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Il verbale di conciliazione che accerta l’avvenuta usucapione non è idoneo alla trascrizione

In base a quanto previsto dall’art. 11, co. 3, D.lgs n. 28 del 2010, come è noto, possono essere trascritti soltanto gli accordi recanti gli atti e i contratti previsti dall’art. 2643 c.c.
Pertanto, il Tribunale di Catania, chiamato a pronunciarsi sul reclamo proposto dalla parte che si era opposta alla trascrizione dell’accordo conciliativo effettuata con riserva dal Conservatore dei Registri Immobiliari, ha stabilito l’inidoneità dell’accordo stesso alla trascrizione.
Si trattava, infatti, di verbale di conciliazione accertativo dell’usucapione, il quale, non realizzando alcun effetto costitutivo, traslativo o modificativo ma assumendo il valore di negozio di mero accertamento, non è in alcun modo riconducibile all’ambito applicativo dell’art. 2643 c.c.
Inoltre, l’accordo in esame non può essere nemmeno ricompreso nell’art. 2643 c.c., ipotizzandone una natura transattiva (e quindi riconducendolo alla categoria dell’art. 2643 n. 13 c.c.), né può essere assimilato agli atti previsti dall’art. 2645 c.c., difettando dei necessari requisiti previsti nella transazione, come ad esempio, le “reciproche concessioni” delle parti.
Inoltre, la trascrivibilità del verbale di accordo amichevole contenente l’accertamento dell’intervenuta usucapione, non può nemmeno ammettersi per il tramite dell’art. 2651 c.c., dal momento che tale norma prevede la trascrizione solo della sentenza accertativa dell’usucapione. Ed infatti, l’atto ricognitivo di diritti reali non può essere ricompreso tra i mezzi legali di acquisto della proprietà, configurandosi invece come semplice atto dichiarativo che, in quanto tale, presuppone che il diritto stesso effettivamente esista secondo un titolo, onde — in difetto di tale titolo — la parte non può logicamente crearlo e neppure rappresentarlo.

Tribunale di Catania, sez. I Civile, decreto 24 febbraio 2012
Presidente Morgia – Relatore Vitale

Parte ricorrente chiede, in seno al ricorso introduttivo, che il Tribunale adito, accertata l’illegittimità della riserva apposta alla trascrizione del verbale di accordo amichevole, ordini al Conservatore dei Registri Immobiliari di Catania di eliminare detta riserva ad ogni effetto di legge.
Espone in fatto che: in seno al procedimento di mediazione ai sensi del D.L.vo n.28/2010 l’avv. S. A., nella qualità suddetta, aveva riconosciuto la maturata usucapione dell’immobile sopra indicato in capo al Ld. Carmelo; il relativo verbale di accordo amichevole del 4.07.11 era stato omologato dal Presidente del Tribunale di Catania, ai sensi dell’art.12 del D.L.vo n.28/10, con decreto del 29.07.11; le sottoscrizioni apposte sul verbale medesimo erano state autenticate come previsto dall’art.11 comma 3 del citato decreto ai fini della trascrizione, dal notaio Cannizzo di Catania; alla richiesta rivolta della La Spina al Conservatore di procedere alla trascrizione del verbale in questione, il Conservatore aveva, tuttavia, dapprima opposto un rifiuto, indi proceduto a trascrizione con riserva.
Sostiene in diritto la trascrivibilità del verbale di accordo amichevole in oggetto in ragione, anzitutto, del carattere obbligatorio, ex art.5 del D.L.vo n.28/10, del procedimento di mediazione (il cui previo esperimento è, come noto, previsto da tale norma quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale in talune materie tra cui quella afferente ai “diritti reali”), da cui discenderebbe la necessaria attribuzione a detto verbale degli stessi effetti della sentenza, pena la vanificazione della finalità deflattiva perseguita dal legislatore con l’introduzione dell’istituto della mediazione.
A sostegno della propria tesi, adduce che lo stesso legislatore ha peraltro previsto che il verbale di accordo amichevole raggiunto in seno al procedimento di mediazione costituisce titolo trascrivibile, ciò attraverso la disposizione contenuta nell’art.11 comma 3 del più volte citato D.L.vo laddove è prevista l’autentica notarile della sottoscrizione del processo verbale di accordo amichevole al fine di procedere a trascrizione “se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’art.2643 c.c.”. La trascrivibilità del verbale di accordo amichevole in oggetto si fonderebbe, in particolare, sull’art.2651 c.c. che prevede la trascrivibilità delle sentenze di accertamento dell’usucapione, cui il verbale di accordo amichevole avente ad oggetto l’accertamento di analoga vicenda dovrebbe, sul piano degli effetti, essere equiparato.
Costituitosi all’udienza del 27.10.11, il Conservatore dei Registri Immobiliari di Catania chiede il rigetto del reclamo con argomentazioni giuridiche così riassumibili: il verbale di accordo amichevole, avente ad oggetto il riconoscimento della maturata usucapione, non è trascrivibile non potendosi ricondurre ad alcuno degli atti previsti dall’art.2643 c.c., espressamente richiamato dall’art.11 comma 3 D.L.vo n.28/10, in quanto esso non realizza alcun effetto costitutivo, traslativo o modificativo ma assume il valore di negozio di mero accertamento; l’art.2651 c.c. prevede la trascrizione solo della sentenza da cui risulta acquistato per usucapione uno dei diritti indicati dai nn. I, 2 e 4 dell’art.2643 c.c., con ciò escludendo la trascrivibilità degli atti negoziali sia pure produttivi dello stesso effetto della sentenza di accertamento dell’usucapione; la trascrizione del verbale di accordo amichevole, avente ad oggetto il riconoscimento dell’acquisto della proprietà a titolo di usucapione, minerebbe la certezza dei rapporti giuridici poiché consentirebbe alle parti di utilizzare l’istituto della mediazione non già per la composizione di una lite effettiva, bensì per “dissimulare operazioni negoziali ai danni di terzi, con seri pregiudizi alla circolazione dei beni”.
Con note di controdeduzione depositate all’udienza del 17.11.11, parte ricorrente contrasta le argomentazioni avversarie, in particolare sostenendo che il verbale di accordo amichevole in oggetto rientra nel novero degli atti previsti dall’art.2643 c.c. in quanto all’accordo amichevole di accertamento della maturata usucapione conseguirebbe un effetto modificativo di preesistenti situazioni giuridiche soggettive, perché l’accordo amichevole in questione comunque rientrerebbe nella previsione dell’art.2643 n.13 c.c. possedendo tutti i requisiti richiesti dall’art.1965 c.c. ai fini della sua qualificazione come transazione, perché esso rientrerebbe in ogni caso nell’alveo dell’art.2645 c.c. quale norma implicitamente richiamata dall’art.11 comma 3 del D.L.vo n.28/10.
In via subordinata, sollevava eccezione di illegittimità costituzionale dell’art.11 comma 3 del D.L.vo. 28/10 nella parte in cui tale norma non prevede la trascrizione del verbale di accordo amichevole di accertamento dell’usucapione, per contrasto con gli artt. 3,24 e 111 Costituzione.
Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
Va osservato, anzitutto, che il verbale di conciliazione contenente l’accertamento della intervenuta usucapione è – contrariamente a quanto sostenuto dal reclamante – inidoneo alla trascrizione poiché, in base all’art.11 comma 3 del D.L.vo n.28/10, possono essere trascritti solo gli atti e i contratti previsti dall’art.2643 c.c. laddove il verbale di conciliazione accertativo dell’usucapione, non realizzando alcun effetto costitutivo, traslativo o modificativo ma assumendo il valore di negozio di mero accertamento, non è in alcun modo riconducibile all’ambito applicativo dell’art.2643 c.c. Prive di pregio sono poi le argomentazioni difensive che pretendono di ricondurre l’accordo amichevole in oggetto all’ambito di previsione dell’art.2643 c.c. ipotizzando la natura transattiva (e quindi riconducendolo alla categoria dell’art.2643 n. 13 c.c.) ovvero assimilandolo agli atti previsti dall’art.2645 c.c., dovendosi di certo escludere la natura transattiva dell’accordo in questione per difetto dei necessari requisiti (“reciproche concessioni” delle parti) ed essendo, per altro verso, non risolutivo il richiamo all’art.2645 c.c. che, com’è noto, prevede la trascrivibilità di “ogni altro atto o provvedimento che produce in relazione a beni immobili o a diritti immobiliari taluni degli effetti dei contratti menzionati nell’art.2643 c.c.”.
La trascrivibilità del verbale di accordo amichevole contenente l’accertamento dell’intervenuta usucapione non può nemmeno ammettersi per il tramite dell’art.2651 c.c., dal momento che tale norma prevede la trascrizione solo della sentenza accertativa dell’usucapione. AL riguardo, è opportuno ricordare che il contratto di accertamento, definibile come il contratto mediante il quale le parti riconoscono l’esistenza o il contenuto di un loro rapporto giuridico preesistente, può avere ad oggetto – come generalmente ammesso sia in dottrina che in giurisprudenza – anche la proprietà e gli altri diritti reali. I negozi di accertamento della proprietà e degli altri diritti reali non hanno però efficacia costitutiva e non rientrano tra i modi di acquisto dei diritti reali, ma hanno piuttosto valore probatorio nel senso che valgono a provare tra le parti l’esistenza della situazione giuridica accertata, salva la possibilità per ciascuna parte di offrire prova contraria (ossia di provare che la situazione reale è diversa da quella accertata).
Ed infatti, secondo il sistema del diritto privato, l’atto ricognitivo di diritti reali non può essere ricompreso tra i mezzi legali di acquisto della proprietà, configurandosi invece come semplice atto dichiarativo che, in quanto tale, presuppone che il diritto stesso effettivamente esista secondo un titolo, onde – in difetto di tale titolo – esso non può crearlo e neppure rappresentarlo se non a quest’ultimo effetto, attraverso l’esplicito richiamo e la menzione del titolo stesso (vedi Cass. N. 20198/04, Cass.n.8365/00). Così, nel caso di specie, il negozio di accertamento dell’usucapione in favore dell’usucapiente dell’esistenza dei presupposti di fatto (possesso e tempo) al cui verificarsi l’acquisto del diritto di proprietà in capo al secondo opera, invero “ex lege” (stante la natura originaria ed il carattere automatico dell’acquisto per usucapione).
Ciò premesso, si comprende la ragione per la quale l’art.2651 c.c. prevede la trascrivibilità della sola sentenza accertativa dell’usucapione, e non del negozio di accertamento avente ad oggetto la medesima vicenda. Né la trascrivibilità del negozio di accertamento dell’usucapione, può desumersi in via interpretativa dal citato art.2651 c.c. ove si consideri che l’effetto accertativo di tale negozio rileva, come detto, su di un piano meramente probatorio tra le parti (rimuovendo l’incertezza tra le stesse circa i fatti a fondamento dell’acquisto a titolo originario, dispensando la parte a favore della quale il riconoscimento è stato compiuto dall’onere di provare il rapporto come accertato e ponendo a carico della parte che ha compiuto il riconoscimento l’onere della prova contraria), mentre la pronuncia giudiziale di accertamento dell’usucapione contiene un accertamento valevole “erga omnes” nel senso che la valutazione giuridica del rapporto operata dal giudice che ha pronunciato la sentenza, pur non esplicando tra la parte ed il terzo rimasto estraneo al giudizio la forza di giudicato nell’aspetto tipico considerato dall’art.2909 c.c., fa parte tuttavia di quella affermazione obiettiva di verità i cui effetti anche i terzi sono tenuti a subire (così Cass. n.10435/03, Cass. n. 7557/03).
Della sentenza accertativa dell’usucapione è perciò prevista la trascrizione (sebbene si tratti in questo caso di mera pubblicità-notizia, atteso che l’acquisto a titolo originario per usucapione si compie ed è efficace al maturare del periodo e dei requisiti richiesti dalla legge per usucapire il diritto ed esso è di per sé opponibile a qualsiasi terzo che accampi pretese sul bene, a prescindere dalla trascrizione della sentenza).
Chiarito, dunque, che nel vigente sistema la trascrizione del negozio di accertamento dell’usucapione non è prevista, va presa in considerazione la questione di legittimità costituzionale sollevata da parte ricorrente, incentrata sull’assunto che l’accordo amichevole stipulato in sede di mediazione, tanto più nei casi (come quello in esame) in cui il previo esperimento del tentativo di conciliazione è previsto come obbligatorio, debba avere gli stessi effetti della sentenza (pronunciata all’esito del giudizio che il positivo esperimento del procedimento di mediazione ha consentito di evitare) e debba quindi, qualora abbia ad oggetto l’accertamento dell’intervenuta usucapione, essere trascrivibile al pari della sentenza accertativa della medesima vicenda, dovendosi in caso contrario l’art.11 comma 3 del D.L.vo n.28/10 considerare illegittimo – per contrasto con gli artt.3,4 e 111 Cost. – nella parte in cui non prevede la trascrizione del negozio di accertamento dell’usucapione.
In proposito, va osservato che la questione proposta, sebbene non manifestamente infondata alla stregua dei principi costituzionali sopra richiamati e per le ragioni esposte dal ricorrente nelle note di controdeduzione, è tuttavia priva di rilevanza nel presente procedimento in relazione al petitium, avente ad oggetto l’eliminazione della riserva apposta dal Conservatore alla trascrizione del verbale di accordo amichevole intercorso tra le parti.
Alla luce delle superiori considerazioni, la questione di legittimità costituzionale sollevata da parte ricorrente va respinta.
Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e vanno poste a carico del reclamante.
P.Q.M.
Visti gli artt. 2674 bis e 113 ter c.c.;
Rigetta il reclamo proposto da La Spina Giuseppa quale rappresentante di Ld. Carmelo.
Condanna La Spina Giuseppa alla rifusione delle spese processuali in favore del Conservatore dei Registri Immobiliari di Catania che liquida in complessivi euro 1.200,00 di cui euro 400,00 per diritti di procuratore, il resto per onorario.
Il giudice.
Catania, 24 febbraio 2012

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Ancora su accertamento tecnico preventivo e mediazione

Il Tribunale di Siracusa, sezione II civile, con ordinanza dell’11 giugno 2012, torna a ribadire l’obbligatorietà del tentativo di mediazione nell’ipotesi di ricorso ex art. 696 bis c.p.c., ove lo stesso verta su una delle materie di cui all’art. 5, co. 1, D.lgs n.28 del 2010.
Il silenzio del legislatore, in merito alla mancata previsione del procedimento di cui all’art. 696 bis c.p.c. tra quelli indicati nel comma 4 dell’art. 5, pertanto, va interpretato come una tecnica di disciplina ed espressione di una scelta voluta.

TRIBUNALE DI SIRACUSA

Seconda Sezione Civile

Il giudice, dott. Fabio Salvatore Mangano,
esaminati gli atti relativi al procedimento iscritto al n. 1530/2012 e sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 28/05/2012;
Osserva
Con ricorso depositato il 23.4.2012, M.C. chiedeva disporsi consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 696 bis c.p.c.), deducendo la mancata esecuzione, da parte della conduttrice ASP di Siracusa, delle opere necessarie a ripristinare lo stato degli immobili concessi in locazione del 1.3.2000.
Si costituiva in giudizio la ASP di Siracusa, la quale chiedeva il rigetto della domanda contestando la pretesa della ricorrente e negando di dovere eseguire i lavori richiesti dalla stessa, anche in relazione al tenore della predetta previsione contrattuale.
All’udienza del 28.05.2012 il giudice invitava le parti ad interloquire in ordine al preventivo esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione (d. lgs. N. 28/2010) e le parti dichiaravano di non avere dato corso alla procedura di media-conciliazione, stante il carattere propedeutico dell’accertamento tecnico di cui all’art. 696 bis c.p.c. al successivo giudizio di merito.
La domanda è inammissibile.
Con il d. lgs. 28/2010, il legislatore ha recentemente introdotto l’istituto della mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili, prevedendo l’esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione che, nella prospettiva della deflazione del contenzioso civile, è previsto come condizione di procedibilità della domanda (per le materie indicate nell’art. 5 comma 1). L’art. 5 comma 3, del citato decreto legislativo afferma che lo svolgimento della mediazione non preclude, in ogni caso, la concessione dei provvedimenti cautelari e urgenti, mentre il successivo comma 4 contiene un elenco di procedimenti sottratti all’esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione.
Nel citato elenco non è incluso il procedimento di cui all’art. 696 bis c.p.c., sicché occorre domandarsi se la superiore elencazione abbia carattere tassativo ovvero esemplificativo e se, di conseguenza, il silenzio del legislatore sul punto debba essere interpretato come una lacuna o una tecnica di disciplina.
La risposta al superiore quesito necessita un breve approfondimento sulle caratteristiche e sulle peculiarità della consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi nonché sulla sua compatibilità con la procedura di mediazione.
L’istituto in oggetto, introdotto con la legge n. 80/2005, consente che sia disposta una consulenza tecnica prima dell’inizio della causa di merito, anche in assenza dello stato di periculum in mora cui la legge condiziona le operazioni peritali dell’art. 696 e, più in generale, ogni altra forma di istruzione anticipata. La finalità della norma è quella di consentire la deflazione del contenzioso allorché, all’esito della consulenza disposta dal giudice, questi proponga una soluzione conciliativa che, se andata a buon fine, viene racchiusa in un verbale di conciliazione che costituisce titolo esecutivo.
In realtà, sia la dottrina che la giurisprudenza hanno evidenziato la “duplice anima” dell’istituto in esame: la prima è quella che permette di utilizzarlo quale strumento di conciliazione della controversia tra le parti; la seconda è quella che riconosce il diritto alle parti di precostituire una prova al di fuori dei presupposti di sussistenza del periculum in mora. E’ stato correttamente osservato che l’istituto, a differenza dell’accertamento tecnico preventivo (art. 696), pare configurare una prova “in luogo del processo” e non “prima del processo” o “in vista del processo”, evidenziando con ciò il carattere non strumentale rispetto al successivo giudizio di merito e, diversamente, la funzione eminentemente conciliativa cui l’istituto è finalizzato. Secondo la prevalente giurisprudenza, l’istituto in esame deve essere considerato, nella sostanza, “uno strumento alternativo di risoluzione della controversia a scopo deflattivo del contenzioso civile e con fini, dunque, espressamente e primariamente conciliativi più che di cautela” (Trib. Busto Arsizio 25.5.3010; in questi termini, tra gli altri, Trib. Torino 31.3.2008), con la conseguenza che va esclusa la natura e la funzione cautelare dell’istituto in parola.
Operate tali premesse, occorre indagare la compatibilità tra il procedimento previsto dall’art. 696 bis c.p.c. con l’istituto della mediazione.
Ad avviso di questo giudice, la tesi sostenuta da talune recenti pronunce di merito, secondo cui “La consulenza tecnica (696-bis c.p.c) e mediazione (d.lgs. 28/2010) perseguano la medesima finalità, introducendo entrambi gli istituti un procedimento finalizzato alla composizione bonaria della lite, così da apparire tra loro alternativi e, quindi, apparendo le norme di cui al d.lgs. 28/2010 incompatibili logicamente e, quindi, non applicabili dove la parte proponga una domanda giudiziale per una CTU preventiva” (Trib. Varese, decreto 21.4.2011; si veda anche Trib. Pisa 3.8.2011), non appare condivisibile.
In primo luogo, milita a sostegno della tesi contraria l’argomento letterale per cui il legislatore del 2010 non ha previsto, tra i procedimenti sottratti al tentativo obbligatorio di mediazione, quello di cui all’art. 696 bis c.p.c.; del resto, escludendone la natura cautelare, lo stesso non può ritenersi compreso tra i procedimenti di urgenza o cautelari la cui trattazione è comunque garantita in ipotesi di svolgimento della procedura di mediazione.
Peraltro, l’argomento per cui entrambi gli istituti perseguirebbero la medesima finalità e, quindi, sarebbero tra loro alternativi, benché suggestivo, non convince. Invero, la ratio della disciplina introdotta col d.lgs. 28/2010 è quella di evitare l’instaurazione del rapporto con l’autorità giudiziaria, senza avere prima esperito la procedura di mediazione, nelle materie comprese nell’elenco di cui al primo comma dell’art. 5. Finalità che sarebbe facilmente elusa attraverso la proposizione di una domanda ex art. 696 bis c.p.c. volta all’esperimento di una consulenza tecnica preventiva che, in ipotesi di esito negativo della conciliazione, consentirebbe comunque di precostituire una prova da spendere in un successivo giudizio di merito.
Si tratta, allora, di interpretare il senso della asserita alternatività tra la procedura di mediazione e quella di cui all’art. 696 bis c.p.c. Se l’alternatività deve intendersi riferita alla fase procedimentale istaurata col ricorso ex art. 696 bis c.p.c., la soluzione sarebbe irragionevole oltreché antieconomica. Invero, in caso di esito negativo della conciliazione ex art. 696 bis c.p.c., si sarebbe costretti comunque, prima di proporre la domanda giudiziale di merito, ad attivare la procedura di mediazione. E, tuttavia, il procedimento di mediazione soffrirebbe della precostituzione di una prova, ottenuta in sede giudiziale, che minerebbe la terzietà della funzione che la legge ha voluto assegnare al mediatore. Peraltro, in tal modo, si otterrebbe un risultato in palese contrasto col principio costituzionale di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), laddove i due tentativi di conciliazione non dovessero raggiungere l’esito sperato della composizione della controversia e si profilerebbero come una sostanziale ripetizione l’uno dell’altro.
Se, invece, l’alternatività va intesa nel senso che la procedura di cui all’art. 696 bis c.p.c. è alternativa proprio alla mediazione, di tal ché la consulenza tecnica conciliativa sostituirebbe in toto la procedura disciplinata dal d.lgs. 28/2010, si arriverebbe comunque al risultato paradossale di sottrarre alla mediazione le stesse controversie che il legislatore ha previsto “obbligatoriamente” assoggettate alla predetta disciplina. Risultato che appare palesemente in contrasto con la finalità della norma e che, se praticato, consentirebbe di eludere facilmente l’accesso alla procedura della mediazione attraverso l’introduzione di un ricorso ex art. 696 bis c.p.c.
Né appare convincente l’assunto per cui vi sarebbe ontologica diversità tra il procedimento in cui l’esito conciliativo viene (se del caso) raggiunto all’esito della consulenza tecnica, con la procedura di mediazione. L’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 28/2010 prevede, infatti, che il mediatore, quando non possa procedere direttamente al raggiungimento dell’accordo, si può comunque avvalere di “esperti iscritti negli albi dei consulenti tecnici presso i tribunali”, sicché le modalità procedimentali di raggiungimento dell’accordo in sede conciliativa appaiono simili a quelle previste dall’art. 696 bis c.p.c., anche in ragione della maggiore duttilità del procedimento non giurisdizionale istaurato dinanzi al mediatore.
Infine non appare nemmeno convincente la tesi proposta dal Trib. Milano ord. 24.4.2012, secondo cui “quanto all’istanza di ATP svolta ex art. 696 bis c.p.c., se ne escluda in via preliminare l’improcedibilità per mancato pregresso esperimento di procedimento di mediazione, condizione che si reputa riferita ai soli procedimenti di natura contenziosa e non già ai procedimenti, quale il presente, con finalità di conciliazione della lite”, atteso che non pare, di contro, sussistano dubbi in ordine alla riconducibilità della consulenza tecnica a fini conciliativi nell’alveo della giurisdizione contenziosa (e non anche quella della volontaria giurisdizione): la stessa rubrica della norma fa riferimento alla sussistenza di una “lite” intorno ad un diritto di credito e, del resto, la cornice entro cui la stessa si iscrive è proprio quella di un procedimento contenzioso nel quale al giudice sono rimesse valutazioni ed attività che dovrebbero altrimenti essere compiute nel corso di un processo ordinario di cognizione.
Alla luce di quanto sopra, appare coerente con la lettera e lo spirito del d.lgs. 28/2010 ritenere che, laddove il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. verta su una delle materie di cui al primo comma dell’art. 5, lo stesso debba essere considerato inammissibile, stante la necessità di dover previamente instaurare il tentativo obbligatorio di mediazione. Il silenzio del legislatore, in merito alla mancata previsione del procedimento di cui all’art. 696 bis c.p.c. tra quelli indicati nel comma 4 dell’art. 5, pertanto, va interpretato come una tecnica di disciplina ed espressione di una scelta voluta.
Dalle superiori argomentazioni discende l’inammissibilità del ricorso presentato da M.C., considerato che la controversia riguarda l’avvenuto adempimento o meno di obbligazioni scaturenti da due contratti di locazione; materia che rientra tra quelle previste dal citato art. 5 comma 1.
In considerazione della novità della questione e della definizione del procedimento sulla base di un rilievo officioso, sussistono i presupposti di legge per compensare tra le parti le spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Il Tribunale di Siracusa, in persona del giudice designato nel procedimento ex art. 696 bis c.p.c., iscritto al n. 1530/2012:
– Dichiara inammissibile il ricorso;
– Compensa tra le parti le spese del presente procedimento.
Si comunichi.
Siracusa, 11.6.2012

Depositato il 14 giugno 2012

Mediazione-obbligatoria

Non può essere sanzionato il contumace che non aderisce all’invito a procedere al tentativo di mediazione

Con ordinanza del 13 giugno scorso, il Tribunale di Palermo, sezione distaccata di Bagheria, propone alcune interessanti osservazioni in merito alla sanzione prevista per la mancata risposta al tentativo di conciliazione obbligatoria.

Secondo quanto si afferma nel provvedimento, il Giudice può imporre la sanzione di cui all’art. 8, co. 5, D.lgs n. 28 del 2010, come modificato dalla L. n. 148 del 2011, in qualsiasi momento del giudizio e non ha alcuna discrezionalità nel comminarla. Questa, infatti, può essere inflitta solo “alla parte costituita“, pena la sua incostituzionalità, e viene devoluta allo Stato.

Il caso di specie riguardava una lite in materia locatizia tra due società.

 Il G.I. emetteva due ordinanze per il rilascio dell’immobile, per il mutamento di rito ai sensi dell’ art. 667 c.p.c. e per l’assegnazione dei termini per il tentativo di mediazione obbligatoria e contestuale fissazione della nuova udienza di comparizione delle parti.

L’attore notificava detto invito e alla sede legale della convenuta, e alla persona fisica che la rappresentava, senza peraltro specificarne tale qualifica, al suo privato domicilio. Questi non aderiva alla chiamata, eccependo l’irritualità e la tardività della notifica.

Il G.I., rilevando la manifesta infondatezza delle eccezioni sollevate, condannava la parte convenuta alla sanzione prevista dall’art. 8, co. 5, D.lgs n. 28 del 2010, ammettendo altresì le prove testimoniali e fissando di conseguenza l’udienza per l’assunzione delle stesse.

Ora, non essendo il termine relativo all’avvio del procedimento di mediazione presso l’organismo prescelto qualificabile come perentorio, non ha alcuna conseguenza il suo mancato rispetto “…ove l’udienza sia fissata dal giudice a data successiva rispetto a quella in cui il procedimento di mediazione si è esaurito o sono comunque già decorsi i 4 mesi dal tardivo deposito della domanda di mediazione. E pare difficile discriminare tale caso da quello in cui l’udienza cada prima della scadenza dei quattro mesi dal tardivo deposito della medesima domanda”.

In merito alla sanzione prevista nell’ipotesi di mancata comparizione, senza giustificato motivo, al tentativo di mediazione, va preliminarmente osservato come la stessa sia evidentemente contraddistinta da una funzione deterrente, finalizzata, cioè, ad evitare “…situazioni di tacito accordo tra i litiganti al fine di non far comparire il convenuto ed andare in giudizio a modico prezzo”.

Occorre inoltre rilevare il fatto che la sanzione in parola, pur avendo la valenza formale di un rimborso, non lo è e non è destinata a chi ha azionato la procedura, ma allo Stato che, in tal modo, viene ad incassare un doppio contributo unificato.

D’altronde, il soggetto che decide di non partecipare alla mediazione non ha alcun obbligo di giustificazione nei confronti del mediatore, ma deve chiarire la sua scelta solo ed esclusivamente dinanzi al giudice.

Trattandosi di una sanzione imposta dallo Stato e devoluta allo stesso, al giudice istruttore non potrà ovviamente essere riconosciuto alcun potere discrezionale: egli dovrà, di conseguenza, limitarsi ad irrogare la sanzione.

La parte, dunque, dovrà motivare e dimostrare le ragioni della sua assenza, mentre il giudice non potrà che condannarla ove le ragioni dell’assenza non siano da ritenersi giustificate

Circa il momento dell’applicazione della sanzione in esame, secondo l’ordinanza in commento il giudice istruttore potrebbe applicarla in qualsiasi momento del processo, dal momento che proprio la sua natura consentirebbe di erogarla anche prima della sentenza.

Naturalmente, prosegue il provvedimento, “…occorre che sia chiaro il motivo

della mancata comparizione, motivo che può essere esplicitato dal convenuto già in comparsa di risposta o alla prima udienza, con conseguente possibilità di emettere in quest’ultima sede la relativa condanna.

Non può essere comminata, perciò, sino all’udienza ex art. 183 c.p.c. ed all’esito dell’istruttoria, quando saranno dimostrate o meno le ragioni dell’assente. Qualora risultassero infondate, sarà automatica”.

Nessun dubbio, inoltre, ad avviso del Giudice siciliano, circa l’inapplicabilità della sanzione nei confronti della parte contumace.

La multa non sarà elevata al contumace al di là delle motivazioni della sua mancata costituzione, nella specie del tutto irrilevanti, posto che la intentio legislatoris risulti del tutto chiara: è sanzionata la “parte costituita”, perché altrimenti si aprirebbe un insanabile contrasto sia con i principi costituzionali (artt. 24 e 111 Cost.) sia con la ribadita funzione conciliativa e non coattiva della mediazione.

Infine, circa la data dalla quale la sanzione è applicabile, il provvedimento ovviamente la ritiene comminabile esclusivamente dalla entrata in vigore della L. n. 148 del 2011 (26 agosto 2011), nel rispetto dei principi di trasparenza, di irretroattività della legge e di correttezza dell’informazione, tanto più che non “…non ha natura processuale, ma contempla un illecito cui segue una sanzione”.

mediazione civile obbligatoria dl 69-2013 dlsg 28-2010

La Commissione giustizia del Senato ”frena” sui tagli in materia di geografia giudiziaria

Parere favorevole, anche se accompagnato da non pochi rilievi critici, da parte della Commissione giustizia del Senato in ordine al provvedimento del Governo con il quale si prevede la revisione della geografia giudiziaria italiana, contemplandosi, come è noto, la soppressione di 37 tribunali, 38 Procure e 220 sezioni distaccate.
In particolare, la Commissione ha posto la condizione rappresentata dalla salvezza dai tagli di 18 tribunali e 39 Sezioni distaccate.
Premessa una totale condivisione circa la finalità di garantire una più razionale organizzazione delle risorse umane e materiali in vista delle esigenze di risparmio di spesa e di incremento di efficienza, la Commissione si sofferma poi sulle criticità che ritiene meritevoli di ponderato riesame.
Innanzitutto, si rileva come nell’esercizio del potere delegato il Governo non si sia strettamente attenuto, nella individuazione degli uffici da mantenere o da sopprimere, a tutti i criteri di delega disattendendo, in particolare, quelli che impongono, da un lato, di tenere conto delle “specificità territoriali del bacino di utenza anche con riguardo alla situazione infrastrutturale” e del “tasso di impatto della criminalità organizzata” e dall’altro di assumere come prioritaria linea di intervento il riequilibrio delle attuali competenze territoriali, demografiche e funzionali tra uffici limitrofi della stessa area provinciale caratterizzati da rilevanti differenze dimensionali.
In secondo luogo, si osserva come una corretta applicazione dei principi e criteri direttivi implichi un’adeguata e funzionale presenza di uffici giudiziari sul territorio, ridimensionando dunque la portata ablativa del provvedimento in oggetto e prevedendo, altresì, che nelle sedi dei Tribunali in via di soppressione sia comunque mantenuta una sezione distaccata del Tribunale accorpante.
Non risulta poi condivisibile la decisione governativa di procedere alla soppressione di tutte le sezioni distaccate, specialmente ove si consideri che essa è accompagnata da una collaterale e altrettanto drastica riduzione degli uffici di Giudice di Pace.
Non si condivide altresì la soppressione delle sezioni distaccate con bacino d’utenza superiore a 100.000 abitanti e un carico di lavoro con una media, nel periodo 2006 – 2010 di oltre 4000 sopravvenienze, anche in considerazione dell’effetto negativo che si verrebbe a produrre sui Tribunali accorpanti.
Si reputa poi indispensabile il mantenimento delle sezioni distaccate in aree montane, per i disagi infrastrutturali che la loro soppressione comporterebbe, soprattutto nel periodo invernale, così come si auspica la conservazioni delle sezioni di Ischia, Lipari e Porto Ferraio, stante l’impossibilità per i cittadini in alcuni giorni di raggiungere la terraferma.
Infine, si sottolinea come non si sia tenuto in adeguato conto, ai fini della soppressione, il rapporto tra i costi attuali degli uffici e i costi di riallocazione, così come il problema della effettiva disponibilità e idoneità delle strutture immobiliari delle sedi accorpanti, per non parlare delle strutture già realizzate che resterebbero, una volta dismesse, prive di utilizzo.
In relazione alle evidenziate criticità, dunque, la Commissione propone opportuni accorpamenti in modo tale da consentire non solo economie di scala, ma anche e soprattutto di rispettare i prioritari criteri indicati nella legge delega, che impone di tener conto del bacino di utenza, anche con riguardo alla situazione infrastrutturale.
La parola, ora, ritorna la Governo.

Severino: da Avvocatura chiusura pregiudiziale nonostante disponibilità su riforma forense

Comunicato stampa del Ministero della Giustizia

1° agosto 2012

Avevo convocato un incontro con i rappresentanti dell’avvocatura per discutere del tema di un loro possibile contributo allo smaltimento dell’arretrato civile. I miei interlocutori hanno ritenuto che fosse pregiudiziale alla trattazione di questo tema sciogliere il nodo della legge professionale, preceduta dallo stralcio della posizione degli avvocati da quella di altre categorie professionali dal regolamento sugli ordini di prossima emanazione”. Lo afferma il ministro della Giustizia, Paola Severino, a conclusione della riunione con tutti i rappresentati dell’avvocatura tenutasi nel pomeriggio del primo agosto presso la sala Livatino nel dicastero di Via Arenula.

Ho manifestato la mia disponibilità a partecipare attivamente alla stesura della legge di riforma della professione forense che ne valorizzasse la specificità e di volerlo fare in tempi ristrettissimi, durante il periodo estivo, senza quindi che ciò ritardasse l’itinerario parlamentare e – prosegue il Guardasigilli –consentendo al governo di esprimere un parere più meditato sulla richiesta di sede deliberante in Commissione Giustizia della Camera. Ho preso atto di questa chiusura pregiudiziale. Sottoporrò la questione al prossimo Consiglio dei ministri che – conclude il ministro Severino – assumerà le conseguenti decisioni”.

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