Mediazione-obbligatoria

Tribunale di Taranto, ordinanza 16 aprile 2015.

Il Tribunale di Taranto, con l’ordinanza in commento, torna a soffermarsi sul concetto di effettività del tentativo di mediazione, sottolineando, in particolare, come nell’espressione mancata partecipazione al procedimento debba intendersi compresa non solo l’ipotesi dell’assenza ma anche il rifiuto ingiustificato di partecipare alla mediazione, in quanto si è comunque in presenza di condotte omissive nella sostanza equivalenti, volte in ogni caso a frustrare la possibilità stessa di tentare una soluzione stragiudiziale della lite, coerentemente, tra l’altro, con quanto previsto dall’art. 88 c.p.c. in tema di dovere di lealtà.

Rileva infatti il Giudice che “…per quel che concerne la disciplina della mediazione, quando sia disposta dal giudice, e cioè quando si atteggia come condizione di procedibilità, e non vi sia quindi possibilità di rinnovarla in caso di inerzia, dovendosi dichiarare l’improcedibilità della domanda, un’ interpretazione giurisprudenziale tende a far sì che il suo esperimento sia effettivo, e non si esaurisca alla fin fine in una forma di rallentamento ulteriore del processo.
Questo risultato viene perseguito affermandosi che l’obbligo di esperire la mediazione gravi su entrambe le parti”.

Occorre però intendersi sulla portata applicativa di detto obbligo.

Ovviamente, solo nel caso di inerzia dell’attore potrà configurarsi l’improcedibilità della domanda, non certo quando vi incorra il convenuto, dal momento che si applicherebbe nei confronti dell’attore una sanzione processuale per un fatto addebitabile ad altri.

Il fatto che però sussista un obbligo di mediazione effettiva a carico di entrambe le parti “…si desume dal disposto ex art. 8, co. 4 bis (dopo l’abrogazione del successivo comma 5 da parte della C.C.), del d.lgs. n. 28 del 2010: si sanziona infatti la mancata partecipazione della parte al procedimento di mediazione senza giustificato motivo.
E nell’espressione mancata partecipazione si deve intendere compresa non solo l’ipotesi dell’assenza ma anche il rifiuto ingiustificato di partecipare alla mediazione, trattandosi di condotte omissive equivalenti, in quanto idonee entrambe a frustrare la stessa possibilità di tentare la mediazione (in coerenza anche con l’art. 88 c.p.c. sul dovere di lealtà
”.

Naturalmente, il perseguimento dello scopo dell’effettività della mediazione“…non può tuttavia (…) spingersi sino al punto di ritenere che si applichi la sanzione dell’improcedibilità anche quando l’attore si rifiuti di partecipare immotivatamente alla mediazione sin dalla fase preliminare (“non voglio mediare…voglio invece proseguire con la causa”)”.

D’altra parte, l’espressione “senza l’accordo”, contenuta nell’art. 5, co. 2 – bis, D.lgs 28/2010, comprende anche l’ipotesi in cui la parte non intenda superare il primo incontro del procedimento di mediazione.

D’altronde, il fatto che la legge abbia previsto, con riferimento alla mancata partecipazione al procedimento senza giustificato motivo, la sanzione di cui all’art. 116, co. 2, c.p.c., nonché quella della condanna al versamento di una somma di importo pari al contributo unificato dovuto per il giudizio, implica necessariamente la prosecuzione del processo, il che non si concilia, evidentemente, con la declaratoria di improcedibilità.

In sostanza, dunque, secondo il Tribunale “…l’obbligo di effettiva mediazione grava sì su entrambe le parti costituite, ma nel senso che se anche vi sia un rifiuto ingiustificato, oltre che l’assenza ingiustificata, possono seguire le sanzioni tassativamente previste dalla legge.

Non può però l’effettività dell’obbligo spingersi fino al punto da sanzionare con l’ improcedibilità della domanda l’attore (o il convenuto qualora abbia spiegato riconvenzionale), quando si rifiuti senza giustificato motivo di partecipare al procedimento di mediazione nel c.d. primo incontro davanti al mediatore”.

 

Testo integrale:

Tribunale di Taranto
II Sezione
Ordinanza

Le domande proposte dal ricorrente si fondano pur sempre su di un contratto di locazione, anche se risolto: si fa valere cioè una forma di responsabilità contrattuale e non ad altro titolo;
quindi si applica il rito locatizio, correttamente introdotto.
Le domande riconvenzionali deve ritenersi che siano assoggettate alla mediazione obbligatoria ex d.lgs. n. 28 del 2010, non potendosi ammettere un regime diverso per le domande giudiziali a seconda che sia fatta valere dall’attore o dal convenuto, in mancanza peraltro di disposizione di legge contraria.
Ciò non toglie che possa assicurarsi il simultaneus processus, rinviando la trattazione di tutte le cause ad una udienza successiva, piuttosto che disporre la loro separazione (arg. ex art. 127, II co., c.c. ed estens. ex art. art. 274 c.p.c.).
Ma nel caso di specie va disposta la mediazione – c.d. delegata, ex art. 5, co. 2 del d.lgs. n.
28.2010, per come modificato dal d.l. 21-06-2013 e legge di conversione del 09.08.2013, n. 98 – anche per le domande principali (sebbene sia stata già esperita, ma invano, la mediazione prima dell’introduzione del giudizio) alla luce della avvenuta proposizione della domanda riconvenzionale e delle valutazioni contenute in questo provvedimento sul tema decisorio e sulle prove.
Per l’azione di riduzione del canone e di risarcimento dei danni proposta dall’attore non dovrebbe operare la decadenza del semestre prevista dall’art. 79 della legge 392/78: nel primo caso di tratta di azioni derivanti da norme del codice civile; nel secondo di azioni che trovano la loro fonte nella stessa legge speciale, all’interno delle quali ipotesi è prevista la sanzione della decadenza (arg. ex art. 14 delle Preleggi).
La disciplina dei fatti costitutivi della domanda potrebbe essere quella ex art. 1581- 1578 c.c., e cioè per vizio sopravvenuto e conseguente riduzione del canone; ovvero quella ex art. 1576 c.c. – 1575, n. 2, ossia inadempimento contrattuale e conseguente risarcimento dei danni.
Questa seconda disciplina dovrebbe preferirsi se si considera che la domanda è incentrata dallo stesso attore soprattutto su di una forma di inadempimento colpevole: il non aver il locatore adempiuto l’obbligazione di effettuare le riparazioni necessarie ex art. 1576 c.c.- E questa domanda non sembra che possa essere preclusa dall’aver il conduttore sanato la morosità in un precedente giudizio di convalida di sfratto, iniziato successivamente al manifestarsi dei fenomeni di umidità; che sarebbero attestati soprattutto dalla evocata CTU svolta nell’accertamento tecnico preventivo, e che secondo la prospettazione dell’attore avrebbero reso inservibile una parte dei posti auto e moto disponibili nell’autorimessa aziendale.
Si tratta per lo più di valutare se i vizi – o il pregiudizio all’immobile locato derivante dal contestato inadempimento – da cui sembra essere stato colpito, peraltro denunziati già con missiva del luglio 2006, in concreto abbiano comportato la ridotta attività commerciale ed in che misura, nel periodo considerato, ossia dal luglio 2006 al maggio 2011.
Ammesso per ipotesi che sia provato l’inadempimento (con la CTU soprattutto) e la riduzione della ricettività dell’autorimessa (verbale dei vigili del fuoco), occorrerebbe a rigore, trattandosi di impresa, che il quantum del mancato guadagno sia consacrato dal raffronto tra la contabilità degli anni precedenti al 2006 e quella degli anni successivi, avuto particolare riguardo al più ridotto reddito ricavato; contabilità che tuttavia non risulta essere stata prodotta in giudizio, In mancanza potrebbe farsi riferimento alle presunzioni e quindi all’equità.
I capitoli di prova sub 1, 2, 36-6/a-8-9 (e l’ulteriore contenuto in citazione e gli altri nella
memoria integrativa) o sono superflui o contengono valutazioni frammiste a circostanze di fatti, e come tali ritenuti inammissibili, o risultano tardivi.
Superflua di conseguenza anche la prova articolata da controparte.
Per quel che concerne la disciplina della mediazione, quando sia disposta dal giudice, e cioè quando si atteggia come condizione di procedibilità, e non vi sia quindi possibilità di rinnovarla in caso di inerzia, dovendosi dichiarare l’improcedibilità della domanda, un’ interpretazione giurisprudenziale tende a far sì che il suo esperimento sia effettivo, e non si esaurisca alla fin fine in una forma di rallentamento ulteriore del processo.
Questo risultato viene perseguito affermandosi che l’obbligo di esperire la mediazione gravi su entrambe le parti.
Occorre però intendersi sulla portata applicativa del predetto obbligo.
In primo luogo solo nel caso di inerzia dell’attore potrà seguire l’improcedibilità della domanda e non di certo quando vi incorra la sola controparte.
Non può ovviamente applicarsi all’attore una sanzione processuale per un fatto addebitale ad altri.
Che vi sia però un obbligo di mediazione effettiva a carico di entrambe le parti si desume
dal disposto ex art. 8, co. 4 bis (dopo l’abrogazione del successivo comma 5 da parte della C.C.), del d.lgs. n. 28 del 2010: si sanziona infatti la mancata partecipazione della parte al procedimento di mediazione senza giustificato motivo.
E nell’espressione mancata partecipazione si deve intendere compresa non solo l’ipotesi
dell’assenza ma anche il rifiuto ingiustificato di partecipare alla mediazione, trattandosi
di condotte omissive equivalenti, in quanto idonee entrambe a frustrare la stessa possibilità di tentare la mediazione (in coerenza anche con l’art. 88 c.p.c. sul dovere di lealtà).
E le sanzioni sono rappresentate dalla possibilità per il giudice di desumere argomenti di prova ex art. 116 c.p.c. e dal versamento di una somma pari al contributo unificato, in questo secondo quando però la parte sia costituita (ossia euro 660,00 nel caso in esame, pur se iscritto a debito per la provvisoria ammissione al gratuito patrocinio dell’attore).
Non può tuttavia il perseguimento dello scopo dell’effettività della mediazione spingersi sino al punto di ritenere che si applichi la sanzione dell’improcedibilità anche quando l’attore si rifiuti di partecipare immotivatamente alla mediazione sin dalla fase preliminare (“non voglio mediare…voglio invece proseguire con la causa”).
Allo scopo non può essere dirimente il disposto ex art. 5, comma 2 bis d.lgs. n. 28/2010:
“Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.
L’espressione “senza l’accordo” infatti comprende anche il caso in cui la parte non voglia
comunque mediare.
Peraltro l’aver la legge previsto per la mancata partecipazione al procedimento di mediazione senza giustificato motivo, nel senso lato precisato, la sanzione ex art. 116 c.p.c., ossia il trarre argomenti di prova, e quella pecuniaria sopra precisata, implica necessariamente la prosecuzione del processo, che evidentemente non si concilia con la ipotizzata improcedibilità.
In terzo luogo l’art. 8, I co. , citato, quando regola il passaggio dalla fase preliminare della
mediazione al suo effettivo esperimento, presuppone che nel c.d. primo incontro le parti debbano acconsentire alla mediazione: “.. il mediatore .. invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.
E non può trattarsi della sola possibilità tecnica (diritti indisponibili, litisconsorte pretermesso, etc.), posto che l’invito ad avere il placet è indirizzato dal mediatore anche alle parti e non solo agli avvocati.
Pertanto l’obbligo di effettiva mediazione grava sì su entrambe le parti costituite, ma nel senso che se anche vi sia un rifiuto ingiustificato, oltre che l’assenza ingiustificata, possono seguire le sanzioni tassativamente previste dalla legge.
Non può però l’effettività dell’obbligo spingersi fino al punto da sanzionare con l’ improcedibilità della domanda l’attore (o il convenuto qualora abbia spiegato riconvenzionale), quando si rifiuti senza giustificato motivo di partecipare al procedimento di mediazione nel c.d. primo incontro davanti al mediatore.
E’ opportuno poi che le parti siano messe a conoscenza delle sanzioni cui andrebbero incontro, in caso di mancata partecipazione alla mediazione disposta dal giudice.

P.T.M.

Rigetta la richiesta di mutamento del rito da locatizio ad ordinario.
Dichiara inammissibile la prova orale articolata dall’attore e quindi quella contraria di parte resistente.
Visto l’art. 5, co. 1 bis, del d.lgs. 28/2010 assegna alle parti il termine di giorni 15 per la presentazione della domanda di mediazione con riguardo alle riconvenzionali spiegate.
Visto l’art. 5, co., II, dispone l’esperimento della mediazione, anche per le domande proposte dal ricorrente, ed assegna alle parti eguale termine di quindici giorni.
Avverte che si intende realizzata la condizione di procedibilità quando le parti sono comparse davanti al mediatore ed un accordo comunque non sia stato raggiunto.
La predetta attività, svolta dal mediatore ai sensi dell’art. 1, co I, lett. a) del d.lgs. n. 28
del 2010, deve essere consacrata nel verbale dallo stesso redatto, pur se in maniera sommaria.
L’assenza senza giustificato motivo della parte costituita, al pari di un rifiuto ingiustificato alla mediazione, sarà suscettibile di essere sanzionata nei modi di legge (art. 8, IV bis e cioè possibilità di trarre argomenti di prova ex art. 116 c.p.c. e sanzione pari al contributo unificato, ossia nel caso di specie euro 660,00; potranno poi rilevare in caso di proposta rivelatasi congrua nel corso del processo le ulteriori sanzioni previste dall’art. 13 del d.lgs. 28 / 2010 ed art. 96, III co. c.p.c.).
Beninteso in caso di assenza della parte che abbia proposto una domanda, potrà seguire
la sanzione dell’improcedibilità.
Fissa per la verifica dell’esito della mediazione l’udienza del 14-10-2015, ore di rito.
Riserva di accertare, disponendo – come di rito – informative alla Guardia di Finanza, la ricorrenza delle condizioni di reddito utili per l’ottenimento del beneficio del gratuito patrocinio, sia al momento della proposizione della richiesta di liquidazione del compenso, sia la loro permanenza nel periodo successivo.
Taranto, 16-04-2015

F.to Dott. Claudio Casarano

 

ordinanza consiglio di stato mediazione civile

Ordinanza Consiglio di Stato: ripristinate le spese di avvio

Il Consiglio di Stato ripristina le spese di avvio del procedimento di mediazione anche laddove il primo incontro non venga superato

Le spese di avvio relative al procedimento di mediazione, e, ovviamente, le spese vive documentate dall’Organismo, sono legittime e risultano pertanto sempre dovute, anche nell’ipotesi in cui la mediazione si arresti al primo incontro tra le parti ed il mediatore, ai sensi dell’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010.

E’ quanto emerge dall’ordinanza 22 aprile 2015 della IV sez. del Consiglio di Stato, che ha accolto l’istanza cautelare in ordine alla provvisoria esecutività della sentenza del TAR Lazio n. 1351/2015, nell’ambito dell’appello avverso la medesima proposto dal Ministero della Giustizia e dal Ministero dello sviluppo Economico.

Osserva infatti il Consiglio di Stato come, muovendo dalla estrema genericità del termine “compenso” utilizzato nell’art. 17, co. 5 – ter, D.lgs 28/2010,  “...quanto alle spese di avvio – le quali a tenore del censurato comma 2 dell’art. 16 comprendono, a loro volta, da un lato le “spese vive documentate” e dall’altro le spese generali sostenute dall’organismo di mediazione – queste ad avviso della Sezione effettivamente non appaiono prima facie riconducibili alla nozione di “compenso” di cui alla disposizione di fonte primaria dianzi citata;
quanto sopra, in particolare, è di palmare evidenza quanto alle spese vive documentate, ma vale anche per le residue spese di avvio, che sono quantificate in misura forfettaria e configurate quale onere connesso all’accesso a un servizio obbligatorio ex lege per tutti i consociati che intendano accedere alla giustizia in determinate materie, come confermato dal riconoscimento in capo alle parti, ex art. 20 del d.lgs. nr. 28/2010, di un credito di imposta commisurato all’entità della somma versata e dovuto – ancorché in misura ridotta – anche in caso di esito negativo del procedimento di mediazione (e, quindi, anche in ipotesi di esito negativo del primo incontro per il quale le spese di avvio sono dovute)
”.

Pertanto, quantomeno fino alla definizione nel merito dell’appello, la situazione torna ad essere quella sussistente prima della pronuncia TAR, con conseguente piena legittimazione, in capo gli organismi di mediazione, alla richiesta di versamento delle spese di avvio e di ristoro delle spese vive documentate sostenute nell’interesse delle parti del procedimento.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso in appello nr. 2156 del 2015, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA e dal MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,

contro

l’UNIONE NAZIONALE DELLE CAMERE CIVILI (UNCC), in persona del legale rappresentante pro tempore,rappresentata e difesa dagli avv.ti Antonio De Notaristefani di Vastogirardi e Francesco Storace, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Crescenzio, 20,

e con l’intervento di

ad adiuvandum:

– signori Roberto NICODEMI, Maria AGNINO, Antonio D’AGOSTINO, Alessandra GULLO, Gemma SURACI, Monica MAZZENGA, Gabriella SANTINI, Laura NICOLAMARIA, Nicola PRIMERANO, Luigi RAPISARDA, Elisabetta ZENONI, Alessandra TOMBOLINI, Sabina MARONCELLI, Stefano AGAMENNONE, Silvia MONTANI, Elena ZAFFINO, Elisabetta Carla PICCIONI, Luciano CAPOGROSSI GUARNA, Giuliana SCROCCA, Maurizio FERRI, Matilde ABIGNENTE, Guido CARDELLI, Marco Fabio LEPPO, Alessandra ROMANINI, Claudio DRAGONE, Roberta D’UBALDO, Corrado DE MARTINI, Arnaldo Maria MANFREDI, Eugenio GAGLIANO, Fabio CAIAFFA e Daniela BERTES, rappresentati e difesi dall’avv. Gemma Suraci, con domicilio eletto presso la stessa in Roma, via degli Scipioni, 237,
– ASSOCIAZIONE PRIMAVERA FORENSE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Marco Benucci, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, via corso d’Italia, 29;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. del Lazio nr. 1351/2015, notificata in data 5 marzo 2015.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’art. 98 cod. proc. amm.;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC) e gli atti di intervento dei soggetti in epigrafe indicati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Vista la domanda di sospensione dell’efficacia della sentenza del Tribunale amministrativo regionale di parziale accoglimento del ricorso di primo grado, presentata in via incidentale dalla parte appellante;

Relatore, alla camera di consiglio del giorno 21 aprile 2015, il Consigliere Raffaele Greco;
Uditi gli avv.ti Storace e De Notaristefani per la appellata, l’avv. Suraci e l’avv. Benucci per gli intervenienti ad adiuvandum e l’avv. dello Stato De Carlo per le Amministrazioni appellanti;

Ritenuto, quanto al profilo della legittimazione processuale della ricorrente in primo grado, che l’indicazione di quest’ultima nell’epigrafe della sentenza impugnata è frutto di evidente fraintendimento, essendo fuori discussione il carattere nazionale (e non meramente locale), e conseguentemente la rappresentatività, dell’associazione che ha proposto il ricorso introduttivo del giudizio;

Ritenuto, nei limiti della sommaria delibazione propria della fase cautelare, che l’appello risulta assistito da sufficiente fumusnella parte in cui censura l’integrale annullamento dei commi 2 e 9 dell’art. 16 del d.m. 18 ottobre 2010, nr. 180, atteso che:

– l’uso del termine “compenso” nel comma 5-ter dell’art. 17 del d.lgs. 4 marzo 2010, nr. 28 (introdotto dalla “novella” del 2013), è manifestamente generico e improprio, non trovando detta terminologia riscontro in alcuna altra parte della normativa primaria e secondaria de qua, nella quale si parla invece di “indennità di mediazione”, che a sua volta si compone di “spese di avvio” e “spese di mediazione” (art. 16, d.lgs. nr. 28/2010);

– ciò premesso, nulla quaestio essendovi per le spese di mediazione, nelle quali è ricompreso “anche l’onorario del mediatore per l’intero procedimento di mediazione” (art. 16, comma 10), il problema si pone per le spese di avvio, le quali in virtù del decisum qui contestato sarebbero anch’esse del tutto non dovute per il primo incontro di cui all’art. 8, comma 1, del medesimo d.lgs. nr. 28/2010;

– quanto alle spese di avvio – le quali a tenore del censurato comma 2 dell’art. 16 comprendono, a loro volta, da un lato le “spese vive documentate” e dall’altro le spese generali sostenute dall’organismo di mediazione – queste ad avviso della Sezione effettivamente non appaiono prima facie riconducibili alla nozione di “compenso” di cui alla disposizione di fonte primaria dianzi citata;

– quanto sopra, in particolare, è di palmare evidenza quanto alle spese vive documentate, ma vale anche per le residue spese di avvio, che sono quantificate in misura forfettaria e configurate quale onere connesso all’accesso a un servizio obbligatorio ex lege per tutti i consociati che intendano accedere alla giustizia in determinate materie, come confermato dal riconoscimento in capo alle parti, ex art. 20 del d.lgs. nr. 28/2010, di un credito di imposta commisurato all’entità della somma versata e dovuto – ancorché in misura ridotta – anche in caso di esito negativo del procedimento di mediazione (e, quindi, anche in ipotesi di esito negativo del primo incontro per il quale le spese di avvio sono dovute);

Ritenuto, pertanto, che l’istanza cautelare è meritevole di accoglimento limitatamente all’esclusione del rimborso delle spese di avvio, le quali per le ragioni dette non sono riconducibili al concetto di “compenso” ex art. 17, comma 5-ter, d.lgs. nr. 28/2010, potendo invece essere devoluta alla sede del merito la trattazione di tutti i residui profili oggetto di causa (ivi comprese le questioni di legittimità costituzionale riproposte dall’originaria ricorrente con l’appello incidentale);

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) accoglie in parte l’istanza cautelare (Ricorso numero: 2156/2015) e la respinge per il resto, e, per l’effetto, sospende l’esecutività della sentenza impugnata nei limiti di cui in motivazione.
Tenuto conto della complessità e della novità delle questioni esaminate, compensa tra le parti le spese della presente fase del giudizio d’appello.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 aprile 2015 con l’intervento dei magistrati:

Paolo Numerico, Presidente

Nicola Russo, Consigliere

Sandro Aureli, Consigliere

Raffaele Greco, Consigliere, Estensore

Silvestro Maria Russo, Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 22/04/2015

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

adr intesa ente di formazione per mediatori civili riconosciuto dal ministero della giustizia

Tribunale di Roma, sez. XIII civ., sentenza 26 marzo 2015.

Commento:

Ancora una interessante sentenza in cui il Tribunale di Roma, sez. XIII, affronta le problematiche connesse alla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, nella fattispecie delegata ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, e – quindi – all’applicazione dell’art. 116, co. 2, c.p.c.

Nel caso di specie, con ordinanza del 20 febbraio 2014, il Giudice attivava per l’appunto un procedimento di mediazione demandata all’interno di una controversia relativa alla richiesta di risarcimento dei danni fisici subiti da una minore a seguito di caduta, occorsa mentre fruiva della scaletta di accesso allo scivolo posto nell’area giochi del cortile scolastico sotto la diretta vigilanza del personale insegnante.

La Scuola, pur ammettendo la caduta della bambina sua allieva, contestava, come la Assicurazione, ogni censura mossa alla propria diligenza.

Tanto la Scuola quanto l’Assicurazione, pur ritualmente convocate in mediazione, non aderivano all’invito, non si presentavano all’incontro fissato, né inviavano al mediatore né esponevano all’udienza di rinvio spiegazioni di sorta per tale condotta.

Come ben noto, l’art. 8, co. 4 – bis, D.lgs 28/2010 prevede, relativamente alla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, che il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c.

Il Giudice rileva come “…non essendo stato neppure addotto, da parte della convenuta e del terzo, un motivo per la mancata adesione e partecipazione all’incontro di mediazione si deve affermare senza ombra di dubbio che tale condotta sia del tutto ingiustificata”; nella fattispecie, poi, “…sia la scuola che l’assicuratore avevano una evidente ragione per partecipare alla mediazione: in presenza di un rapporto contrattuale di affidamento della bambina alla scuola in base alle norme di cui all’art.1218 e ss. la sussistenza di responsabilità della scuola è in re ipsa avendo riportato la minore gravi lesioni mentre era sotto la vigilanza e la custodia del personale insegnante, sicché la strada (rectius: onere della prova) per una improbabile esclusione della responsabilità era tutta in salita, come usuale allorché si debba provare il caso fortuito”.

Dovendosi tenere in debito conto, inoltre, il fatto che trattavasi di mediazione delegata dal Giudice, dunque conseguente ad una valutazione circa la mediabilità della lite già dallo stesso effettuata.

Pertanto, conclude sul punto la sentenza, “…nel caso di specie non solo non sussiste un giustificato motivo per la mancata comparizione della scuola e dell’assicuratore nel procedimento di mediazione; ma che tale rifiuto è del tutto irragionevole, illogico in concreto ma anche dal punto di vista astratto ed inescusabile”.

Ora, che la ingiustificata mancata partecipazione al procedimento di mediazione sia di per sé una condotta grave non può essere revocato in dubbio, dal momento che certamente rappresenta una modalità comportamentale idonea a determinare l’introduzione (o – come nel caso in oggetto – il permanere) di un giudizio presumibilmente evitabile, in un contesto – quale quello italiano attuale – assai critico sotto il profilo sia del numero dei procedimenti pendenti sia della durata media degli stessi.

Quanto alla possibilità di valorizzare nel processo, quale argomento di prova a sfavore di un parte, determinate condotte della stessa, si muove dal presupposto dell’esistenza, in giurisprudenza, di due diverse opinioni.

Secondo una prima impostazione, “…la decisione del giudice non può essere fondata esclusivamente sull’art. 116 c.p.c., cioè su circostanze alle quali la legge non assegna il valore di piena prova, potendo tali circostanze valere in funzione integrativa e rafforzativa di altre acquisizioni probatorie”.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, si è più volte espressa nel senso che “…la norma dettata dall’art. 116 comma 2 c.p.c., nell’abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell’interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di conseguenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre argomenti di prova, e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze (ex multis, Cassazione civile, sez. trib., 17 gennaio 2002, n. 443)”.

La seconda tesi, invece, opina nel senso che non vi sarebbe alcun divieto nella legge a che il giudice possa fondare solo su dette circostanze la decisione, valendo quale unico limite quello di una coerenza e logica motivazionale in relazione al caso concreto.

Anche in ordine a quest’ultimo orientamento, innumerevoli sono i precedenti di legittimità rintracciabili: ad esempio, secondo Cassazione civile, sez. III, 16 luglio 2002, la norma di cui all’art. 116, co. 2, c.p.c. “…attribuisce certo al giudice il potere di trarre argomento di prova dal comportamento processuale delle parti, e però, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ciò non significa solo che il comportamento processuale della parte può orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma anche che esso può da solo somministrare la prova dei fatti”.

Nel caso di specie, il Tribunale di Roma ritiene che “…nell’attuale situazione, affetta da una endemica ed apparentemente insuperabile crisi nei tempi di risposta alla domanda di giustizia, causata dalla imponente mole di cause iscritte nei tribunali e delle corti; e viste le sempre più gravi conseguenze sociali, economiche e di immagine anche internazionale, derivanti dal ritardo nella definizione dei processi, sia necessario rivalutare, senza forzature ma con fermezza, ciò che è previsto da una norma (l’art.116 cpc) tuttora vigente ma un po’ desueta”.

Proprio in virtù di quanto precede, appare più che mai necessario fissare determinate regole precise.

Innanzitutto, “…deve essere ben chiaro in primo luogo che giammai la mancata comparizione in sede di mediazione potrà costituire argomento per corroborare o indebolire una tesi giuridica, che dovrà sempre essere risolta esclusivamente in punto di diritto”, in quanto lo strumento di cui all’art. 116, co. 2, c.p.c. attiene all’ambito delle prove libere, che il Giudice è tenuto a valutare, ai fini dell’accertamento del fatto, secondo il proprio prudente apprezzamento.

In conseguenza di ciò, “…si ritiene di poter affermare che la mancata comparizione della parte regolarmente convocata, come nel caso in esame, davanti al mediatore costituisce di regola elemento integrativo e non decisivo a favore della parte chiamante, per l’accertamento e la prova di fatti a carico della parte chiamata non comparsa”.

Con ciò non si intende svilire il secondo degli orientamenti cui si è fatto riferimento in precedenza.

Ritiene infatti il Giudice che “…secondo le circostanze del caso concreto gli argomenti di prova che possono essere desunti dalla mancata comparizione della parte chiamata in mediazione ed a carico della stessa nella causa alla quale la mediazione, obbligatoria o demandata, pertiene, possano costituire integrazione di prove già acquisite, ovvero anche unica e sufficiente fonte di prova”.

In sostanza, dunque, alla luce di quanto precede, “…si ritiene che la radicale evidente assenza di un giustificato motivo alla mancata partecipazione della scuola e dell’assicurazione convenuta alla mediazione demandata dal giudice, in forza del combinato disposto degli artt. 8 co.IV° bis del decr. lgsl. 28/2010 e art. 116 c.p.c., concorra alla valutazione del materiale probatorio raccolto nel senso di ritenere raggiunta la piena prova della infondatezza della resistenza ad oltranza dell’assicurazione (ed invero sono provate al di là di ogni ragionevole dubbio, anche mediate il deferito interpello, la sussistenza del rapporto contrattuale, l’affidamento della bambina alla vigilanza ed attenzione del personale della scuola, la circostanza che la minore cadeva mentre si trovava sullo scivolo all’interno della scuola, che le lesioni riportate sono la conseguenza di tale caduta)”.

Sulla base di tutte le ragioni esposte fin qui, pertanto, il Tribunale, definitivamente pronunciando all’esito della trattazione orale di cui all’art. 281 – sexies c.p.c., condanna la Scuola al risarcimento del danno come quantificato in sentenza, al pagamento dei due terzi delle spese di causa e, inoltre, al pagamento di una somma, a favore dell’Erario, di ammontare pari al contributo unificato previsto per il giudizio, a titolo di sanzione per la mancata partecipazione, senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione.

Condanna altresì l’Assicurazione a manlevare la Scuola per quanto concerne il risarcimento del danno.

 

Testo integrale:

 

In NOME del POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE di ROMA SEZIONE Sez.XIII°

  1. RG…..

REPUBBLICA ITALIANA

Il Giudice dott. cons. Massimo Moriconi

nella causa tra

“Genitori” nella qualità di genitori esercenti la potestà su …. (avv.to ….)

attori

E

“Scuola Privata”…. in persona del suo legale rappresentante pro tempore (avv…..)

convenuta

E

“Assicurazione” in persona del suo legale rappresentante pro tempore (avv. ….)

terza chiamata

ha emesso e pubblicato, ai sensi dell’art.281 sexies cpc, alla pubblica udienza del 26.3.2015 dando lettura del dispositivo e della presente motivazione, facente parte integrale del verbale di udienza, la seguente

S E N T E N Z A

letti gli atti e le istanze delle parti,

osserva:

-1- Il fatto

Riferiscono gli attori che il il giorno 9.9.2008 alle ore 15 circa la minore …..di cinque anni allieva della scuola convenuta, si trovava all’interno del detto istituto scolastico privato intenta a fruire dell’area attrezzata e destinata al gioco allestita nel cortile sotto la vigilanza del personale insegnante, allorché mentre utilizzava lo scivolo ivi presente sprovvisto di tappeti antiurto, perdeva improvvisamente l’equilibrio mentre saliva lentamente la scaletta, i cui gradini erano privi di coperture antiscivolo, che conduce alla rampa del detto scivolo, cadendo e riportando gravi danni fisici.

La “Scuola” pur ammettendo la caduta della bambina, sua allieva, contestava, come la “Assicurazione”, ogni censura mossa alla diligenza della scuola.

La domanda degli attori è , nella misura infra esposta, fondata e merita accoglimento.

Va ricordato innanzi tutto che intercorre fra gli attori e la scuola un rapporto contrattuale sicché una volta dimostratane, da parte degli attori, l’esistenza, peraltro non contestata, la presenza della bambina all’interno dell’istituto e la caduta, fatti pacifici, incombeva alla convenuta dimostrare l’adempimento e nel caso di specie che la caduta dallo scivolo e le lesioni in conseguenza subite da ….., fossero imputabili a caso fortuito, nel quale può rientrare anche la condotta negligente dello stesso soggetto infortunato.

Si tratta di una prova rigorosa che l’istituto non avrebbe mai potuto fornire mediante le irrilevanti prove testimoniali richieste, posto che la bambina, di soli cinque anni, andava vigilata seriamente e seguita nel percorso fintanto che avesse preso confidenza con il gioco (scivolo), ciò che non è stato.

-2- L’invio in mediazione demandata e la mancata adesione e comparizione della convenuta e del terzo chiamato

Con ordinanza del 20.2.2014 il giudice attivava un percorso di mediazione demandata ai sensi del comma secondo dell’art.5 decr.lgs.28/2010 come modificato dal d.l.69/2013 [1]

Sia la “Scuola”  che la “Assicurazione” benché ritualmente convocate in mediazione (cfr. verbale redatto dal mediatore dell’Organismo di Mediazione …… del 5.5.2014 compulsato dagli attori) non aderivano all’invito, non si presentavano al fissato incontro, né inviavano al mediatore né esponevano all’udienza di rinvio spiegazioni di sorta per tale condotta.

Ritiene il giudice che non possano nel contesto che ci occupa essere tratte conseguenze della mancata partecipazione della convenuta e del terzo ritualmente convocati al procedimento di mediazione attivato dagli attori su disposizione del giudice ex art.5 co.II° decr.lgsl.28/10 comma (mediazione demandata).

L’art.8 co.IV° bis prima parte del decr. lgsl. 28/2010 relativamente alla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione prevede che il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.

-3- La (in)sussistenza di un giustificato motivo per non aderire, non presentandosi, all’incontro di mediazione.

Non essendo stato neppure addotto, da parte della convenuta e del terzo, un motivo per la mancata adesione e partecipazione all’incontro di mediazione si deve affermare senza ombra di dubbio che tale condotta sia del tutto ingiustificata.

E ciò è già di per sé sufficiente a motivare l’assenza di giustificato motivo.

In questo caso poi sia la scuola che l’assicuratore avevano una evidente ragione per partecipare alla mediazione: in presenza di un rapporto contrattuale di affidamento della bambina alla scuola in base alle norme di cui all’art.1218 e ss. la sussistenza di responsabilità della scuola è in re ipsa avendo riportato la minore gravi lesioni mentre era sotto la vigilanza e la custodia del personale insegnante, sicché la strada (rectius: onere della prova) per una improbabile esclusione della responsabilità era tutta in salita, come usuale allorché si debba provare il caso fortuito.

Tale evidente posizione di debolezza imponeva più che mai la partecipazione alla procedura di mediazione.

D’altra parte tanto più risulta ingiustificato tale atteggiamento di rifiuto di partecipazione alla mediazione attesa la circostanza che il giudice aveva evidentemente esaminato gli atti, studiato le posizioni delle parti, ed infine effettuata una delibazione che, in relazione alle circostanze tutte indicate dal secondo comma dell’art.5 decr.lgsl.28/2010, lo aveva convinto della utilità di un percorso di mediazione nell’ambito del quale le parti avrebbero potuto approfondire le rispettive posizioni fino al raggiungimento di un accordo per entrambe vantaggioso.

Risulta pertanto comprovato che nel caso di specie non solo non sussiste un giustificato motivo per la mancata comparizione della scuola e dell’assicuratore nel procedimento di mediazione; ma che tale rifiuto è del tutto irragionevole, illogico in concreto ma anche dal punto di vista astratto ed inescusabile.

-4- Le conseguenze, sul merito della causa, della mancata partecipazione da parte della scuola e dell’assicurazione, al procedimento di mediazione, senza giustificato motivo.

La mancata partecipazione al procedimento di mediazione (obbligatoria o demandata), senza alcuna giustificazione fornita dalla parte e senza -come in questo caso- che dagli atti del giudizio appaia la incontrovertibile macroscopica evidenza, per motivi di fatto o di diritto, o di entrambi, della inutilità o della impossibilità di riuscita della mediazione, costituisce condotta grave perché idonea a determinare la introduzione o l’incrostazione di una procedura giudiziale (evitabile) in un contesto giudiziario, quello italiano, saturo nei numeri e smisuratamente dilatato nella durata dei giudizi.

Quanto alla possibilità di valorizzare, nel processo, come argomento di prova a sfavore di una parte determinate condotte della stessa (nella specie la mancata comparizione in mediazione, senza giustificato motivo, della parte convocata) si confrontano nella giurisprudenza due diverse opinioni.

Secondo una prima tesi la decisione del giudice non può essere fondata esclusivamente sull’art. 116 c.p.c., cioè su circostanze alle quali la legge non assegna il valore di piena prova, potendo tali circostanze valere in funzione integrativa e rafforzativa di altre acquisizioni probatorie.

Secondo altra opinione non vi è alcun divieto nella legge affinché il giudice possa fondare solo su tali circostanze la sua decisione, valendo come unico limite quello di una coerenza e logica motivazionale in relazione al caso concreto.

È espressione della prima teoria l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui “la norma dettata dall’art. 116 comma 2 c.p.c., nell’abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell’interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di conseguenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre ‘argomenti di prova’, e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze” (fra le tante Cassazione civile, sez. trib., 17/01/2002, n. 443).

La norma in questione merita senz’altro una maggiore utilizzazione anche se a differenza di altri casi in cui da una determinata circostanza è consentito ritenere provato tout court il fatto a carico della parte che tale circostanza subisce, in questo caso la legge prevede che il giudice possa utilizzarla per trarre dalle circostanze valorizzate “argomenti di prova”.

La norma dell’art.116 c.p.c. viene richiamata dal legislatore della mediazione (art.8 decr. lgs. cit.) nell’ambito della ricerca ed elaborazione di una serie di incentivi e deterrenti volti a indurre le parti, con la previsione di vantaggi per chi partecipa alla mediazione e di svantaggi per chi al contrario la rifugge, a comparire in sede di mediazione al fine di pervenire a un accordo amichevole che prevenga o ponga fine alle liti [2]

Ciò sul presupposto che le statistiche ufficiali dimostrano incoraggianti percentuali di successo in presenza della comparizione della parte convocata [3]

Ne consegue, tali essendo le finalità del richiamo dell’art.116 c.p.c nel decr. lgsl. 28/10, che equivarrebbe a tradire l’intento del legislatore, svalutare la portata di tale norma considerandola una mera e quasi irrilevante appendice nel corredo dei mezzi probatori istituiti dall’ ordinamento giuridico.

Va considerato che nell’attuale situazione, affetta da una endemica ed apparentemente insuperabile crisi nei tempi di risposta alla domanda di giustizia, causata dalla imponente mole di cause iscritte nei tribunali e delle corti; e viste le sempre più gravi conseguenze sociali, economiche e di immagine anche internazionale, derivanti dal ritardo nella definizione dei processi, sia necessario rivalutare, senza forzature ma con fermezza, ciò che è previsto da una norma (l’art.116 cpc) tuttora vigente ma un pò desueta.

È necessario tuttavia fissare delle regole precise al riguardo.

Deve essere ben chiaro in primo luogo che giammai la mancata comparizione in sede di mediazione potrà costituire argomento per corroborare o indebolire una tesi giuridica, che dovrà sempre essere risolta esclusivamente in punto di diritto.

A favore o contro la parte non comparsa in mediazione.

Ed infatti lo strumento offerto dall’art. 116 c.p.c. attiene ai mezzi che il giudice valuta, nell’ambito delleprove libere (vale a dire dove si esplica il principio del libero convincimento del giudice precluso in presenza di prova legale ) ai fini dell’accertamento del fatto.

L’argomento di prova appartiene all’ampio armamentario degli strumenti utilizzati dal giudice in un ambito in cui non opera la prova diretta, vale a dire quella dove si ha a disposizione un fatto dal quale si può fondare direttamente il convincimento.

Nel processo di inferenza dal fatto al convincimento l’argomento di prova ha la stessa potenzialità probatoria indiretta degli indizi.

E come le presunzioni semplici ha come stella polare il criterio della prudenza (art. 2729 c.c.) che deve illuminarne l’utilizzo da parte del giudice.

Ciò detto si ritiene di poter affermare che la mancata comparizione della parte regolarmente convocata, come nel caso in esame, davanti al mediatore costituisce di regola elemento integrativo e non decisivo a favore della parte chiamante, per l’accertamento e la prova di fatti a carico della parte chiamata non comparsa.

Con ciò non si intende svalorizzare quella giurisprudenza della Suprema Corte che ha ritenuto che l’effetto previsto dall’art. 116 c.p.c. Può – secondo le circostanze – anche costituire unica e sufficiente fonte di prova (Cassazione civile, sez. III, 16/07/2002, n. 10268, che così si esprime: Quanto a questa ultima norma –art. 116 c.p.c. n.d.r.- in particolare, essa attribuisce certo al giudice il potere di trarre argomento di prova dal comportamento processuale delle parti – e però, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ciò non significa solo che il comportamento processuale della parte può orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma anche che esso può da solo somministrare la prova dei fatti, Cass. 6 luglio 1998 n. 6568; 1 aprile 1995 n. 3822; 5 gennaio 1995 n. 193; 14 settembre 1993 n. 9514; 13 luglio 1991 n. 7800; 25 giugno 1985 n. 3800).

Ritiene infatti il giudice che secondo le circostanze del caso concreto gli argomenti di prova che possono essere desunti dalla mancata comparizione della parte chiamata in mediazione ed a carico della stessa nella causa alla quale la mediazione, obbligatoria o demandata, pertiene, possano costituire integrazione di prove già acquisite, ovvero anche unica e sufficiente fonte di prova.

Alla luce di quanto precede, si ritiene che la radicale evidente assenza di un giustificato motivo alla mancata partecipazione della scuola e dell’assicurazione convenuta alla mediazione demandata dal giudice, in forza del combinato disposto degli artt. 8 co.IV° bis del decr. lgsl. 28/2010 e art. 116 c.p.c.,concorra alla valutazione del materiale probatorio raccolto nel senso di ritenere raggiunta la piena prova della infondatezza della resistenza ad oltranza dell’assicurazione (ed invero sono provate al di là di ogni ragionevole dubbio, anche mediate il deferito interpello, la sussistenza del rapporto contrattuale, l’affidamento della bambina alla vigilanza ed attenzione del personale della scuola, la circostanza che la minore cadeva mentre si trovava sullo scivolo all’interno della scuola, che le lesioni riportate sono la conseguenza di tale caduta)

-5- Le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione

La sanzione del pagamento a favore dell’erario di una somma pari al contributo unificato.

Non avendo partecipato, ingiustificatamente, l’assicurazione al procedimento di mediazione al quale era stata convocata la stessa va condannata al versamento all’Erario della somma di €.550,00, a quanto cioè ammonta il contributo unificato dovuto per il giudizio.

La cancelleria provvederà alla riscossione.

-6- I danni riportati e la quantificazione.

L’evento dannoso è accaduto in data 9.9.2008 quando …… aveva cinque anni.

E’ importante indicare la data del fatto in quanto dal marzo 2001 (l.5.3.2001 n.57) è in vigore il sistema del punto legale al quale il giudice in virtù della legge 12.12.2002 n.273 puo’ derogare in aumento solo nella misura di un quinto.

Più specificamente la legge (oggi decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 Codice delle assicurazioni private, art.139) prevede che il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, è effettuato secondo i criteri e le misure seguenti: a titolo di danno biologico permanente, è liquidato per i postumi da lesioni pari o inferiori al nove per cento un importo crescente in misura più che proporzionale in relazione ad ogni punto percentuale di invalidità; tale importo è calcolato in base all’applicazione a ciascun punto percentuale di invalidità del relativo coefficiente secondo la correlazione esposta nel comma 6. L’importo così determinato si riduce con il crescere dell’età del soggetto in ragione dello zero virgola cinque per cento per ogni anno di età a partire dall’undicesimo anno di età. Il valore del primo punto è pari ad euro seicentosettantaquattro virgola settantotto; a titolo di danno biologico temporaneo, è liquidato un importo di euro trentanove virgola trentasette per ogni giorno di inabilità assoluta; in caso di inabilità temporanea inferiore al cento per cento, la liquidazione avviene in misura corrispondente alla percentuale di inabilità riconosciuta per ciascun giorno.

Come detto, la legge prevede che l’ammontare del danno biologico (temporaneo e permanente)liquidato ai fini può essere aumentato dal giudice in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato.

Ne consegue che per quanto riguarda il danno biologico permanente da 1 a 9 punti ed il danno biologico temporaneo vanno applicate, de plano, le norme suindicate e le relative tabelle applicative (derivanti dai decreti ministeriali di periodico aggiornamento).

Per quanto invece concerne:

  1. il danno biologico (temporaneo e permanente) relativo ad aree diverse da quella dei danni derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti ed
  2. il danno biologico permanente derivante da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti per il quale i postumi delle lesioni sono superiori al nove per cento,

il sistema seguito per la valutazione del danno biologico può muovere (il corsivo sta a significare che non si tratta di un’applicazione standardizzata ed automatica) dal valore di punto che rappresenta il criterio più ampiamente diffuso nell’ambito dei tribunali.

Invero l’applicazione delle tabelle di punto ha il vantaggio di attenuare la possibilità di trattamenti diversi per situazioni analoghe (come pure quello di consentire alle parti di addivenire più agevolmente a soluzioni transattive extragiudiziali).

Tutto ciò però non può assolutamente offuscare la doverosità da parte del giudice (correlativa alla legittima aspettativa della parte) che sia valutata specificamente la situazione sottopostagli valendo in tale contesto le tabelle quale utile parametro di base.

Il Giudice, ritiene applicabili alla fattispecie, che attiene a fattispecie sub 1 che precede, le tabelle elaborate dal tribunale di Roma, sia per la inabilità temporanea che per quella permanente.

Le tabelle romane e quelle milanesi.

Roma risarcisce in modo maggiore rispetto a Milano la invalidità temporanea.

Per la invalidità permanente va considerato che Roma ha tre voci, quella base che non contiene le voci del c.d. danno morale e di quello esistenziale e due voci ulteriori, una minima ed una massima, personalizzate in relazione a tali aspetti di danno, mentre Milano ha solo due voci, minima e massima, entrambe con tali contenuti.

Occorre tenere fermo che sulla base dell’orientamento consolidatosi a seguito di Cass. S.U. n. 2 6972/08, poiché il danno biologico ha natura non patrimoniale, e dal momento che il danno non patrimoniale ha natura unitaria, il risarcimento del danno biologico è liquidato anch’esso in modo unitario, in una somma omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili, ma possono venire in considerazione solo in sede di adeguamento del risarcimento al caso specifico, e sempre che il danneggiato abbia allegato e dimostrato che il danno biologico o morale presenti aspetti molteplici e riflessi ulteriori rispetto a quelli tipici (Cass. n. 24864/10; 4484/10; 25236/09).

Nelle note esplicative delle tabelle romane è condivisibilmente previsto fra l’altro….Per la valutazione equitativa nel caso di effettiva prova (ivi compresa la presunzione nell’ambito del diritto civile) del danno secondo i parametri della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 26792/2008 (il ristoro di tale danno, infatti, compete a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato potendo in questo caso essere oggetto di risarcimento qualsiasi danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, indipendentemente da una sua rilevanza costituzionale; b) quando sia la legge stessa a prevedere espressamente il ristoro del danno limitatamente si soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto; c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale e non predeterminati dovendo, volta a volta essere allegati dalla parte e valutati caso per caso dal giudice (cfr ad es. Cass. sez. III, 25 settembre 2009 n. 20684), si ritiene necessario prendere in considerazione, per il concreto esercizio del relativo potere, un criterio che utilizzi, al fine di individuazione della somma adeguata a quanto provato, un importo percentuale di quanto liquidato a titolo di danno biologico in misura ordinariamente non eccedente il 60%, tenuto conto che nelle tabelle del danno biologico elaborate dal Tribunale non era compresa alcuna quota relativa al cd danno non patrimoniale soggettivo.

Il Giudice, nella presente fattispecie, dà atto che il fatto in sé costituisce reato di lesioni colpose, e che non v’ha dubbio alcuno che debba essere riconosciuto a prescindere dall’esistenza o meno di querela la voce di danno non patrimoniale relativa alla sofferenza ed al patimento che ne sono derivati (descrittivamente danno morale) con applicazione, per la quantificazione, dei criteri, scaglioni e range elaborati a tale proposito dal tribunale romano.

Ne consegue che, fissata al 16% la giusta percentuale di invalidità permanente, con la adeguata personalizzazione del danno che si è stabilita, non risultano aspetti pregiudizievoli non risarciti.

Esaminata e condivisa la relazione peritale d’ufficio, immune da errori o vizi logico-tecnico-giuridici, in assenza di valide e specifiche contestazioni mosse alla relazione dai consulenti e avvocati delle parti, va dato atto e ritenuto che ……ha subito a seguito dell’evento i seguenti danni ed esborsi:

  1. invalidità permanente 16 %
  2. invalidità temporanea 100 % di gg.60
  3. invalidità temporanea 50% di gg.30

(il giudice non condivide l’indicazione di 90 gg. di temporanea assoluta tout court del CTU e la riformula sulla base della sua veste di peritus peritorum)

  1. spese medico-sanitarie

L’ammontare del risarcimento viene pertanto così determinata:

  1. invalidità permanente: €. 41.100
  2. invalidità temporanea: €.8.080
  3. spese medico sanitarie: €.1.095

Le somme che precedono sub a e b sono la risultanza della rivalutazione alla data della decisione (secondo le tabelle aggiornate): ed invero solo attraverso il meccanismo della rivalutazione monetaria è possibile rendere effettivo il principio secondo cui il patrimonio del creditore danneggiato deve essere ricostituito per intero (quanto meno per equivalente); essendo evidente che, pur nell’ambito del vigente principio nominalistico, altro è un determinato importo di denaro disponibile oggi ed altro è il medesimo importo disponibile in un tempo passato).

Inoltre è giusto riconoscere ed aggiungere a tali somme un ulteriore danno consistente nel mancato godimento da parte del danneggiato dell’equivalente monetario del bene perduto per tutto il tempo decorrente fra il fatto e la sua liquidazione. Ed invero devesi a tale fine fare applicazione delle presunzioni semplici in virtù delle quali non si può obliterare che ove il danneggiato fosse stato in possesso delle somme predette le avrebbe verosimilmente impiegate secondo i modi e le forme tipiche del piccolo risparmiatore in parte investendole nelle forme d’uso di tale categoria economica (ad esempio in azioni ed obbligazioni, in fondi, in titoli di Stato o di altro genere) ricavandone i relativi guadagni. Con tali comportamenti oltre a porre il denaro al riparo dalla svalutazione vi sarebbe stato un guadagno (che è invece mancato) che pertanto è giusto e doveroso risarcire, in via equitativa, con la attribuzione degli interessi legali.

Il calcolo di tali interessi viene effettuato in virtù della sentenza del 17.2.1995 n.1712 della Suprema Corte procedendo prima alla devalutazione delle somme alla data del fatto (per la I.P. alla data del consolidamento degli esiti delle lesioni), importi che erano stati rivalutati alla data della sentenza; e successivamente calcolando sugli importi rivalutati anno per anno i relativi interessi legali ai tassi stabiliti per legge anno per anno, senza alcuna capitalizzazione.

In definitiva quindi agli attori n.q. spetta complessivamente la somma di €.55.900 = oltre interessi legali fino al saldo al cui pagamento i convenuti vanno in solido condannati.

Le spese (che vengono regolate secondo le previsioni della l.24.3.2012 n.27 e del D.M. Ministero Giustizia 10.3.2014 n.55) vengono liquidate, come in dispositivo, e compensate per un terzo atteso lo spropositato quantum richiesto con la domanda introduttiva.

La sentenza è per legge esecutiva.-

P.Q.M.

definitivamente pronunziando, ogni contraria domanda eccezione e deduzione respinta, così provvede:

  1. CONDANNA  la “Scuola” in persona del suo legale rappresentante pro tempore al risarcimento dei danni che determina in favore di …. come rappresentata nella complessiva somma di €.55.900,00= oltre agli interessi legali dalla data della sentenza al saldo;
  2. CONDANNA  la “Scuola” in persona del suo legale rappresentante pro tempore, compensate per un terzo le spese di causa, al pagamento dei restanti due terzi che liquida in favore di …… ut sopra in complessivi €.2.400,00 per compensi oltre €.600,00 per spese, oltre IVA, CAP e spese generali; spese di CTU a carico definitivo della convenuta;
  3. CONDANNA la “Assicurazione” a manlevare la “Scuola” relativamente al n.1 che precede;
  4. CONDANNA la “Scuola” in persona del suo legale rappresentante pro tempore al pagamento in favore dell’Erario della somma di €.550,00 pari al contributo unificato dovuto per il giudizio e manda alla cancelleria per la riscossione;
  5. SENTENZA-

 

Roma lì 26.3.2015                                                                             Il Giudice

 

                                                                                             dott.Massimo Moriconi

 

[1] Ord. 20.2.2014: Ritenuto di nulla aggiungere all’ordinanza ammissiva dei mezzi di prova di cui all’udienza del 21.11.2012, essendo sufficiente il materiale in atti;

considerato che in relazione agli atti, all’istruttoria fin qui espletata ed ai provvedimenti del Giudice, le parti ben potrebbero pervenire ad un accordo conciliativo, con il vantaggio di una sollecita risoluzione del conflitto e con utili ricadute anche da punto di vista economico e fiscale (cfr. art.17 e 20 del decr.legisl.4.3.2010 n.28) ;

ammessi i documenti prodotti dalle parti; ed esclusa allo stato ogni prova orale;

ritenuto che si procede ai sensi del secondo comma di cui all’art.5 decr.legisl.28/2010;

ritenuto che si fissa termine fino al 30.3.2014 per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima vi proceda, la domanda di cui al secondo comma dell’art.5 del decreto;

P.Q.M.

  • NON ammette ulteriori mezzi di prova;
  • DISPONE, a cura delle parti, la mediazione della controversia;
  • INVITA i difensori delle parti ad informare i loro assistiti della presente ordinanza nei termini di cui all’art.4, co.3° co.decr.lgsl.28/2010;
  • INFORMA le parti che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’art.5, co.2° e che ai sensi dell’art.8 dec.lgs.28/10 la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione comporta le conseguenze previste dalla norma stessa;
  • FISSA termine fino al 30.3.2014 per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima vi proceda, la domanda di cui al secondo comma dell’art.5 del dec.lgs.28/10;
  • RINVIA all’udienza del 13.11.2014 h.9,30 per quanto di ragione.-

Roma lì 17.2.2014                                                                                Il Giudice

                                                                                         dott.cons.Massimo Moriconi

 

[2] Art.8 co. 4-bis decr.lgsl.28/10 seconda parte: Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per giudizio.

[3] Posto il 57,3% di aderente non comparso ed il 10,3% di proponente rinunciante prima dell’esito, del restante 32,4% di aderente comparso il 42,4 % costituisce la percentuale di accordi raggiunti (statistiche 1.1.2013-31.12.2013 Ministero Giustizia http://webstat.giustizia.it/AreaPubblica/Analisi%20e%20ricerche/Mediazione%20civile%20al%2031%20dicembre%202013.pdf)

Mediazione-obbligatoria

Tribunale di Nola, sentenza 24 febbraio 2015

Commento:

Ancora un provvedimento, nella fattispecie ad opera del Tribunale di Nola, con il quale si conferma l’orientamento “sistematico – evolutivo” in relazione alle conseguenze della mancata instaurazione del procedimento di mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Il Giudice, infatti, ritiene di aderire al “…non isolato orientamento (Cfr. Trib. Rimini, 05.8.2014) che, muovendo dalla necessità di fornire alla disciplina dettata dal d.lgs. 28/2010 una interpretazione sistematica, che sia coerente non solo con l’intero universo normativo in materia di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ma, altresì, con la ratio che ha animato il legislatore dell’Istituto della mediazione obbligatoria, individuando nell’opponente il soggetto su cui graverebbe l’onere di coltivare il giudizio e, quindi, anche gli effetti pregiudizievoli di un’eventuale improcedibilità. Con la conseguenza che, una volta dichiarata l’improcedibilità dell’opposizione, il corollario giuridico di detta pronuncia non potrà che essere la conferma del decreto ingiuntivo opposto”.

Sembra opportuno ricostruire le posizioni successivamente emerse in giurisprudenza.

Come è noto, l’art. 5, co. 2 – bis, D. lgs 28/2010, prevede che “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”.

Va altresì rammentato che, a norma dell’art. 5, co. 4, i commi 1 – bis e 2 del medesimo articolo 5, vale a dire le disposizioni che prevedono la mediazione obbligatoria prima del giudizio, ovvero la mediazione delegata dal giudice per le cause già pendenti, non si applicano “ ...nei procedimenti di ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.

Il legislatore ha evidentemente ritenuto che lo svolgimento della procedura di mediazione fosse sostanzialmente incompatibile con le peculiari caratteristiche del procedimento monitorio, caratterizzato dalla rapidità e assenza di previa attivazione del contraddittorio, e dell’opposizione, il cui termine di proponibilità risulta contingentato dall’art. 641 c.p.c.

In conseguenza di quanto premesso, in caso di pretesa azionata in via monitoria, l’esperimento della mediazione diviene possibile solo quando sia stata proposta opposizione, e comunque dopo l’adozione dei provvedimenti, considerati urgenti e latu sensu cautelari, sulla esecutività del provvedimento monitorio emesso.

Ora, fermo restando che ai sensi dell’art. 5, co. 2, citato, il mancato esperimento della mediazione delegata dal giudice, così come nel caso di mediazione ante causam, comporta la improcedibilità della domanda giudiziale, ha costituito oggetto di vivace dibattito, in dottrina e giurisprudenza, il punto relativo a chi abbia l’onere di promuovere la mediazione, e quindi abbia interesse ad evitare la declaratoria di improcedibilità, per l’appunto con riferimento all’ipotesi di mediazione in presenza di opposizione a decreto ingiuntivo.

In ordine alla problematica in esame, due diversi orientamenti si sono successivamente contrapposti.

Secondo un primo indirizzo, che valorizza la consolidata giurisprudenza circa l’oggetto del giudizio di opposizione, la declaratoria di improcedibilità avrebbe ad oggetto la domanda sostanziale proposta in via monitoria.

Il ricorrente opposto, formalmente convenuto nel relativo giudizio, è da considerarsi attore sotto il profilo sostanziale, mentre l’opponente, che formalmente ha agito, sempre sotto il profilo sostanziale deve ritenersi convenuto.

Pertanto l’opposto, titolare della pretesa sostanziale azionata, divenuta oggetto del giudizio di opposizione, avrà l’onere di promuovere il tentativo di mediazione, subendo, in mancanza, la declaratoria di improcedibilità della domanda, che implicherebbe il venir meno della pretesa sostanziale proposta in via monitoria.

Alla base di una siffatta ricostruzione si pone la ricorrente considerazione secondo cui, diversamente opinando, si finirebbe con il produrre un irragionevole squilibrio ai danni del debitore che non solo subisce l’ingiunzione di pagamento a contraddittorio differito, ma nella procedura successiva alla fase sommaria, viene pure gravato di altro onere che, nel procedimento ordinario, non spetterebbe a lui. E ciò sulla base di una scelta discrezionale del creditore (cfr., ex multis, Trib. Varese, 18 maggio 2012, est. Buffone).

Secondo un diverso orientamento, invece, muovendo da una lato da una asserita scarsa chiarezza obbiettiva delle espressioni letterali utilizzate dal legislatore e dall’altro dall’intento di valorizzare la particolare disciplina giuridica del giudizio di opposizione, si è sostenuta, in caso di omessa mediazione, la improcedibilità della opposizione, con conseguente passaggio in giudicato del decreto opposto (cfr., ad es., Trib. Prato, 18 luglio 2011, est. Iannone; Trib. Rimini, 5 agosto 2014, est. Bernardi; e, più recentemente, Trib. Firenze, 30 ottobre 2014, est. Ghelardini).

Tale opzione ermeneutica è quella che appare più in armonia con il contesto normativo in cui si inserisce il giudizio di opposizione e, in particolare, con il sistema di sanzioni previste dall’ordinamento a fronte dell’inattività del debitore ingiunto.

Occorre innanzitutto fare riferimento alla disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 647 e 650 c.p.c. in virtù del quale, dichiarata l’inammissibilità dell’opposizione tardiva, il decreto acquista esecutività.

La medesima sanzione è prevista, poi, dal richiamato art. 647 c.p.c. per l’ipotesi di costituzione tardiva dell’opponente.

Viene in rilievo, infine, il dettato dell’art. 653 c.p.c. che, per il caso di dichiarazione dell’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307 c.p.c. , stabilisce che “il decreto che non ne sia già munito acquista efficacia esecutiva”.

D’altro canto, ritenere che la mancata instaurazione del procedimento di mediazione conduca alla revoca del decreto ingiuntivo comporterebbe che, in contrasto con le regole processuali proprie del rito, si porrebbe in capo all’originario ingiungente l’onere di coltivare il giudizio di opposizione per garantirsi la salvaguardia del decreto opposto, con ciò contraddicendo la ratio propria del giudizio di opposizione, che ha la propria peculiarità nel rimettere l’instaurazione del giudizio – e, quindi, la sottoposizione al vaglio del giudice della fondatezza del credito oggetto d’ingiunzione  – alla libera scelta del debitore.

Del resto, se solo si considera che l’opposto è già munito di un titolo che, come detto, è destinato a consolidarsi nel caso di mancata opposizione, appare evidente che è proprio l’opponente la parte più interessata all’esito del giudizio di opposizione.

D’altra parte, con riferimento a quanto previsto dall’art. 653 c.p.c., è opportuno sottolineare che secondo la costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, concorde la dottrina, tale disposizione va intesa nel senso che l’estinzione del giudizio di opposizione produce gli stessi effetti dell’estinzione del giudizio di impugnazione: il decreto ingiuntivo opposto diviene definitivo ed acquista l’incontrovertibilità propria del giudicato (cfr. Corte Cassaz,. n. 4294/2004). Non sarà pertanto possibile riproporre l’opposizione e resteranno coperti da giudicato implicito tutte le questioni costituenti antecedente logico necessario della decisione monitoria (cfr. Corte Cassaz. 15178/2000).

Evidente l’analogia di ratio e di disciplina tra l’estinzione dell’opposizione a decreto ingiuntivo e quella del processo di appello (art. 338 c.p.c. secondo cui “l’estinzione del giudizio di appello… fa passare in giudicato la sentenza impugnata…”).

Inoltre, la soluzione interpretativa in parola appare maggiormente coerente anche con la finalità deflattiva che ha accompagnato l’introduzione da parte del legislatore dell’istituto della mediazione: il formarsi del giudicato sul decreto ingiuntivo opposto, infatti, esclude che possa mettersi nuovamente in discussione tra le parti il rapporto controverso mediante la riproposizione della medesima domanda.

Pertanto, sulla base del complesso di considerazioni finora svolte, il Tribunale di Nola ha ritenuto di dichiarare improcedibile l’opposizione e, per l’effetto, esecutivo il decreto ingiuntivo opposto, con spese del giudizio che, ovviamente, seguono la soccombenza.

 

Testo integrale:

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI NOLA
II SEZIONE CIVILE
IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA, IN PERSONA DELLA DOTT.SSA
MARIA GABRIELLA FRALLICCIARDI

 

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Ai sensi dell’art.281 sexies c.p.c.

Nella causa iscritta al nrg_____/2014

TRA

Ditta X, in persona del rappresentante p.t.____ rappresentato e difeso dall’avv._____

Opponente

NEI CONFRONTI DI

Banco ____ in persona del legale rappresentante p.t., con l’avv._______

Opposta

Oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo n.___/2013 emesso dal Tribunale di Nola in data_____.

 

Conclusioni: come da atti di causa e verbali di udienza del____

 

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO

Con atto di citazione notificato in data 25.02.2014, la Ditta X in qualità di debitore principale e_____ in qualità di fideiussore, proponevano opposizione avverso il d.i. n. ___/2013 con il quale, in data _____questo Tribunale aveva ingiunto loro di pagare alla Banco_____ l’importo di euro 63.901,59, oltre interessi, a titolo di saldo debitore relativo al conto corrente n.1611/9353 acceso dalla ____ presso l’Istituto di credito ricorrente.

Si costituiva l’opposta chiedendo il rigetto dell’opposizione perché infondata.

Alla prima udienza di comparizione della parti, questo giudice, ritenendo non sussistessero i presupposti di cui all’art. 648 c.p.c., rigettava la richiesta di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto e, rilevato che le parti non avevano provveduto ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione ex d.lgs. 28/2010, rinviava all’udienza del 05.02.2015, assegnando termine alle parti di quindi giorni per la presentazione della domanda di mediazione.

All’udienza del 05.02.2015 le parti dichiaravano di non aver esperito il tentativo di conciliazione e, pertanto, chiedevano fissarsi udienza di discussione ai sensi dell‘art. 281 sexies c.p.c. al fine di dichiarare la improcedibilità dell’opposizione.

All’udienza del 24.02.2015, all’esito della discussione delle parti, il giudice ha deciso la causa dando lettura della sentenza.

Si osserva in diritto.

L’opposizione è improcedibile.

Al riguardo viene in rilievo il d.lgs. 28/2010 che, all’art. 5 ha introdotto, quale condizione di procedibilità per le controversie aventi ad oggetto, tra le parti, i contratti bancari, l’esperimento di un procedimento di mediazione ai sensi del medesimo decreto (…), prevedendo che altresì, qualora il mancato esperimento della mediazione venga eccepito dal convenuto o rilevato dal giudice entro la prima udienza, quest’ultimo assegni alle parti il termine di quindici giorni per l’avvio del procedimento in parola.

Ai sensi dell art. 5 cit., poi, il mancato esperimento della mediazione delegata dal giudice, così come nel caso di mediazione ante causam, comporta l’improcedibilità della domanda giudiziale.

Ciò premesso in ordine alla necessità di dichiarare l’improcedibilità dell’opposizione atteso che, come rilevato, le parti non hanno ottemperato all’invito del giudice di avviare il procedimento di mediazione, va ora stabilito quale sia la sorte del decreto ingiuntivo opposto per effetto di detta improcedibilità dell’opposizione.

Non ignora questo giudice che sul punto, all’indomani delle prime applicazioni interpretative della disciplina richiamata, si è formato nella giurisprudenza di merito (Trib. Varese, 18.05.2012) un orientamento secondo cui, vertendo il giudizio di opposizione sulla pretesa creditoria vantata dall’opposto e gravando su quest’ultimo attore in senso sostanziale, l’onere probatorio e le relative facoltà di domanda riconvenzionale, proponendo “domanda giudiziale” dovrebbe, conseguentemente subire gli effetti dell’eventuale declaratoria di improcedibilità e, in particolare di revoca del decreto opposto.

Ritiene questo giudice di aderire al diverso e non isolato orientamento (Cfr. Trib. Rimini, 05.8.2014) che, muovendo dalla necessità di fornire alla disciplina dettata dal d.lgs. 28/2010 una interpretazione sistematica, che sia coerente non solo con l’intero universo normativo in materia di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ma, altresì, con la ratio che ha animato il legislatore dell’Istituto della mediazione obbligatoria, individuando nell’opponente il soggetto su cui graverebbe l’onere di coltivare il giudizio e, quindi, anche gli effetti pregiudizievoli di un’eventuale improcedibilità. Con la conseguenza che, una volta dichiarata l’improcedibilità dell’opposizione, il corollario giuridico di detta pronuncia non potrà che essere la conferma del decreto ingiuntivo opposto.

A ben vedere, infatti, tale opzione ermeneutica è quella che meglio si armonizza col contesto normativo in cui si inserisce il giudizio di opposizione e, in particolare, con il sistema di sanzioni previste dall’ordinamento a fronte dell’inattività del debitore ingiunto.

Si fa riferimento, in primo luogo, alla disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 647 e 650 c.p.c. in virtù del quale, dichiarata l’inammissibilità dell’opposizione tardiva, il decreto acquista esecutività.

Medesima sanzione è prevista, poi, dal richiamato art. 647 c.p.c. per l’ipotesi di costituzione tardiva dell’opponente.

Viene in rilievo, infine, il dettato dell’art.653 c.p.c. che, per il caso di dichiarazione dell’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307 c.p.c. , stabilisce che “il decreto che non ne sia già munito acquista efficacia esecutiva”.

D’altro canto, come pure correttamente evidenziato dall’opposto, ritenere che la mancata instaurazione del procedimento di mediazione conduca alla revoca del decreto ingiuntivo in capo all’ingiungente comporterebbe che, in contrasto con le regole processuali proprie del rito si porrebbe in capo all’ingiungente opposto l’onere di coltivare il giudizio di opposizione per garantirsi la salvaguardia del decreto opposto, con ciò contraddicendo la ratio del giudizio di opposizione che ha la propria peculiarità nel rimettere l’instaurazione del giudizio – e, quindi, la sottoposizione al vaglio del giudice della fondatezza del credito ingiunti – alla libera scelta del debitore.

Del resto, se solo si considera che l’opposto è già munito di titolo che, come visto, è destinato a consolidarsi nel caso di mancata opposizione, appare evidente che è proprio l’opponente la parte più interessata all’esito del giudizio di opposizione.

Come anticipato in premessa, poi, una soluzione interpretativa appare maggiormente coerente anche con la finalità deflattiva che ha accompagnato l’introduzione da parte del legislatore dell’Istituto della mediazione: il formarsi del giudicato sul decreto ingiuntivo opposto, infatti, esclude che possa mettersi nuovamente in discussione tra le parti il rapporto controverso mediante la riproposizione della medesima domanda.

Pertanto, alla stregua di tutte le considerazioni esposte l’opposizione va dichiarata inprocedibile e, per l’effetto, dichiarato esecutivo il decreto ingiuntivo n.___2013 emesso dal Tribunale di Nola in data ____.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate da dispositivo (….)

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale di Nola, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla causa iscritta al nrg.____/2014, così provvede:

  1. Dichiara improcedibile l’opposizione e, per l’effetto, dichiara esecutivo il decreto ingiuntivo____/2013 emesso dal Tribunale di Nola in data_____;
  2. Condanna l’opponente al pagamento, in favore di parte opposta, delle spese del giudizio di opposizione che liquida in complessivi €.8.050,00 (di cui €.8.030,00 per compensi e €.30,00 per spese) oltre il rimborso forfettario pari al 15%, oltre Iva e CPA.

 

Nola, 24.02.2015

Il Giudice
dott.ssa Maria Gabriella Frallicciardi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sentenze mediazione civile

Tribunale di Pavia, sez. III civile, ordinanza 9 marzo 2015.

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Commento:

Il Tribunale di Pavia, con l’ordinanza in commento, si allinea alla giurisprudenza ormai largamente prevalente in base alla quale il tentativo di mediazione non può considerarsi una mera formalità da assolversi con la partecipazione dei soli difensori all’incontro preliminare informativo, dal momento che i legali sono già a conoscenza del contenuto e delle finalità della procedura di mediazione, risultando viceversa necessaria la partecipazione delle parti personalmente – o dei rispettivi procuratori speciali a conoscenza dei fatti e muniti del potere di conciliare – che all’interpello del mediatore esprimano la loro volontà di proseguire nella procedura di mediazione oltre il primo incontro.

Ciò, in particolare, perché la valutazione circa la “mediabilità” della controversia risulta già effettuata dal giudice stesso con il provvedimento medesimo, nel quale, tra l’altro, viene articolata una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., disponendosi contestualmente la mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, per l’ipotesi in cui le parti ritengano di non aderire alla soluzione prospettata dal Tribunale (ovvero di svilupparla autonomamente in mediazione).

L’ordinanza in parola, dunque, appare di notevole interesse in quanto tende a compendiare due distinti orientamenti, peraltro tra loro pienamente complementari, radicatisi in giurisprudenza all’indomani dell’entrata in vigore della legge 98/2013.

Innanzitutto, sotto un profilo di principio.

La mediazione disposta dal giudice ai sensi del novellato art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010 costituisce, come è noto, condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Ai fini dell’avverarsi di detta condizione, secondo la giurisprudenza sviluppatasi a seguito delle ordinanze 17 e 19 marzo 2014 del Tribunale di Firenze, al cui retroterra il presente provvedimento mostra di aderire pienamente, occorre che il tentativo di mediazione sia effettivo e che le parti partecipino personalmente allo stesso, salvo ipotesi eccezionali, non risultando in ogni caso sufficiente la presenza dinanzi al mediatore dei soli avvocati che le assistono.

L’assenza della parte determinerebbe conseguenze rilevanti sulla natura stessa del tentativo di mediazione che, in quanto tale, dovrebbe dipanarsi in modo tale da consentire agli interessati di assurgere quanto più possibile al ruolo di autentici protagonisti della vicenda (auspicabilmente) destinata a favorire il recupero del rapporto tra le parti, anticamera di ogni ipotesi di conciliazione. Una trattativa svolta dai soli avvocati potrebbe anche portare ad un esito fruttuoso, ma non rappresenterebbe una mediazione vera e propria, assumendo piuttosto le sembianze di una mera transazione, in quanto tale ispirata alla (diversa) logica delle reciproche rinunce.

D’altra parte, però, la presenza personale delle parti a nulla gioverebbe, se calata all’interno di una vuota formalità mirante unicamente all’ottenimento di un verbale negativo, senza alcun tentativo concreto di soluzione stragiudiziale.

Secondo la giurisprudenza citata, infatti, la mediazione disposta dal giudice deve  essere intesa alla stregua di un tentativo di mediazione effettivamente avviato, ossia di un tavolo nel quale le parti, anziché limitarsi ad incontrarsi ed informarsi, per poi non aderire alla proposta del mediatore di procedere, adempiano effettivamente all’ordine del giudice, partecipando alla vera e propria procedura propedeutica ad una eventuale conciliazione, salvo, naturalmente, l’emergere di questioni pregiudiziali (di natura – pertanto – oggettiva) ostative al suo svolgimento.

Nella mediazione delegata dal giudice non può che essere quest’ultimo a valutare, secondo i parametri legali, i margini di componibilità stragiudiziale della controversia, con conseguente ridimensionamento della funzione del primo incontro di mediazione di cui all’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010, tanto più in un’ottica quale quella post riforma per la quale la mediazione è “disposta” (rectius: ordinata) dal giudice,  il quale non si limita più, pertanto, a rivolgere un mero invito alle parti, ma esercita un potere affidatogli dalla legge la cui conseguenza immediata è di condizionare la procedibilità del giudizio pendente dinanzi a sé.

In secondo luogo, sotto un profilo attinente al modus operandi del giudice.

Nel provvedimento in esame, infatti, viene ribadita la cumulabilità tra proposta transattiva o conciliativa formulata dal giudice ex art. 185 – bis c.p.c. e mediazione disposta ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Si tratta di una tecnica inaugurata dal Tribunale di Roma, sez. XIII civile, con l’ordinanza 24 ottobre 2013 e che, come ormai ben noto, è divenuta in seguito di utilizzo comune.

In sostanza, formulata la proposta e assegnato un congruo termine per la valutazione della medesima, il giudice dispone che dalla eventuale infruttosa scadenza dello stesso decorrerà il termine ulteriore di 15 gg. per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima vi proceda, l’istanza relativa alla mediazione disposta ex ante dal giudice stesso in previsione dell’eventualità di non adesione alla proposta.

Viene infine fissata un’udienza alla quale in caso di accordo  le parti potranno anche non comparire; viceversa, in caso di mancato accordo, potranno, volendo, in quella sede fissare a verbale quali siano state le loro posizioni a riguardo (naturalmente con riferimento alla sola proposta del giudice), anche al fine di consentire l’eventuale valutazione giudiziale della condotta processuale delle stesse, ai fini degli artt. 91 e 96, co. 3, c.p.c.

Si tratta di una tecnica che appare convincente, in quanto, nell’ipotesi in cui le parti (o una di esse) non ritenessero di aderire alla proposta giudiziale, quest’ultima potrebbe in ogni caso fungere da base di trattativa passibile di sviluppi autonomi, da verificarsi nel successivo (ma preventivato) tavolo di mediazione.

Ben potrà, infatti, il mediatore, anche sulla base dell’eventuale proposta formulata dal giudice e dei motivi per i quali una delle parti (o entrambe) non abbia ritenuto di accoglierla, estendere il tentativo conciliativo a profili emersi successivamente alla formulazione della proposta stessa o, comunque, se già esistenti, non entrati nel thema decidendum, superando così il vincolo rappresentato, nel giudizio, dalla corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

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Testo integrale:

 TRIBUNALE DI PAVIA

Sezione III Civile
Dott. Giorgio Marzocchi

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo
promosso da
……..
attore-opponente
contro
……..
convenuto-opposto

Il giudice istruttore del Tribunale di Pavia, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 4.03.2015,

Osserva

da una delibazione degli atti e dei documenti del fascicolo; dall’esito dell’interrogatorio libero esperito anche a fini conciliativi all’ultima udienza del 4.03.2015; dalla disponibilità delle parti manifestata in esito al fallimento del tentativo di conciliazione giudiziale, discende l’opportunità di disporre l’esperimento di una procedura di mediazione, previa proposta giudiziale di conciliazione della lite;

Visto l’art. 185 bis, cpc, considerata la natura della causa, il valore della lite e le questioni di diritto non particolarmente complesse che vengono in considerazione nel presente giudizio;

Si propone alle parti:

di definire amichevolmente la lite nel modo seguente: la società opponente s’impegni ad effettuare un pagamento, a saldo e stralcio in favore dell’opposto, per il titolo dedotto in giudizio, della somma di € 5.500,00 (cinquemilacinquecento/00), da intendersi onnicomprensive di capitale, interessi e concorso nelle spese legali (al lordo di tutti gli accessori). La somma potrà essere corrisposta in parte alla conclusione dell’accordo e in parte in rate mensili.

Si invitano i difensori, ove condividessero l’opportunità della proposta transattiva giudiziale, a prendere contatto tra loro per definire le concrete modalità del pagamento, invitandoli, ove preferissero formalizzare l’accordo in un verbale di conciliazione giudiziale, ad avanzare apposita istanza di anticipazione dell’udienza.
In caso di mancato accordo – da accertarsi a cura dei difensori entro il termine perentorio del 15.04.2015 – sulla sopra formulata proposta giudiziale o su altra liberamente determinabile nell’esercizio dell’autonomia negoziale delle parti

 Dispone come segue:

Considerato lo stato dell’istruzione, la natura della causa e il comportamento delle parti;
Ritenuto opportuno ordinare il tentativo di mediazione in vista di una possibile conciliazione della lite, alla luce degli elementi in fatto e di diritto già emersi;
Ritenuto che il tentativo di mediazione non possa considerarsi una mera formalità da assolversi con la partecipazione dei soli difensori all’incontro preliminare informativo, essendo evidente che i legali sono già a conoscenza del contenuto e delle finalità della procedura di mediazione ed essendo al contrario necessaria la partecipazione delle parti personalmente – o dei rispettivi procuratori speciali a conoscenza dei fatti e muniti del potere di conciliare – che all’interpello del mediatore esprimano la loro volontà di proseguire nella procedura di mediazione oltre l’incontro preliminare (ex multis, Trib. Palermo, Ord. 16.06.14; Trib. Roma, Ord. 30.06.14; Trib. Firenze, Ord. 26.11.2014; Trib. Siracusa, Ord. 17.01.15);

Viste le modifiche introdotte dal D.L. 69/2013, convertito con modificazioni dalla L. 98/2013;

 PQM

 Letto ed applicato l’art. 5, co. 2, D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28,

Ordina alle parti, in caso di mancato accordo entro il 15.04.2015 sulla proposta giudiziale sopra formulata, l’esperimento del procedimento di mediazione, ponendo l’onere dell’avvio della procedura a carico della parte più diligente e avvisando entrambe le parti che, per l’effetto, il tempestivo esperimento del tentativo di mediazione – presenti le parti o i loro procuratori speciali e i loro difensori – sarà condizione di procedibilità della domanda giudiziale e che, considerato che il giudizio sulla mediabilità della controversia è già dato con il presente provvedimento, la mediazione non potrà considerarsi esperita con un semplice incontro preliminare tra i soli legali delle parti;

Visti gli artt. 8, co. 4-bis, D.Lgs. 28/2010, 116, co. 2, 91 e 96 cpc, invita il mediatore a verbalizzare quale, tra le parti che partecipano all’incontro, dichiari di non voler proseguire nella mediazione oltre l’incontro preliminare;

Ordina alla parte più diligente di allegare la presente ordinanza anche in copia “libera” all’istanza di avvio della mediazione o all’adesione alla stessa, in modo che il mediatore possa averne compiuta conoscenza;

Rinvia la causa all’udienza del 23 settembre 2015, ore 10,30

1) per la verifica dell’esito della procedura di mediazione e, in caso suo esito negativo,
2) per la trattazione orale sulla sussistenza delle condizioni e sull’opportunità per le parti di presentazione dell’istanza congiunta, ex art. 1, co. 1, D.L. 132/14, convertito in L. 162/14, di trasferimento del giudizio alla sede arbitrale forense, ex art. 1, co. 4, L. cit., con invio del fascicolo al Presidente dell’Ordine Avvocati di Pavia;
3) in subordine, in caso di mancanza dell’istanza congiunta di cui sopra, per la precisazione delle conclusioni.

Assegna alle parti il termine perentorio del 30.04.2015 per la presentazione della domanda di avvio della procedura di mediazione da depositarsi presso un Organismo, regolarmente iscritto nel registro ministeriale, che svolga le sue funzioni nel circondario del Tribunale di Pavia, ex. art. 4, co. 1, D. Lgs. 28/2010;

Manda alla cancelleria per le comunicazioni alle parti costituite.

Pavia, 9 marzo 2015
Dott. Giorgio Marzocchi

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