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La Corte di Giustizia Europea giustifica l’obbligatorietà della mediazione civile italiana

La Corte di giustizia sembra in qualche modo ”anticipare” la pronuncia della Corte costituzionale in materia di mediazione, attesa, come è noto, per il prossimo mese di ottobre.
La Corte, chiamata a decidere in sede di rinvio pregiudiziale sulla questione devolutale da un Giudice di Pace, osserva, in primo luogo, che ”…la mediazione obbligatoria, pur ponendosi come misura restrittiva rispetto all’accesso al giudice, è giustificata dal fatto che essa realizza legittimi obiettivi di interesse generale, tra cui quello della composizione più rapida delle controversie, che è fissato specificatamente nell’interesse delle parti”.
In particolare, il termine di quattro mesi non è considerato tale da comportare un ritardo nell’introduzione di un successivo eventuale giudizio.
Secondo i giudici del Lussemburgo, l’obbligo del tentativo di mediazione con riferimento a specifiche controversie rappresenta una misura ”idonea e non manifestamente sproporzionata” a perseguire obiettivi di fondamentale importanza quali la riduzione dei tempi di giustizia e la riduzione del contenzioso giudiziario, con evidenti ricadute positive in tema di efficienza complessiva dell’amministrazione pubblica.
Per quanto concerne le misure sanzionatorie, dirette ed indirette, previste dal decreto legislativo n. 28 del 2010, ad una prima lettura la posizione della Corte di giustizia appare più articolata.
Se da un lato, infatti, i giudici sembrano ritenere legittima la condanna al pagamento di una somma equivalente al contributo unificato dovuto nei confronti di chi non abbia partecipato, senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione, dall’altro maggiori perplessità suscita la previsione di conseguenze sfavorevoli, sul piano delle spese di giudizio, per la parte che non abbia ritenuto di accettare una proposta del mediatore, cui il provvedimento che definisce il giudizio dovesse poi pienamente corrispondere.
Sul punto, infatti, la Corte di giustizia sottolinea come un sistema sanzionatorio che ”…prevede che il mediatore possa e a volte debba, senza che le parti possano opporvisi, formulare una proposta di conciliazione che le parti sono indotte ad accettare per evitare di incorrere in determinate sanzioni economiche, non è in grado di consentire alle parti di esercitare il diritto di decidere liberamente quando chiudere il procedimento di mediazione e pertanto non appare in linea con la ricerca consensuale dell’accordo di mediazione”.
D’altra parte, in relazione a quest’ultimo profilo, non rappresenta certamente un dato casuale il fatto che i regolamenti della maggior parte degli organismi di mediazione prevedono che i mediatori possano avanzare proposte conciliative solo ed esclusivamente in presenza di un’istanza concorde in tal senso di tutte le parti.

Tempi di giustizia: misure acceleratorie in vista?

Interessanti novità emergono, con riferimento alla tematica del contenimento dei tempi di giustizia, dalla bozza del decreto relativo a ”Misure urgenti per il riordino degli incentivi, la crescita e lo sviluppo sostenibile”, che sarà all’esame del Consiglio dei Ministri verosimilmente nel corso della settimana entrante.
In sintesi, due appaiono gli interventi allo studio di maggior impatto:
1) La previsione di un termine di durata massima del processo fissato in 6 anni (3 anni per il primo grado, 2 per il secondo e 1 per il giudizio di Cassazione); tali termini rileverebbero dunque per il riconoscimento dell’equo compenso derivante dall’eccesiva durata del processo. L’entità dell’indennizzo sarebbe determinata dal giudice, in misura non inferiore a 500 euro e non superiore a 1500 per ciascun anno o frazione di anno, purchè superiore a sei mesi, che ecceda il termine di ragionevole durata; peraltro, il giudice potrebbe condannare al versamento di una somma a favore della cassa delle ammende non inferiore a 1000 € e non superiore a 10000 € nel caso in cui la domanda di accesso all’indennizzo risultasse inammissibile o manifestamente infondata.
2) Inoltre, la previsione di un vero e proprio filtro in appello, in base al quale il giudice dello stesso potrebbe dichiarare inammissibile l’impugnazione per la quale non ravvisi una ragionevole probabilità di accoglimento: come si vede, una autentica ”prognosi”, in ordine all’accoglibilità dell’appello. La pronuncia del giudice sarebbe comunque ricorribile in Cassazione, sia pure nei limiti dei motivi specifici dedotti in appello, e l’innovazione non opererebbe nelle cause in cui è previsto l’intervento obbligatorio del P.M. e, ovviamente, nell’ambito dei processi sommari di cognizione ex artt. 702-bis segg. c.p.c.