle finalità della mediazione e le modalità di svolgimento ben possono in realtà essere rapidamente assicurate in altro modo: 1. Dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornire ex art. 4 cit., come si è detto; 2. dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati (v. direttiva europea) e, per quanto concerne il Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11 del protocollo Progetto Nausica 2 ) e da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio Unaltromodo dell’Università di Firenze;

5) l’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto;

6) l’art. 5 della direttiva europea 2008/52/CE distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in mediazione rispetto all’invito (sempre da parte del giudice) per una semplice sessione informativa: un ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione disposta dal giudice viene chiesto alle parti (e ai difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione  data dall’art. 1 del d.lgs. n. 28/2010) e non di acquisire una mera informazione e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla volontà o meno di iniziare la procedura mediativa.

Alla luce delle considerazioni che precedono il giudice fiorentino ha considerato quale criterio fondamentale la ragion d’essere della mediazione, che ruota attorno all’esigenza di tentare realmente di pervenire ad una soluzione non giudiziale della controversia, ed ha affermato la necessità che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.

Un’altra strada interpretativa è quella seguita (allo stato) dal Tribunale di Milano (strada, però, inaugurata prima della presa di posizione di Firenze): la condizione di procedibilità è soddisfatta anche quanto sia tenuto solo il primo incontro di mediazione senza accordo(l’incontro di cui all’art. 8 comma I d.lgs. 28/2010). Le differenze non sono di scarsa rilevanza. Nel primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Si tratta, dunque, secondo il Tribunale di Milano, dell’incontro dedicato alla cd. valutazione di mediabilità e, cioè, dell’anticamera del procedimento mediativo.

Secondo il primo indirizzo illustrato (Tribunale di Firenze), per soddisfare la condizione di procedibilità questo primo incontro non basta: occorre dare effettivamente inizio alla procedura. Per il secondo indirizzo segnalato (Tribunale di Milano) questa prima relazione al tavolo di mediazione è già sufficiente.

La lettura che conferisce maggiore razionalità all’istituto è certamente quella fiorentina e ciò almeno per quanto riguarda l’effettivo tentativo di mediazione, considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto (che può pure essere l’avvocato difensore).

Sussiste, però, un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2 bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.

Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro.

Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettivo.

Certo, è vero che può sembrare che in questo primo incontro il mediatore potrebbe non avere neppure la possibilità di tentare un accordo se le parti non vogliono che ciò accada. Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 8 del nuovo d.lgs. 28/10, “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.

Una prima lettura delle disposizioni normative pare giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non vogliono effettuare un vero tentativo di conciliazione (magari per non pagare il compenso all’organismo di mediazione) ben possono esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione e il tutto finisce lì. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe molto discutibile in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa. Il mediatore potrebbe pure pensare, alla luce di tale disposizione normativa, di non potere neppure tentare di verificare se effettivamente le posizioni delle parti sono inconciliabili. Se, infatti, in quest’ultimo caso si può parlare di un fallimento della mediazione, nel caso teoricamente consentito dal legislatore di manifestazione (anche ad opera di una sola delle parti) della sua volontà contraria alla mediazione vi sarebbe un aborto legale della mediazione. Peraltro, se si ritiene che ogni parte può impedire fin dall’inizio l’effettivo svolgimento del procedimento di mediazione, ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla chiusura del procedimento e gli altri sarebbero tutti in una posizione di soggezione. Ed è da credere che tale diritto potestativo verrebbe spesso esercitato se si considera che, come accennato, è stato aggiunto il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10, secondo cui nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.

Tuttavia, una corretta interpretazione (in linea con la ratio della direttiva europea – ed è noto che gli operatori nazionali sono tenuti, secondo la Corte di giustizia UE, a tentare un’interpretazione delle disposizioni nazionali conforme alle norme europee – che mira ad agevolare il più possibile la soluzione delle controversie in modo alternativo a quello giudiziario) è quella che ritiene che il mediatore, nell’invitare le parti e i loro procuratori a esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, deve verificare se vi siano i presupposti per poter procedere nell’effettivo svolgimento della mediazione (il cui procedimento comunque già inizia con il deposito dell’istanza di mediazione). Tali presupposti sono, ad esempio, l’esistenza di una delibera che autorizza l’amministratore di condominio a stare in mediazione (così come previsto dalla legge 220/12) o l’esistenza di un’autorizzazione del giudice tutelare se a partecipare alla mediazione deve anche essere un minore ovvero la presenza di tutti i litisconsorti necessari. Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità”di iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo).

In conclusione, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa formulata dal giudice, verrà disposta la mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, condizione che si riterrà formata soltanto se nel primo incontro il tentativo di mediazione sarà effettuato dalle parti in modo effettivo.

Né rileva che la mediazione sia già stata tentata in via preventiva, in forza del d.lgs. 28/2010 nella versione antecedente la declaratoria di illegittimità costituzionale da parte della Consulta, in quanto parte convenuta non si è presentata in quella procedura (mentre dovrà presentarsi nella futura, eventuale mediazione ex officio iudicis) e poiché, dopo l’espletamento della CTU, vi sono ora maggiori possibilità di addivenire ad una soluzione transattiva basata sulle risultanze dell’accertamento peritale.

P.Q.M.

formula alle parti la proposta conciliativa indicata in parte motiva;

fissa per la verifica della posizione delle parti sulla detta proposta conciliativa l’udienza del giorno 29.9.2014, ore 12.00, riservandosi di disporre nell’indicata udienza, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa, l’esperimento del procedimento di mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, che si riterrà formata soltanto se nel primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettuato dalle parti in modo effettivo.

Si comunichi.

Palermo, 16.7.2014

Il Giudice

Michele Ruvolo

 

 

 

 

mediazione obbligatoria conciliazione

Nasce a Verona il primo protocollo relativo alla mediazione civile obbligatoria

Commento:

La collaborazione tra  Magistrati del Tribunale di Verona, giuristi e l’Osservatorio Giustizia Civile del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona, ha portato all’elaborazione del progetto “Valore Prassi”.

Si tratta di un vademecum sulla mediazione civile obbligatoria, che si propone di fornire interpretazioni condivise su aspetti controversi che involgono il rapporto “procedimento di mediazione – processo civile”.

In tale prospettiva, il protocollo contiene proposte di rilevante impatto pratico-applicativo, quali, ad esempio, la sussistenza dell’obbligo di attivare la mediazione anche con riferimento alle eventuali domande relative a controversie di cui all’art. 5, comma 1 bis del D.Lgs. 28/2010, che siano proposte in corso di causa, o, sulla definizione delle modalità e dei termini per far valere la violazione del criterio della competenza per territorio dell’organismo di mediazione.

Inoltre, con riguardo al profilo operativo, il protocollo contiene svariate  indicazioni circa i presupposti che possono consigliare il ricorso alla mediazione demandata dal giudice o relative al rapporto tra mediazione demandata dal giudice e conciliazione giudiziale.

In sostanza, dunque, l’obiettivo degli ideatori del protocollo è quello di favorire l’applicazione di un istituto che certamente può contribuire a migliorare lo stato della giustizia civile nel nostro Paese, obiettivo che appare, allo stato attuale, incontestabilmente ineludibile.

 

Testo integrale:

Le proposizioni che seguono, in aderenza alla finalità propria dei protocolli degli osservatori sulla giustizia civile, sono meramente indicative e pertanto non possono essere intese in nessun modo come vincolanti.

1.Accesso alla mediazione (art. 4, comma 1)

  1. Il criterio di competenza per territorio dell’organismo di mediazione fissato dall’art. 71 quater, secondo comma, disp. att. c.c., è speciale rispetto a quello di cui all’art. 4, comma 1 D. Lgs. 28/2010.
  2.  E’ opportuno che nei casi di mediazione obbligatoria ex lege, la parte che intenda rilevare l’incompetenza per territorio dell’organismo di mediazione lo faccia nel corso della prima seduta davanti al mediatore adito o, qualora non intenda comparire, prima dello svolgimento di essa, mediante comunicazione scritta che individui l’organismo di mediazione ritenuto competente poiché il silenzio sul punto in fase di mediazione potrebbe essere inteso come accettazione della competenza dell’organismo adito.
  3.  Il rilievo di incompetenza per territorio dell’organismo di mediazione adito va valutato dal giudice della causa di merito, qualora la parte che ha promosso la mediazione non vi abbia aderito, e può essere distinto dall’eccezione di incompetenza per territorio del giudice adito, dovendo esse deciso sulla base dell’istanza di mediazione.

2.Ambito di applicazione della mediazione c.d. obbligatoria (art. 5, comma 1 bis) 

  1. L’individuazione delle materie del contendere ai fini dell’applicazione dell’art. 5 comma 1 bis del d. lgs. 28/2010 va compiuta con riferimento alla domanda, e cioè alla sostanza della pretesa ed ai fatti dedotti a fondamento di questa (criterio del c.d. petitum sostanziale), come evincibile dalla istanza di mediazione e, qualora il giudizio sia stato già introdotto, anche sulla base della prospettazione del convenuto.
  2. Per controversie in materia di diritti reali devono intendersi quelle aventi ad oggetto i diritti reali in  senso stretto, con esclusione, quindi, delle controversie riguardanti i contratti traslativi di tali diritti o aventi ad oggetto la nullità, l’annullamento o la risoluzione degli stessi.
  3. Per controversie in materia di contratti assicurativi devono intendersi tutte quelle che concernono l’interpretazione, la validità di un contratto avente ad oggetto una garanzia assicurativa, fatta salva l’esclusione delle controversie relative alla esecuzione di contratti assicurativi della responsabilità civile derivante da circolazione di veicoli.
  4. Per controversie in materia di contratti bancari devono intendersi quelle relative a contratti aventi ad oggetto operazioni o servizi bancari (non rientra tra esse, pertanto, la controversia relativa ad una fideiussione stipulata a garanzia di crediti bancari).
  5. Per controversie in materia di contratti finanziari devono intendersi quelle relative ad uno dei contratti previsti dal d. lgs. 58/1998, purchè una delle parti di esso sia un operatore professionale.
  6. Si ritiene preferibile l’interpretazione secondo cui rientrano tra le controversie in materia di uno dei contratti previsti dall’art. 5, comma 1, del d. lgs. 28/2010 anche quelle che abbiano ad oggetto la responsabilità pre – contrattuale relativa ad uno dei rapporti previsti da tale norma.
  7. Rientrano tra le controversie “in materia di” uno dei contratti previsti dall’art. 5 comma 1 bis del d. lgs. 28/2010 anche le azioni in surroga derivanti da uno di quei contratti nonchè quelle fondate sulla cessione di uno di essi e quelle fondate sulla cessione di un credito derivante da uno di quei rapporti. Non vi rientrano invece le azioni di regresso.
  8. Non rientrano nelle controversie di cui all’art. 71 quater disp. att. c.c. le controversie dirette alla nomina di un amministratore giudiziario ex art. 1129 primo comma c.c. e quelle dirette ad ottenere la revoca dell’amministratore di condominio poiché si svolgono con le forme del procedimento in camera di consiglio.
  9. Nelle controversie dirette a far accertare l’acquisto di un diritto reale per intervenuta usucapione, nelle quali possano esservi dubbi sul numero o sulla identità dei soggetti passivamente legittimati, è opportuno che il giudizio venga introdotto prima dell’espletamento della mediazione, al fine di verificare i predetti particolari. La stessa avvertenza vale per le controversie dirette a far accertare l’acquisto di un diritto reale per intervenuta usucapione nelle quali, a causa del numero dei soggetti da convenire in giudizio, sia necessario ricorrere alla notifica per pubblici proclami.
  10. Anche nelle controversie relative a diritti reali, per le quali vi sia la  necessità di trascrivere la domanda giudiziale, è opportuno che il giudizio venga promosso prima di svolgere la mediazione.

3. Istanza di mediazione e decadenza (Art. 5, comma 6).

  1.  Nel caso in cui si intenda iniziare il giudizio di merito conseguente all’ordinanza di accoglimento di una domanda cautelare di tipo conservativo, e tale giudizio rientri in uno di quelli soggetti a mediazione obbligatoria, l’istanza di mediazione non impedisce la decorrenza del termine previsto per l’introduzione del giudizio di merito poiché l’art. 5, ultimo comma, del d. lgs. 28/2010 deve intendersi riferito alle decadenze sostanziali e non anche a quelle processuali.
  2. La medesima indicazione di cui al punto precedente vale nel caso in cui si intenda proporre il giudizio di merito possessorio.
  3. Nel caso in cui si intenda impugnare una delibera di assemblea condominiale la comunicazione dell’istanza di mediazione ha l’effetto di sospendere il termine di decadenza previsto dall’art. 1137, terzo comma, c.c. con riguardo al giudizio di merito relativo all’impugnazione.

4. Cause oggettivamente e soggettivamente complesse (art. 5, comma 1)

  1. Qualora in un giudizio che non sia stato preceduto dalla mediazione  vengano svolte una domanda riconvenzionale o una reconventio reconventionis o una domanda trasversale o una chiamata di terzo o un intervento di terzo principale, relativi ad una delle materie del contendere di cui al comma 1 bis dell’art. 5 del d. lgs. 28/2010, tali domande sono soggette a mediazione obbligatoria. In tali casi, qualora venga eccepito o rilevato il difetto della condizione di procedibilità, è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia. E’ possibile demandare alla mediazione anche la sola domanda soggetta a mediazione obbligatoria, previa separazione di essa dalle altre, ma tale soluzione può pregiudicare il successo della mediazione. Le indicazioni contenute nei commi precedenti non valgono in caso di chiamata di terzo fondata su una ipotesi di responsabilità da circolazione stradale.
  2. La domanda riconvenzionale o la reconventio reconventionis inedita  (vale a dire che sia emersa nella fase giudiziale della lite ma non nella fase di mediazione che abbia preceduto il giudizio), che riguardino una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, sono soggette a mediazione obbligatoria nel caso in cui comportino un ampliamento del thema decidendum.
  3. L’onere di dimostrare tale presupposto grava sulla parte che eccepisca il difetto della condizione di procedibilità e, per assolverlo, essa può ricorrere o al consenso della controparte o alla produzione dell’istanza di mediazione e dell’adesione ad essa della controparte dalle quali risulti la causa petendi della prospettazione della parte convenuta.
  4. Al fine di agevolare tale verifica è opportuno che le parti facciano risultare nel verbale di mediazione la causa petendi delle domande prospettate nel corso di essa. Anche in questo caso è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia.
  5. La domanda inedita nei confronti del terzo, relativa ad una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, è soggetta a mediazione obbligatoria, a condizione che il terzo possa evitare la controversia concludendo una transazione (una ipotesi di questo tipo è quello della domanda di garanzia impropria). Anche in questi casi è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia.
  6. Le medesime indicazioni di cui al punto precedente valgono nel caso di domanda trasversale inedita.
  7. La domanda inedita svolta dal terzo interveniente ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.c., relativa ad una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010 è soggetta a mediazione obbligatoria. Anche in questo caso è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia.
  8. Nel caso in cui in un giudizio, che sia stato preceduto dalla mediazione, il contraddittorio venga esteso, ai sensi dell’art. 102 c.p.c., ad una parte che non abbia partecipato alla fase di mediazione la domanda nei confronti di tale parte, che riguardi una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, non è soggetta a mediazione obbligatoria.
  9. La domanda inedita relativa ad una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010 che sia cumulata ai sensi dell’art. 103 c.p.c. con altra o altre domande sulle quali si sia svolto il procedimento di mediazione, è soggetta a mediazione obbligatoria se è connessa impropriamente a quelle già oggetto di mediazione. L’onere di dimostrare tale presupposto grava sulla parte che eccepisca il difetto della condizione di procedibilità e, per assolverlo, essa può ricorrere o al consenso della controparte o alla produzione dell’istanza di mediazione e dell’adesione ad essa della controparte dalle quali risulti la causa petendi della prospettazione della parte convenuta. Al fine di agevolare tale verifica è opportuno che le parti facciano risultare nel verbale la causa petendi delle domande prospettate nel corso di essa. Anche in questo caso è opportuno che il giudice che ravvisi il difetto della condizione di procedibilità della domanda riconvenzionale o della reconventio reconventionis demandi alla mediazione l’intera controversia
  10. In caso di domande fondate su prospettazioni alternative, una o più delle quali rientrino tra quelle previste dall’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, l’intera causa va demandata alla mediazione.

5. Natura del termine per proporre la mediazione e termini per il rilievo della insussistenza della condizione di procedibilità (art. 5, comma 1 bis)

  1.  Il termine assegnato dal giudice, ai sensi dei comma 1 bis e 2 dell’art. 5 d. Lgs. 28/2010, per presentare domanda di mediazione deve intendersi ordinatorio e come tale è soggetto alla disciplina dell’art. 154 c.p.c.
  2. Se la mancanza di condizione di procedibilità non viene rilevata o eccepita entro la udienza di prima comparizione l’azione giudiziaria può proseguire normalmente.
  3. Se nessuna delle parti presenta istanza di mediazione entro l’udienza fissata dal giudice contestualmente all’assegnazione del termine di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, la domanda giudiziale va dichiarata improcedibile.
  4. Se alla udienza di prima comparizione di una controversia soggetta a mediazione obbligatoria si riscontra che la mediazione è iniziata ma non si è conclusa il giudice può differire la causa ad una udienza successiva al termine della mediazione, qualora le parti rappresentino la possibilità di una definizione conciliativa della controversia in quella sede. In caso contrario il giudice può proseguire nella ordinaria trattazione del giudizio che, quindi, si svolgerà parallelamente alla mediazione.
  5. L’indicazione di cui al punto precedente vale anche nel caso in cui la domanda di mediazione venga presentata successivamente alla scadenza del termine di assegnato dal giudice per lo svolgimento della mediazione ma prima dell’udienza che è stata fissata per la prosecuzione del giudizio, una volta scaduto il termine originariamente previsto per lo svolgimento della mediazione.
  6. E’ opportuno che, anche nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria, nelle quali venga eccepita, o rilevata, la mancanza della condizione di procedibilità, il giudice, che alla prima udienza ravvisi possibilità conciliative della lite, esperisca il tentativo di conciliazione, se del caso avvalendosi dell’art. 185 c.p.c, prima di assegnare alle parti il termine per promuovere la mediazione.

6. Procedimenti per ingiunzione, di opposizione a decreto ingiuntivo e procedimenti cautelari (art. 5, comma 4).

  1.  Tenuto conto delle incertezze interpretative esistenti sulle  conseguenze della mancata attivazione della mediazione nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo, soggette a mediazione obbligatoria, dopo la decisione da parte del giudice sulla istanza di concessione o sulla sospensione della p.e. (secondo un primo orientamento la conseguenza di detta omissione sarebbe la improcedibilità della domanda monitoria mentre secondo altra tesi l’improcedibilità sarebbe dell’opposizione), l’unica indicazione che si ritiene opportuno fornire è quella che sia l’opponente che l’opposto possono avere interesse ad attivare il procedimento di mediazione, per evitare la declaratoria di improcedibilità della domanda svolta da ciascuno di essi.
  2. I commi 1 bis e 2 dell’art. 5 del d. lgs. 28/2010 non si applicano nei procedimenti cautelari, ivi compreso quello relativo all’istanza di sospensione dell’ esecuzione della delibera di assemblea condominiale.

  7. Procedimento di mediazione (art. 8 )

  1.  L’obbligo di difesa fissato dall’art. 5 comma 1 bis D. Lsg. 28/2010 si riferisce solo alla partecipazione al procedimento di mediazione obbligatoria sia ex lege che ex contractu giacchè solo in questi casi la mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
  2.  Possono costituire giustificato motivo di assenza:
  • la mancata comparizione davanti al mediatore per motivi di salute o di lavoro che determinino l’impedimento della parte a comparire per un apprezzabile lasso di tempo (pari,  superiore o di poco inferiore ai tre mesi che costituiscono il periodo normalmente previsto per lo svolgimento della mediazione) ;
  • la mancata comparizione davanti al mediatore giustificata sulla base del rilievo, formulabile anche a mezzo di comunicazione a distanza, della sua incompetenza per territorio;
  • la mancata comparizione davanti al mediatore dovuta alla mancata conoscenza della data dell’incontro di mediazione;
  • la mancata comparizione davanti al mediatore di un soggetto che non abbia capacità di agire o che sia privo di potere  rappresentativo

      3.    Si ritiene che la condanna di cui all’art. 8, comma 5, vada adottata al momento della decisione della causa, atteso che la                         parte che non è comparsa davanti al mediatore ha diritto di dimostrare le ragioni della sua assenza nel corso del giudizio,                    sulla base della disciplina propria del rito prescelto.

8. Mediazione delegata (art. 5, comma 2)

  1.  L’istituto trova un utile ambito di applicazione nelle ipotesi in cui la  possibilità di raggiungimento di una conciliazione dipenda dall’individuazione di soluzioni facilitative o nei casi di cumulo oggettivo o soggettivo di domande, per una sola delle quali la mediazione è prevista quale condizione di procedibilità (in questa ipotesi è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia) o qualora, dato il carico del ruolo, il giudice  abbia difficoltà ad esperire tentativi di conciliazione.
  2. Il giudice può demandare la mediazione anche nelle controversie in cui si sia già svolta una mediazione ma è opportuno che prima di farlo valuti con i procuratori delle parti l’utilità di essa.
  3.  Nel caso in cui le parti convengano sulla opportunità della mediazione delegata è opportuno che le stesse individuino concordemente anche l’organismo di mediazione a cui rivolgersi.
  4. Nel caso di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, comma 2, D. Lgs. 28/2010 è opportuno che il giudice indichi anche l’organismo di mediazione territorialmente competente al quale le parti potranno rivolgersi.
  5. Il difensore può rappresentare il proprio assistito nella fase di mediazione, ivi compresa la mediazione delegata, purchè sia munito di procura speciale a tal fine.
  6. L’art. 5 comma 2 d. lgs. 28/2010 nella parte in cui consente la mediazione delegata anche in sede di appello va inteso nel senso che la mediazione delegata è condizione di procedibilità dell’appello principale e dell’appello incidentale.

9. Art. 13 d. lgs. 28/2010 e suo raccordo con gli artt. 91 e 185 bis c.p.c.

  1.  L’applicazione dell’art. 13 del d. lgs. 28/2010 presuppone la possibilità di raffrontare la domanda di mediazione e la domanda giudiziale.
  2. La condanna alle spese della parte vittoriosa che ha rifiutato la proposta conciliativa del mediatore prescinde dalla valutazione sulla sussistenza di un giustificato motivo di tale rifiuto.
  3. Il richiamo agli artt. 92 e 96 del c.p.c contenuto nel secondo periodo dell’art. 13 del d. lgs. 28/2010 va inteso nel senso che il giudice potrà valutare il comportamento tenuto dalle parti nel giudizio conseguente alla fase di mediazione, ai fini  della compensazione delle spese di lite o della condanna per lite temeraria, senza essere vincolato dall’atteggiamento che esse possano aver tenuto di fronte alla proposta conciliativa del mediatore.
  4. Anche le parti e il giudice del giudizio successivo alla fase di mediazione possono formulare la proposta conciliativa prevista dall’art. 91 c.p.c. e 185 bis c.p.c  Qualora nella fase di mediazione vi sia stata una proposta conciliativa del mediatore rifiutata la proposta conciliativa fatta da una delle parti o del giudice nel conseguente giudizio, per produrre gli effetti previsti dall’art. 91 c.p.c, deve avere contenuto diverso rispetto alla prima.

10. Accordo conciliativo e fase di omologa (art. 11)  

  1.  E’ opportuno che nell’accordo conciliativo concluso davanti al mediatore vengano precisate le caratteristiche del procedimento di mediazione ed in particolare l’organismo di mediazione davanti al quale si è svolto il procedimento, se si sia trattato di mediazione obbligatoria o volontaria e le domande oggetto di esso.
  2.  L’accordo conciliativo va omologato dal Presidente del Tribunale del circondario in cui si è svolta la mediazione.
  3. Nel caso in cui l’accordo conciliativo concluso davanti al mediatore preveda obblighi infungibili di fare ovvero obblighi di non fare a carico di una parte, nonchè il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza di essi o per il ritardo nel loro adempimento, il creditore, in caso di inadempimento del debitore, può agire esecutivamente nei suoi confronti, dopo aver redatto il precetto sulla base del verbale di conciliazione. Condizione perché il creditore possa avvalersi di tale diritto è che, al momento della pattuizione della somma predetta, siano stati individuati i comportamenti che da inibire ed il criterio seguito per determinarne l’importo, anche in relazione al comportamento futuro del debitore (ad esempio precisando quali siano le conseguenze di un adempimento solo parziale della prestazione o di un ritardo nell’adempimento qualora si tratti di condanna ad un non facere con indicazione, altresì, ove possibile, il momento a partire dal quale si verifica l’inadempimento alla condanna).
  4. Nel redigere il precetto di cui al punto precedente il creditore deve comunque esplicitare i calcoli in virtù dei quali ha determinato la somma indicata nell’atto.
  5. Il debitore può proporre opposizione all’esecuzione qualora contesti la sussistenza di uno dei presupposti di fatto addotti dal creditore oppure la correttezza dei calcoli eseguiti o qualora adduca fatti estintivi o modificativi del diritto alla somma di cui ai punti precedenti.
  6. In caso di opposizione, la ripartizione dell’onere della prova tra opponente ed opposto è  strettamente dipendente dalla natura dell’obbligazione di cui si controverte. In ragione di ciò non è opportuno fissare un’indicazione generale sul punto, se non il principio generale secondo cui “negativa non sunt probanda”.
  7. Avverso il rigetto dell’istanza di omologa dell’accordo conciliativo concluso davanti al mediatore può essere proposto reclamo davanti alla Corte di Appello compente.
  8. Per contestare il decreto di omologa dell’accordo conciliativo concluso davanti al mediatore il destinatario di quanto in esso previsto può proporre opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. o agire in via ordinaria.

 

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