Corte Costituzionale: Mediazione Civile e Negoziazione Assistita

Con la Sentenza 18 aprile 2019, n. 97, la Consulta si è pronunciata su alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento al d.l. n. 69 del 2013 con il quale, come è noto, profondamente innovando quanto originariamente previsto dal d.lgs n. 28 del 2010 (peraltro colpito dalla sentenza di accoglimento – per eccesso di delega – della stessa Corte costituzionale, n. 272 del 2012), il legislatore ebbe ad introdurre l’attuale modello di mediazione civile e commerciale.

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In sintesi, le questioni de quibus sono tre.

Con la prima ordinanza di rimessione, il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato – in riferimento agli art. 3 e 77, secondo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 84, comma 1, lettera i), del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, nella parte in cui aggiunge il comma 4-bis, secondo periodo, all’art. 8 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali), nonché del comma 2 del medesimo art. 84.

Con la seconda ordinanza, il Tribunale di Verona ha sollevato – in riferimento agli art. 3 e 77, secondo comma, Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 84, comma 1, lettera b), del medesimo d.l. n. 69 del 2013, che ha inserito il comma 1-bis all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nonché dell’art. 84, comma 2, dello stesso decreto legge.

Infine, sia pure in via subordinata, il Tribunale di Verona ha revocato in dubbio la legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, lettera a), del d.lgs. n. 28 del 2010, in riferimento all’art. 3 Cost., in relazione al principio di uguaglianza.

I giudizi relativi alle prime due questioni, in considerazione della parziale identità delle norme denunciate e, soprattutto, delle censure formulate, sono state riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

Con la prima disposizione censurata (art. 84, comma 1, lettera b), d.l. n. 69 del 2013) il legislatore ha inserito il comma 1-bis all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, con ciò reintroducendo la mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale in relazione a talune materie (tra le quali quella dei contratti bancari oggetto dei giudizi a quibus), specificamente individuate dalla norma.

La seconda disposizione (art. 84, comma 1, lettera i), d.l. n. 69 del 2013) ha invece riprodotto, aggiungendo all’art. 8 il comma 4 – bis,  quanto in precedenza previsto dal comma 5 della medesima disposizione (parimenti dichiarato incostituzionale, in via consequenziale, con la citata sentenza n. 272/2012), vale a dire che “il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5 non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio”.

Secondo il giudice rimettente, in sostanza, tanto il disposto della lettera b) quanto quello della lettera i) difetterebbero dei requisiti di necessità e urgenza legittimanti la loro adozione con la modalità del decreto legge, in quanto il successivo comma 2 del medesimo art. 84, d.l. n. 69 del 2013, peraltro anch’esso autonomamente censurato, avrebbe posticipato la loro entrata in vigore di trenta giorni rispetto alla data di entrata in vigore del decreto legge stesso (o, più correttamente, come sottolineato dalla Corte, rispetto alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto).

Ciò, fondamentalmente, per un duplice ordine di ragioni.

Sotto un primo profilo, infatti, il predetto differimento sarebbe incompatibile con l’urgenza del provvedere, che presupporrebbe, al contrario, l’immediata applicabilità delle norme dettate dal decreto legge, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 15, co. 3, l. n. 400 del 1988.

Secondo aspetto, il differimento in parola determinerebbe una carenza di omogeneità finalistica tra le norme censurate e le altre introdotte dal d.l. n. 69 del 2013, la cui efficacia non sarebbe stata procrastinata.

Ebbene, secondo il Giudice delle leggi, le questioni nel merito non sono fondate.

Innanzitutto ed in via generale, le stesse devono essere scrutinate in base al consolidato orientamento proprio della Corte, secondo cui “…il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge va limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione”. (cfr. sentenza n. 99 del 2018).

In particolare, secondo la Corte, non può condividersi, quanto al primo profilo in cui è articolata la censura, la tesi del rimettente secondo cui “…l’insussistenza della straordinaria necessità e urgenza sarebbe desumibile dal mero differimento dell’efficacia delle disposizioni censurate”.

Al contrario, la Corte, pur sottolineando come l’art. 15, co. 3, l. n. 400 del 1988, nel prescrivere, tra l’altro, che i decreti devono contenere misure di immediata applicazione, costituisca esplicitazione della ratio implicita nell’art. 77, co. 2, Cost. – ha tuttavia precisato “…che la necessità di provvedere con urgenza «non postula inderogabilmente un’immediata applicazione delle disposizioni normative contenute nel decreto-legge» (sentenza n. 170 del 2017; nello stesso senso sentenze n. 5 del 2018, n. 236 e n. 16 del 2017). Mette conto, d’altra parte, osservare che, nel caso di specie, la norma che ha reintrodotto l’obbligatorietà della mediazione avrebbe evidentemente comportato un significativo incremento delle istanze di accesso al relativo procedimento: la decisione di procrastinarne, peraltro per un periodo contenuto, l’applicabilità è, pertanto, ragionevolmente giustificata dall’impatto che essa avrebbe avuto sul funzionamento degli organismi deputati alla gestione della mediazione stessa”.

E, concludono sul punto i Giudici, “…una volta posticipata l’efficacia della mediazione obbligatoria, diviene con riguardo a essa coerente il differimento anche della connessa disciplina, posta dal secondo periodo del comma 4-bis dell’art. 8 del d.lgs. n. 28 del 2010, come introdotto dall’art. 84, comma 1, lettera i), del d.l. n. 69 del 2013, delle conseguenze della mancata partecipazione, senza giustificato motivo, al relativo procedimento”.

Nemmeno condivisibile è, ad avviso del Collegio, l’assunto su cui poggia il secondo profilo in cui è articolata la censura in esame, vale a dire che le disposizioni sottoposte a scrutinio difetterebbero di coerenza funzionale rispetto alle altre norme contenute nel d.l. n. 69 del 2013 in quanto il legislatore avrebbe differito l’applicabilità solo delle prime.

La Corte costituzionale, già da tempo (cfr. sentenza n. 22 del 2012), ha avuto modo di rilevare come dalla “uniformità teleologica” che deve accomunare le norme contenute in un decreto legge non possa inferirsi, “…contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, un generale corollario per cui queste dovrebbero tutte necessariamente sottostare al medesimo termine iniziale di efficacia. La omogeneità finalistica che deve connotare le norme introdotte con la decretazione d’urgenza non presuppone, infatti, indefettibilmente l’uniformità di tale termine, ben potendo alcune di esse risultare comunque funzionali all’unico scopo di approntare rimedi urgenti anche là dove ne sia stata procrastinata l’applicabilità”.

D’altra parte, la Corte sottolinea a chiare lettere come il disposto differimento delle norme in parola qui censurate trovi il proprio fondamento nell’evidente esigenza di assicurare il corretto funzionamento degli organismi di mediazione: “…dunque, non solo non è sintomatico dell’assenza di coerenza finalistica, ma, al contrario, concorre a garantirla”.

Dunque, secondo la pronuncia in commento, deve escludersi tanto l’evidente difetto dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77 Cost., quanto l’esistenza di una disomogeneità finalistica delle norme censurate rispetto alle altre contenute nel decreto-legge.

Come in precedenza rilevato, entrambe le ordinanze di rimessione del Tribunale di Verona considerano “immotivata e priva di una ragione logica” la previsione dell’art. 84, co. 2, d.l. n. 69 del 2013, che posticipa, come si è visto, di trenta giorni rispetto all’entrata in vigore della legge di conversione l’applicabilità delle disposizioni di cui al precedente comma 1: e la censurano perciò per contrasto con l’art. 3 Cost.

Sul punto, il giudizio della Corte è tranchant.

Essa, infatti, pur rilevando la obiettiva sinteticità che caratterizza la censura in parola, ritiene comunque assolto l’onere di motivazione che grava sul giudice rimettente, dal momento che quest’ultimo “…sulla base di un argomento sostanzialmente sovrapponibile a quello sviluppato in merito all’asserita violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., reputa illogica, e perciò in contrasto con l’art. 3 Cost., la decisione di differire l’applicabilità di una norma adottata in sede di decretazione d’urgenza, evidenziando, quale indice sintomatico di tale irragionevolezza, la diversa soluzione prescelta dal legislatore con riguardo ad altre norme contenute nel medesimo testo normativo”.

Ciò posto, tuttavia, le questioni sono inammissibili per altre e diverse ragioni. Infatti, il giudice a quo non motiva in alcun modo sull’applicabilità, nei giudizi pendenti dinanzi a sé, della norma censurata. Né, sottolinea la Corte, avrebbe potuto farlo: dalle ordinanze di rimessione “… emerge, infatti, come i processi a quibus siano stati rispettivamente iscritti al ruolo generale degli anni 2014 e 2017; emerge quindi per tabulas che questi sono stati instaurati successivamente al periodo in cui ha prodotto effetti il differimento (trenta giorni dall’entrata in vigore, avvenuta il 21 agosto 2013, della legge di conversione) disposto dalla norma censurata”.

La disposizione in parola, pertanto, aveva ormai esaurito i propri effetti, con la conseguenza che il giudice a quo non avrebbe potuto farne applicazione, risultando, quindi, le censure che la investono carenti di rilevanza: di qui, la declaratoria di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 84, co. 2, d.l. n. 69 del 2013.

Ma – come in precedenza segnalato – lo scrutinio di costituzionalità si è dovuto estendere anche all’art. 5, co. 4, lettera a), d.lgs. n. 28 del 2010, che esclude l’obbligatorietà della mediazione, limitatamente alla fase monitoria, nei procedimenti per ingiunzione, in riferimento all’art. 3 Cost, in relazione al principio di eguaglianza. In effetti, pur non risultando tale disposizione indicata nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, il Collegio rileva che “…dalla lettura della sua motivazione si desume con chiarezza come le censure formulate investano anche questa”.

In particolare, il Tribunale di Verona osserva che la lesione del principio d’eguaglianza risulterebbe dal raffronto con la disciplina della negoziazione assistita da uno o più avvocati, di cui al d.l. n. 132 del 2014 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, in l. n. 162 del 2014 (disciplina, come è noto, applicabile controversie in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti, nonché, fuori da questo caso e da quelli previsti dall’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28 del 2010, alle domande aventi a oggetto il pagamento, a qualsiasi titolo, di somme non eccedenti cinquantamila euro).

Pur trattandosi in entrambi i casi di condizione di procedibilità della domanda giudiziale, tuttavia, ai sensi dell’art. 5, co. 4, lettera a), d.lgs. n. 28 del 2010, il procedimento di mediazione, benché non applicabile alle domande proposte in via monitoria, deve essere intrapreso nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, sia pure solo a seguito della pronuncia del giudice ex  artt. 648 e 649 c.p.c., sulle istanze di concessione e di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto stesso, mentre,  secondo quanto disposto dall’art. 3, comma 3, lettera a), d.l. n. 132 del 2014, nei medesimi procedimenti per ingiunzione la negoziazione assistita non deve essere esperita né nella fase monitoria né nel successivo, eventuale giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo.

Di conseguenza – secondo la ricostruzione del giudice a quo – detta diversità tra le due discipline finirebbe con l’integrare una violazione dell’art. 3 Cost., determinando una disparità di trattamento manifestamente irragionevole e in quanto tale incidente anche nell’ambito della disciplina degli istituti processuali.

Sul punto, va rilevato come la difesa statale avesse eccepito preliminarmente l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza – o, quantomeno, per difetto di motivazione su di essa – sottolineando l’omessa indicazione, da parte del Tribunale rimettente, del valore della causa oggetto del giudizio a quo, ciò che “…non consentirebbe di comprendere se nella fattispecie concreta possa, o meno, trovare applicazione la norma, evocata quale tertium comparationis, che disciplina la negoziazione assistita”. L’eccezione da ultimo menzionata, tuttavia, non è considerata pertinente dalla Corte, dal momento che, a prescindere dal tertium comparationis, il Tribunale di Verona era chiamato a decidere, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, sull’istanza di concessione della esecuzione provvisoria del decreto stesso, avente ad oggetto un credito derivante da un contratto di anticipazione bancaria, di talché vero è che il rimettente non aveva indicato specificamente il valore della causa sottoposta alla sua cognizione, ma altrettanto vero è che ciò non può assumere rilevanza, “…giacché questa ha ad oggetto un contratto bancario: a prescindere dal suo valore, essa rientra quindi, in ogni caso, nel novero di quelle soggette alla mediazione”.

La censura in parola, dunque, supera il vaglio di ammissibilità, in quanto “…ove dovesse essere ritenuta sussistente la dedotta irragionevole disparità di trattamento, con la conseguente espunzione di quella parte della norma censurata da cui deriva l’obbligatorietà della mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, si espanderebbe la disciplina generale dell’accesso incondizionato alla giurisdizione”. La questione, dunque, è rilevante, in quanto dal suo accoglimento deriverebbe che il giudice rimettente non sarebbe tenuto ad assegnare il termine per il deposito dell’istanza di mediazione.

Tutto ciò premesso e considerato, tuttavia, anche la censura in esame non può, ad avviso della Corte costituzionale, ritenersi fondata.

Certamente, entrambi gli istituti in esame – mediazione civile e negoziazione assistita – rientrano nel novero delle ADR e ad entrambi va ricollegato quell’intento deflattivo in funzione del quale il legislatore li ha strutturati in termini di condizioni di procedibilità della domanda giudiziale.

Tuttavia, come subito si vedrà, quanto precede non può in alcun modo considerarsi sufficiente al fine di poter affermare che situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, ciò che – se accertato – integrerebbe la sussistenza dell’asserito vulnus al principio di eguaglianza e, quindi, l’illegittimità della disposizione oggetto di scrutino per violazione dell’art. 3, Cost.

Ciò in quanto, come evidenziato dalla pronuncia in commento, “…il procedimento di mediazione è connotato dal ruolo centrale svolto da un soggetto, il mediatore, terzo e imparziale, là dove la stessa neutralità non è ravvisabile nella figura dell’avvocato che assiste le parti nella procedura di negoziazione assistita”.

Infatti, l’art. 3, co. 2, d.lgs n. 28/2010 espressamente prevede che il regolamento dell’organismo di mediazione debba garantire “…modalità di nomina del mediatore che ne assicurano l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico”; secondo l’art. 14 del medesimo decreto legislativo, inoltre, “…al mediatore e ai suoi ausiliari è fatto divieto di assumere diritti o obblighi connessi, direttamente o indirettamente, con gli affari trattati, fatta eccezione per quelli strettamente inerenti alla prestazione dell’opera o del servizio; è fatto loro divieto di percepire compensi direttamente dalle parti” (co. 1) ed è fatto inoltre obbligo di “…sottoscrivere, per ciascun affare per il quale è designato, una dichiarazione di imparzialità secondo le formule previste dal regolamento di procedura applicabile”, nonché di “informare immediatamente l’organismo e le parti delle ragioni di possibile pregiudizio all’imparzialità nello svolgimento della mediazione” (co. 2, lett. a e b).

Secondo la Corte, pertanto, laddove nella mediazione “…il compito – fondamentale al fine del suo esito positivo – di assistenza alle parti nella individuazione degli interessi in conflitto e nella ricerca di un punto d’incontro è svolto da un terzo indipendente e imparziale, nella negoziazione l’analogo ruolo è svolto dai loro stessi difensori: è conseguentemente palese come, pur versandosi in entrambi i casi in ipotesi di condizioni di procedibilità con finalità deflattive, gli istituti processuali in esame siano caratterizzati da una evidente disomogeneità”.

Assolutamente pertinente appare il richiamo, a titolo di riscontro, alla sentenza n. 98 del 2014, con la quale la Corte, chiamata ad esaminare “…la mediazione tributaria disciplinata dall’art. 17-bis del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (…) ha difatti rimarcato che la mancanza, in essa, «di un soggetto terzo che, come avviene per la mediazione delle controversie civili e commerciali disciplinata dal d.lgs. n. 28 del 2010 svolga la mediazione»” (…) “…se da un lato «comporta l’impossibilità di ricondurre la mediazione tributaria al modello di quella civilistica», dall’altro «induce a dubitare della stessa riconducibilità dell’istituto all’ambito mediatorio propriamente inteso»”.

In sostanza, dunque, l’evidenziata disomogeneità delle due fattispecie poste a confronto esclude in radice ogni possibilità di comparazione tra le stesse idonea a integrare l’asserita violazione dell’art. 3 Cost., non potendosi, pertanto, ravvisare un irragionevole trattamento differenziato nei confronti della mediazione, e, quindi, una scelta legislativa arbitraria, come invece ritenuto dal Tribunale rimettente.

Di particolare interesse appare, infine, la chiosa conclusiva della pronuncia.

La Corte costituzionale, infatti, osserva che “…la presenza di un terzo del tutto indipendente rispetto alle parti giustifica, infatti, le maggiori possibilità della mediazione, rispetto alla negoziazione assistita, di conseguire la finalità cui è preordinata e, pertanto, la scelta legislativa di rendere obbligatoria solo la prima, e non la seconda, anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo”.

In altri termini, dunque, il Giudice delle leggi intende sottolineare il fatto che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo “…il legislatore ha ritenuto inutile imporre la negoziazione assistita, giacché essa è condotta direttamente dalle parti e dai loro avvocati, senza l’intervento di un terzo neutrale”, a differenza, come detto, di quanto avviene con riferimento alla mediazione.

Le maggiori possibilità della mediazione, dunque.

Sia consentita, a tale proposito, solo una brevissima considerazione, all’esito delle note che precedono.

Secondo i dati statistici per il 2018 consultabili sul sito del Ministero della Giustizia, al di là di ogni altra considerazione per la quale la presente non è ovviamente la sede idonea, anche con riferimento allo scorso anno si conferma la tendenza alla crescita dell’istituto sia sotto il profilo della partecipazione al procedimento delle parti chiamate (cresciuto dal 48,2% del 2017 al 50,4% attuale), sia per quanto concerne gli accordi raggiunti: quando le parti ritengono sussistenti i presupposti per l’inizio effettivo del tentativo di mediazione la conciliazione si ha nel 44,8% delle procedure, rispetto al 43% del 2017.

Dati, quelli che precedono, che, se paragonati all’impatto della negoziazione assistita – nelle materie in cui la stessa è condizione di procedibilità della domanda giudiziale – pur con tutte le difficoltà e le incompletezze della rilevazione degli stessi (a differenza di quel che vale per la mediazione), sembrano giustificare appieno la summenzionata considerazione conclusiva esplicitata dai Giudici costituzionali in ordine alle maggiori possibilità della mediazione – rispetto alla negoziazione assistita – di conseguire le finalità cui è preordinata.

Ove si consideri che i procedimenti iscritti presso i tribunali relativi alle materie in cui la mediazione è condizione di procedibilità costituiscono circa il 9% del totale dei procedimenti iscritti nel settore civile, sembrerebbe potersi concludere che, laddove si intenda ottenere un maggior effetto deflativo dei carichi pendenti, dovrebbe essere incrementato il novero delle materie aventi regime di “mediazione obbligatoria ante causam”.

Con il che, naturalmente, si entra in una prospettiva de iure condendo.

Luigi Majoli – ADR Intesa

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