adr intesa ente di formazione per mediatori civili riconosciuto dal ministero della giustizia

Tribunale di Roma, sez. XIII civile, sentenza 30 ottobre 2014 (RG. 20168-12)

Mancata partecipazione alla mediazione delegata da giudice. Limiti del “giustificato motivo”.

Commento:

Sentenza del Tribunale di Roma all’esito di un giudizio nel quale – come da ormai consolidata prassi della Sezione – la proposta transattiva o conciliativa formulata ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. va a cumularsi con la mediazione disposta dal giudice ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Infatti, nell’ordinanza emanata l’11 novembre 2013, il dies ad quem entro il quale le parti avrebbero potuto far propria la proposta giudiziale fungeva automaticamente, per l’ipotesi opposta, quale dies a quo per il decorso del successivo termine di 15 gg. concesso per il deposito dell’istanza di mediazione presso un organismo territorialmente competente.

Il caso di specie riguarda la responsabilità professionale di un avvocato, peraltro costituitosi tardivamente nel giudizio intentatogli da un ex cliente per inesatta prestazione. In particolare, l’avvocato aveva tardivamente proposto appello avverso una sentenza del Pretore del Lavoro di Roma, che aveva rigettato le domande dell’attore, circostanza accertata in Appello e confermata in cassazione (e, naturalmente, la proposizione puntuale dell’appello non è collocabile su un piano di particolare difficoltà ai sensi dell’art. 2236 c.c., risultando quindi sufficiente la semplice colpa per radicare la responsabilità).

Trattandosi di controversia caratterizzata da valore certamente cospicuo, ma che non aveva fatto emergere questioni di diritto di particolare complessità e dubbi tali da richiedere approfondite analisi e difficili interpretazioni di norme, il Giudice formulava una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., stabilendo ex ante, come in precedenza accennato, che in caso di mancato accoglimento della stessa le parti avrebbero dovuto rivolgersi ad un organismo di mediazione e fissando la successiva udienza per la (eventuale) prosecuzione del processo, nella quale, limitatamente alla proposta giudiziale, le parti avrebbero potuto esplicitare le ragioni della mancata adesione alla stessa.

L’attore accettava la proposta e, in mancanza di adesione da parte dell’avvocato convenuto, attivava ritualmente la mediazione demandata dal giudice, presentandosi presso l’organismo per il primo incontro, a differenza della parte chiamata, che decideva di non presenziarvi, concludendosi dunque il procedimento con verbale negativo senza approdo al merito delle questioni controverse.

Ora, si rileva in sentenza, “…non avendo l’avvocato (…) fornito alcuna motivazione della sua mancata comparizione davanti al mediatore (atteggiamento confermato processualmente dai suoi difensori) devesi affermare l’assenza di un giustificato motivo.

D’altra parte, non può essere sottovalutato il fatto che, a monte dell’ordinanza, vi è la valutazione del giudice (esame degli atti, studio della posizione delle parti, formulazione della proposta) circa l’utilità di un percorso di mediazione finalizzato, auspicabilmente, al raggiungimento di un accordo vantaggioso, per cui risulta comprovato “…che nel caso di specie non solo non sussiste un giustificato motivo per la mancata comparizione della parte convenuta nel procedimento di mediazione, ma che tale rifiuto è del tutto irragionevole, illogico in concreto ma anche dal punto di vista astratto ed inescusabile”.

Come è noto, l’art. 8, ult. co., D.lgs 28/2010 ricollega alla circostanza in oggetto (mancata partecipazione alla mediazione senza giustificato motivo) da un lato il fatto che il giudice possa trarne argomento di prova ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c., e, dall’altro, ma solo nel caso in cui la parte risulti costituita in giudizio, la condanna al versamento di una somma pari al contributo unificato.

Nella motivazione in esame, quanto alla possibilità di valorizzare nel processo, quale argomento di prova a sfavore di un parte, determinate condotte della stessa, si muove dal presupposto dell’esistenza, in giurisprudenza, di due diverse opinioni.

Secondo una prima impostazione, “…la decisione del giudice non può essere fondata esclusivamente sull’art. 116 c.p.c., cioè su circostanze alle quali la legge non assegna il valore di piena prova, potendo tali circostanze valere in funzione integrativa e rafforzativa di altre acquisizioni probatorie”.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, si è più volte espressa nel senso che “…la norma dettata dall’art. 116 comma 2 c.p.c., nell’abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell’interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di conseguenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre argomenti di prova, e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze (ex multis, Cassazione civile, sez. trib., 17 gennaio 2002, n. 443)”.

La seconda tesi, invece, opina nel senso che non vi sarebbe alcun divieto nella legge a che il giudice possa fondare solo su dette circostanze la decisione, valendo quale unico limite quello di una coerenza e logica motivazionale in relazione al caso concreto.

Anche in ordine a quest’ultimo orientamento, innumerevoli sono i precedenti di legittimità rintracciabili: ad esempio, secondo Cassazione civile, sez. III, 16 luglio 2002, la norma di cui all’art. 116, co. 2, c.p.c. “…attribuisce certo al giudice il potere di trarre argomento di prova dal comportamento processuale delle parti, e però, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ciò non significa solo che il comportamento processuale della parte può orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma anche che esso può da solo somministrare la prova dei fatti”.

Il Giudice, nella pronuncia in esame, ritiene in generale che “…secondo le circostanze del caso concreto gli argomenti di prova che possono essere desunti dalla mancata comparizione della parte chiamata in mediazione ed a carico della stessa nella causa alla quale la mediazione, obbligatoria o demandata, pertiene, possano costituire integrazione di prove già acquisite, ovvero anche unica e sufficiente fonte di prova”.

In particolare, nel caso di specie, sussistendo ad avviso del Tribunale robusti elementi di carattere documentale, i comportamenti di parte (mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010) sono ritenuti idonei ad apportare un valore aggiunto “…probatorio, decisivo e preminente” relativamente alla sussistenza di un danno risarcibile, concorrendo, dunque, “alla valutazione del materiale probatorio raccolto nel senso di ritenere raggiunta la piena prova della infondatezza della resistenza ad oltranza”.

Ciò premesso, avendo l’avvocato convenuto disertato senza giustificato motivo il procedimento di mediazione nel quale era stato regolarmente chiamato, il Tribunale lo condanna al versamento a favore dell’erario di euro 660,00, a quanto ammonta, cioè, il contributo unificato dovuto per il giudizio.

Per quanto riguarda la quantificazione dei danni al risarcimento dei quali il convenuto soccombente è tenuto, il Giudice afferma la necessità di “…dichiarare con chiarezza quella che è la regola d’oro della mediazione demandata e della proposta del giudice.

Tanto più elevate saranno le probabilità di raggiungimento di un accordo fra le parti, in particolare ciò valendo per quella fra di esse onerata con la proposta del giudice di prestazioni da compiere a favore della controparte, quanto più ciascuna di esse possa intravvedere delle utilità, dei vantaggi, dei benefici scaturenti dall’accordo conseguente alla proposta del giudice o alla mediazione o, che è lo stesso, un contenimento degli svantaggi e delle disutilità che potrebbero derivargli dalla sentenza.

In altre parole, mettere una parte con le spalle al muro, con una proposta che si intraveda di contenuto in tutto e per tutto uguale al contenuto della sentenza seguente al mancato accordo è controproducente.

La parte onerata deve poter contare su un qualche benefit derivante dall’accordo rispetto al contenuto della sentenza, in caso contrario, si porrà l’obiettivo del massimo differimento possibile del redde rationem rappresentato dalla sentenza.

D’altra parte, per la parte percipiente, deve valere il correlativo principio che un bene della vita non esattamente uguale a quello sperato ma in compenso conseguibile subito e con certezza a seguito dell’accordo è migliore e più tranquillizzante di un risultato pieno che, in futuro, potrebbe anche mancare in tutto o in parte (la condanna di una parte non equivale all’adempimento volontario di quella parte; in mancanza di volontario adempimento la parte vittoriosa è onerata di azioni esecutive dall’esito spesso incerto  e insoddisfacente; va ricordato che nel nostro ordinamento esiste appello e cassazione”.

In conseguenza di quanto precede, dunque, nel caso di specie il giudice ha emesso sentenza ai sensi dell’art. 281 – sexies c.p.c., definitivamente pronunziando, condannando il convenuto al risarcimento del danno, al pagamento delle spese, che seguono la soccombenza, e, infine, al versamento, a titolo di sanzione per la mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione, di una somma di ammontare pari al contributo unificato dovuto per il giudizio

Tribunale di Roma, sez. XIII civile, sentenza 30 ottobre 2014 (RG. 20168-12)